Sulle violenze e gli abusi in rete in Italia

di Carola Frediani /
1 Dicembre 2021 /

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Condividiiamo un estratto dalla rubrica settimanale Guerre di Rete, del 28 novembre 2021

Troppi gli italiani che perpetuano abusi diffondendo immagini intime non consensuali
Sarebbero più di 3 milioni gli utenti italiani che nei canali Telegram condividono immagini intime non consensuali. Sono i numeri diffusi dall’ultimo aggiornamento del report di PermessoNegato APS, associazione no-profit che offre supporto alle vittime di quello che viene generalmente chiamato Revenge Porn, ma che ovviamente nulla ha a che fare con la revenge (vendetta) né col porn (pornografia) come viene comunemente inteso (qui c’è un articolo interessante che spiega – in inglese – la problematicità di tale definizione secondo varie vittime e studiosi del campo). 

Un fenomeno che appare in crescita, almeno in Italia. L’osservatorio permanente di PermessoNegato ha infatti rilevato la presenza sulla rete di: 190 gruppi/canali Telegram attivi nella condivisione di questo genere di contenuti destinati a un pubblico italiano; 8.934.900 utenti non unici registrati ai suddetti gruppi/canali; 380.000 utenti unici nel canale più grande preso in esame. Nei 12 mesi trascorsi dall’ultima indagine l’osservatorio ha registrato anche il raddoppio dei Gruppi/Canali Telegram che condividono/ricondividono tali contenuti. Va ricordato che questa forma di violenza colpisce in maggioranza le donne.

“La maggior parte delle richieste di aiuto hanno ad oggetto non solo il supporto tecnologico per ottenere la rimozione di questi contenuti – commenta a Guerre di Rete l’avvocato Nicole Monte, del team di 42LF, che con Lucia Maggi e Giuseppe Vaciago è partner di PermessoNegato e coordina l’area legale –  ma anche un primo indirizzo per l’esercizio dei propri diritti, spesso sconosciuti o incomprensibili. È sorprendente come la nostra, pur essendo una generazione tecnologica che ha inevitabilmente trasposto fenomeni analogici nel digitale, abbia comunque difficoltà nel reperire informazioni su come tutelarsi da quello che rappresenta non soltanto un danno alla reputazione digitale ma una violenza vera e propria. In questo tipo di condotta, la cosa più grave è il victim blaming, conseguenza di retaggi culturali patriarcali: la vittima troppo spesso si sente responsabile per ciò che subisce, si sente colpevole per avere realizzato il contenuto o per il solo fatto di avere un profilo su un social network. Mentre è chiaro il disvalore della condotta della diffusione di un contenuto sessuale su carta stampata, sembra ancora difficile comprendere che quella stessa condotta è molto più grave se commesso in rete. La verità è che dobbiamo compiere un balzo generazionale e comprendere che, nella nostra identità digitale, abbiamo gli stessi diritti e libertà fondamentali di cui godiamo nella vita di tutti i giorni”.

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