Il Presidente e la sua Corte, così è nato il sistema Salerno

di Isaia Sales /
8 Novembre 2021 /

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Le regole e l’ascesa di Vincenzo De Luca: asservire tutte le attività amministraive a un solo uomo, cioè lui, per diventare il controllore assoluto di ogni attività economica che passava dal Municipio

Per ora nessun dirigente nazionale del Pd ha preso posizione sull’avviso di garanzia a Vincenzo De Luca per corruzione nell’inchiesta della procura di Salerno sugli appalti alle cooperative sociali. Se i presidenti della regione Emilia Romagna, della Puglia o della Toscana fossero stati indagati per corruzione, penso che il segretario nazionale del Pd avrebbe espresso incredulità e vicinanza sicuro che il prosieguo delle indagini avrebbe dimostrato l’estraneità dalle accuse di esponenti così importanti del Pd e delle istituzioni. Se finora ciò non è avvenuto, vuol dire che non si tratta di semplice imbarazzo ma dell’avvio di una presa di distanza da Vincenzo De Luca. Può darsi che oggi stesso o nei prossimi giorni questa mia valutazione sarà smentita da qualche roboante dichiarazione di sostegno, ma per ora, lo ripeto, il silenzio va interpretato come l’avvio di un allontanamento del Pd dalla famiglia De Luca. 

D’altra parte è noto anche ai dirigenti nazionali del Pd che ciò che è stato scoperchiato dalla magistratura è alla radice del sistema deluchiano fin da quando divenne sindaco della città nel 1993. All’epoca si assistette alla trasformazione di un ex estremista di sinistra in un uomo di potere che applicò tutti i metodi clientelari che rimproverava agli avversari. Fu la magistratura a spianargli la strada arrestando un amato sindaco socialista, poi assolto. Ma sul sostegno di pezzi della magistratura salernitana al sistema deluchiano parleremo in un prossimo articolo.

Sta di fatto che fu applicato a Salerno il programma leninista della cosiddetta Nep (Nuova politica economica) con cui il leader sovietico cercò di non spaventare i ceti più agiati della società russa. Ma la parola d’ordine di De Luca “Arricchitevi” (sì, fu questo il suo slogan) era rivolta essenzialmente ai costruttori edili, che ne hanno seguito appieno il consiglio diventando i suoi principali sostenitori e assumendosi tutto il peso della sua ascesa da leader locale a leader regionale. 

Il suo “grande programma” era in effetti una nuova versione del ciclo edilizio come volano dello sviluppo che un uomo di sinistra non poteva certo chiamare così, e fu appellato infatti “urbanistica contrattata” culminata nella costruzione di una muraglia cinese sulla spiaggia (il Crescent) spostando il letto di un fiume e impedendo lo sguardo al mare a migliaia di salernitani che abitano a ridosso. E con una piazza così desolata e sproporzionata che sembra fatta per grandi raduni per omaggiare un capo. 

Il suo secondo slogan fu “Il socialismo in una sola città”, adattando a Salerno quello staliniano de “Il socialismo in un solo Paese”. Ma come realizzare un controllo pieno sulla città? L’escamotage fu semplice e rozzo: asservendo tutte le attività amministrative a un solo uomo, cioè lui, che divenne il controllore assoluto di ogni attività economica che passava dal municipio. E per strutturare il sistema in maniera tale da renderlo una permanente macchina clientelare del consenso, furono allargate le società partecipate del comune, in cui piazzò tutti i suoi uomini. L’operazione fu così capillare che Salerno arrivò a contare ben 48 aziende partecipate con 305 membri dei consigli di amministrazione e 184 revisori dei conti con migliaia di assunzioni per chiamata diretta. Il direttivo dell’allora Pds (ex Pci) arrivò ad essere composto per metà dai membri delle società partecipate! Quando poi il blocco delle assunzioni minacciò l’erogazione dei principali servizi, si diede vita al sistema delle cooperative sociali fasulle, scelta che partì dal vertice della piramide politica. E mentre per le assunzioni nelle partecipate si faceva ricorso a società interinali compiacenti, con le cooperative non c’era bisogno di questo espediente perché la scelta dei soci-dipendenti era fatta dai referenti politici (tutti deluchiani) che a ciascuna di esse erano stati assegnati. Il ras di questo mondo opaco, Fiorenzo Zoccola, sostiene che in piena pandemia il presidente, che nel frattempo aveva spostato la sede della regione al Genio civile di Salerno e sbraitava contro i campani non rispettosi delle regole, si occupava della regola del 30 e 70%, cioè della rigida ripartizione dei voti tra i suoi dioscuri, Picarone e Savastano! 

Ma perché mai Zoccola deve obbedire a De Luca e perché De Luca si deve servire di Zoccola? Semplice: per un calcolo di convenienza economica e politica. Zoccola sa che è De Luca l’esclusivo referente del sistema; se lui crolla, insieme a lui si sfascia il sistema per cui Zoccola è diventato ricco e potente. E perché De Luca ha bisogno di Zoccola? Perché il suo sistema resiste solo se il meccanismo elettorale non si inceppa per troppa e scorretta concorrenza tra i suoi delfini. Un sistema circolare e chiuso, una macchina perfettamente oleata e finalizzata ad un unico scopo: procacciare i voti necessari per sopravvivere ed espandersi. E con queste modalità di condizionamento del voto, si diventa consiglieri comunali o regionali, sbarazzandosi della concorrenza di altri più bravi e capaci. 

È una tradizione dei comunisti intransigenti quella di transigere successivamente nel corso della loro vita. Il loro ego si è dimostrato più esigente dei loro ideali di gioventù. Il comunismo, nei suoi presupposti ideali e morali, è a suo modo altruismo, una delle più complesse e ambigue forme di generosità. Ma alcuni di quelli che hanno rinunciato agli ideali comunisti hanno voluto dare un contenuto ideologico alla clientela politica, che nel frattempo avevano scelto di praticare: cos’è in fondo la clientela se non una forma di generosità verso chi non ha lavoro? E con questo ragionamento sono passati da Stalin a Gava! 

Ma la clientela è in realtà una falsa generosità sia nella versione cattolica sia in quella comunista. Se i codici penali e la magistratura la definiscono come voto di scambio, in politica lo si può definire “egoaltruismo”, fare qualcosa per gli altri in cambio di qualcos’altro, cioè il consenso elettorale. La clientela è, dunque, una generosità interessata, mentre quella vera è totalmente disinteressata e si basa sul dare agli altri qualcosa di tuo, sia esso tempo, soldi, assistenza. La clientela è, quindi, il massimo equivoco dell’altruismo perché dà agli altri cose che non appartengono a chi le dona. In politica è ancora più grave perché seleziona i peggiori e toglie possibilità di competizione a coloro che non la praticano. 

Molti apprezzano i clientelari per il coraggio che hanno di aggirare le norme. È una questione lunga quanto la storia dell’umanità: il coraggio annulla di per sé le cose negative che in base ad esso si fanno? Un coraggioso lo è al di là degli scopi che vuole raggiungere? Sono le domande che Graham Greene si pone ne Il fattore umano, che ci interrogano anche nel caso di Salerno. La mia risposta è semplice: se hai il coraggio di aggirare le regole per un vantaggio personale, sei un pericoloso arrampicatore sociale e non un coraggioso amministratore.  

Questo articolo è stato pubblicato su La Repubblica Napoli il 7 novembre 2021

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