[Editoriale introduttivo di Ecologie, menelique magazine #6, autunno 2021]
Nella scala dei tempi geologici, ci troviamo a vivere nell’antropocene, l’epoca in cui il pianeta è influenzato negativamente dall’impatto delle azioni umane, e in primo luogo dalle emissioni di anidride carbonica che stanno causando la crisi climatica. È chiaro che ormai non c’è più tempo, dobbiamo invertire la rotta del riscaldamento globale investendo tutte le nostre risorse in una economia green, ampliando il verde urbano, modificando i nostri comportamenti individuali, convertendo i settori industriali più inquinanti e innovando i processi produttivi e distributivi. L’obiettivo è quello della riduzione di emissioni inquinanti e della conservazione delle zone incontaminate, che si può ottenere solo attuando politiche che tutelino la biodiversità in aree protette e parchi nazionali.
Tutto questo sembra sensato, vero? Beh, in realtà non lo è. Ognuna di queste idee veicola, nel migliore dei casi, strategie inefficaci per la soluzione del problema e, nel peggiore, uno sguardo neocoloniale che si appropria della causa ambientalista (e di quella animalista) per veicolare rapporti di supremazia e potere.
La soluzione potrebbe venire da un mutamento più radicale: dobbiamo ripensare le relazioni che intratteniamo con l’ambiente e con l’animalità non umana, includendo nel nostro orizzonte una serie di Ecologie che conseguano a una rinuncia dei nostri privilegi e del nostro sguardo che identifica ciò che è altro (specie animali e vegetali, luoghi, culture, persone) come qualcosa che è a nostra disposizione.
L’alternativa è la progressiva distruzione degli ecosistemi in cui viviamo, quindi dovremmo chiederci, proprio come fa Victor Wallis, che apre questo #6 di menelique: Ecocidio o socialismo? Infatti, auspicare una green economy significa lasciare la soluzione nelle mani delle multinazionali che hanno causato il problema. Ecco perché abbiamo bisogno di un’economia socialista che sia influenzata da una coscienza ecologica: in una parola, ecosocialismo.
Allo stesso modo Alessia Gasparini, in Pagare col sangue, si chiede per quale motivo la responsabilità di usare assorbenti igienici usa e getta fatti in gran parte di plastiche e microplastiche inquinanti debba ricadere sulla persona che li acquista e non sulle aziende che le producono. Mentre Sarah Gainsforth preferisce denunciare la promozione del verde urbano come una parte dei processi di ecogentrificazione, greenwashing e turistificazione delle città. Il suo Oltre il verde urbano è quindi un articolo che interpreta la creazione dei parchi urbani (per esempio, il Central Park newyorchese) come strumento di controllo sociale e di moralizzazione delle classi sociali più povere e razzializzate.
Su un altro versante, quello del rapporto con gli animali, e nello specifico con i cani che vivono nelle nostre case, Claudia Marini e Veronica Papa, tra le istruttrici cinofile con più esperienza in Italia, indagano le relazioni di potere che involontariamente sviluppiamo con gli animali domestici che vivono in più del 52% delle case italiane (vedere l’infografica di Raffaele Sabella per credere). In Non è tuo figlio, Claudia Marini ci spiega come il ritenere il proprio cane un amico, un figlio o un partner, cioè il considerarlo come membro della propria famiglia, abbia diminuito la capacità dei cani di gestire spazi e socialità. Veronica Papa invece insiste su L’autonomia potenziale del cane: la cinofilia moderna insegna al cane a non prendere iniziative, a non valutare con la propria testa e a delegare ogni scelta all’umano, eseguendo solo ciò che gli viene indicato. Così facendo, però, neghiamo il suo diritto all’autonomia.
La sezione finale di FICTION-NON-FICTION approfondisce un tema poco discusso in Italia: la decolonizzazione dell’ambientalismo. Prakash Kashwan prova a Affrontare l’imperialismo verde, spiegando come si può decolonizzare l’ambientalismo e per quale motivo è urgente farlo. Partendo da un’analisi dell’eredità coloniale nascosta nell’ambientalismo bianco, procede verso una critica al concetto di antropocene e al conservazionismo. Critica condivisa da Karin Louise Espejo Hermes, che in Eco-logiche indigene affronta il tema della decolonizzazione dubitando del greenwashing operato dal WWF, la ONG con il panda carino come logo, e dimostrando come le comunità indigene sappiano bene come interagire con i propri territori e come preservarne la biodiversità senza interventi esterni. In alcuni casi, per evitare di perdere i propri territori, le comunità indigene sono costrette a imbracciare i fucili e, nel Chiapas messicano, anche i machete. Il giornalista Carlos Ivàn Molina Aguilar ci invia un reportage per spiegare come negli ultimi anni l’Autodifesa messicana sia stata arricchita, oltre che dallo storico esercito zapatista, da El Machete, un gruppo armato che ha lo scopo di proteggere le terre e le comunità dal narco-stato e dal capitale internazionale.
Provando a sviluppare pratiche intersezionali inedite, abbiamo scelto di inserire in questa sottosezione dedicata alla decolonizzazione dell’ambientalismo anche un articolo meridionalista: il Collettivo Epidemia, con Fuoco al capitale, ci ricorda come le terre della Puglia siano state manipolate per favorire la produzione di olio per illuminare le città e le industrie del nord Italia, impoverendo una delle zone più ricche di biodiversità. L’agroindustria, infatti, ha guidato una colonizzazione interna che ha reso le terre del Sud più recettive a desertificazione e agenti patogeni, come la Xylella.
Nelle pagine centrali di questo numero Matteo Lupetti, in Gaming e Ecologie, intervista Thomas Hawranke, Michelle Westerlaken e Brent Watanabe per scoprire come sia possibile progettare videogiochi per piante, per animali e per macchine. Mentre Jacopo La Forgia (Vita felice di un leopardo delle nevi) e Teodora Mastrototaro (Il Mattatoio) scrivono due racconti lucidi, a volte crudi, e essenziali per riflettere sull’animalità non umana, proprio come fanno con le loro poesie Pina Guitti, Simone Marcelli-Pitzalis e Olmo Losca.
Infine, in SGUARDO INTERNAZIONALE, parte dedicata alla traduzione di contenuti pubblicati all’estero, ma inediti in italiano, ospitiamo un articolo di Molly Lipson, pubblicato sull’ultimo numero di It’s Freezing in LA!, rivista militante anglofona dedicata al cambiamento climatico, e un estratto di una intervista in arabo di Dima Qa’idibiyya a Mouna Khalil, pubblicata originariamente da ALWARSHA (‹il workshop›), collettivo femminista e ambientalista libanese.
Chiudono il numero la conversazione di Giovanna Maroccolo con l’artista Patrick Lopez Jaimes e la sezione Kulture:Room, composta da una serie di recensioni di serie tv, letteratura, saggistica e musica a tema ambiente e animalità; mentre estendono l’indagine su questi temi i 7 articoli pubblicati negli Episodi Online di questo #6, che portano le firme di feminoska, Augusto Illuminati, Stella Levantesi, Jess Auerbach, Roberto Marchesini, Lyne Odhiambo e Joycelyn Longdon.
Pur non facendo uso dello schwa (‹ə›), questo editoriale fino a qui è stato scritto cercando di evitare usi sessisti della lingua italiana (come quello del maschile per indicare gruppi composti sia da donne, che da uomini, che da persone non binarie). Ma noi tuttə in menelique siamo felici di aver lavorato al primo numero, quello che hai tra le mani, pubblicato in seguito all’inserimento di questo simboletto nella nostra guida di stile. Questa scelta risponde all’esigenza di evitare il maschile sovraesteso e di riconoscere anche tramite l’uso della lingua la piena dignità delle soggettività non binarie. Consapevoli che questa scelta può creare difficoltà di lettura a persone con dislessia, abbiamo cercato di limitarne l’uso, ma questo è solo l’inizio di un cammino che ci porterà a includere nella lingua con la quale è scritto menelique sempre più elementi sperimentali, magari ereditati da usi dialettali, con il fine di scoprire nuove intersezioni tra lotte per la parità dei generi e meridionalismo. Per esempio, come versione neutra del pronome di terza persona (‹lei›, ‹lui›, ‹loro›) proponiamo ‹essə›, al posto del più barocco ‹ləi›. Con questa idea cerchiamo di recuperare i pronomi ‹esso/essa›, ormai caduti in disuso, e vorremmo esprimere un evidente riferimento ai pronomi ‹isso/essa› del dialetto campano.
In fondo, non sarà la norma editoriale più strana che si nota leggendo menelique: l’uso delle virgolette singole basse (‹ ›) potrà sembrare bizzarro, ma soprattutto la completa assenza di ‹d› eufoniche era e è la regola che continuerà a far storcere il naso a quella persona convinta che la lingua debba rimanere immutata, perlomeno dai tempi in cui andava a scuola. Ma a essə non siamo interessatə.