Caso Lucano: la giustizia rovesciata

di Domenico Gallo /
9 Ottobre 2021 /

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Sconcerto ed incredulità ha suscitato la sentenza del Tribunale di Locri che il 30 settembre ha condannato alla pena di 13 anni e due mesi di reclusione l’ex sindaco di Riace a cui è stata contestata una serie impressionante di delitti, tutti collegati a quell’attività di accoglienza ed integrazione dei migranti che ha costituito un esempio ed un modello apprezzato in tutto il mondo. Si tratta di “una pagina nera nella storia della Repubblica”, ha osservato il costituzionalista Massimo Villone, mentre il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli ha parlato di sentenza scandalosa, espressione di una forma di settarismo giudiziario, da cui potrebbe anche “derivare un danno al senso morale del paese”. Poiché i giudici hanno applicato – a modo loro – la legge e vagliato una serie di condotte alla luce di fattispecie penali di diritto comune, si potrebbe intravedere una sorta di conflitto fra legge e morale, fra la legalità e la giustizia. Non è questo il problema.

Punire la malversazione di fondi pubblici non è certo contrario alla morale o alla giustizia: però fra la legge e la giustizia c’è di mezzo il ruolo del giudice. E’ la giurisdizione che fa vivere le leggi e costruisce una risposta di giustizia o meno. Come ha osservato Livio Pepino, “le sentenze non si valutano in base all’utilità contingente o al gradimento soggettivo ma alla luce della loro conformità ai principi costituzionali, alle regole del diritto e alle risultanze processuali. Ed è proprio questa conformità che manca nel caso di specie”. Mutatis mutandis, la vicenda del sindaco di Riace è simile a quella di Danilo Dolci che fu tratto a giudizio nel 1956 per le conseguenze penali di un’azione di disobbedienza civile, lo “sciopero al contrario” effettuato dai disoccupati nelle campagne di Partinico. Dolci fu accusato di violare la legge, quali che fossero le sue motivazioni, e per questo doveva essere punito.

E’ rimasta memorabile l’arringa a sua difesa di Piero Calamandrei (richiamata da Avvenire del 2 ottobre): “il pubblico ministero ha detto che i giudici non devono tenere conto delle ‘correnti di pensiero’. Ma che cosa sono le leggi se non esse stesse delle correnti di pensiero? Se non fossero questo non sarebbero che carta morta. E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarci entrare l’aria che respiriamo, metterci dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue, il nostro pianto. Altrimenti, le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante esse vanno riempite con la nostra volontà.”
E’ difficile pensare che con questo verdetto i giudici di Locri abbiano santificato la legge, al contrario, come ha scritto Luigi Manconi “in questa sentenza si avverte il pericolo di una «certa concezione ideologica destinata a sanzionare la politica dell’accoglienza come interpretata da Lucano e a penalizzare quel diritto al soccorso che costituisce il fondamento stesso dell’intero sistema dei diritti universali della persona ».


“L’intervento giudiziario – osserva Livio Pepino (volere la luna) – presenta sempre ampi margini di discrezionalità, cioè di scelta. Le pene previste per i reati variano da un minimo a un massimo, spesso con una forbice assai ampia, e la loro determinazione va effettuata dal giudice tenendo conto della gravità del fatto e delle caratteristiche del condannato; non solo, esistono attenuanti e cause di esclusione della punibilità legate a giudizi che è il giudice a dover formulare interpretando i princìpi fondamentali dell’ordinamento.” Nel caso di specie i margini di discrezionalità sono stati tutti utilizzati in odio all’imputato: la pena scelta dai giudici per Lucano è quasi doppia rispetto a quella richiesta dal pubblico ministero e superiore a quelle inflitte ai responsabili di “mafia capitale” e a Luca Traini per il raid razzista di Macerata del 3 febbraio 2018, pur qualificato come strage. Questa sentenza rappresenta davvero l’esito di quello che Cesare Beccaria definiva «un processo offensivo», dove «il giudice diviene nemico del reo».

Quando il giudice fallisce nell’interpretare il suo ruolo, fallisce la giustizia e si rovescia nel suo contrario. Se la giurisdizione viene meno al suo compito e si ritira dal suo ruolo, trincerandosi dietro un’interpretazione pedestre della legge, è la salute della Repubblica che viene messa in discussione.

Nel processo di Locri la giurisdizione è stata ridotta dalla maestà di una “divinarum atque humanarum rerum notizia” ad una “meccanica esercitazione di codice”. Questo metodo – denunziava uno dei maestri carismatici del diritto, Domenico Barbero – “ha prodotto l’ambiente e le condizioni tecniche ideali per la dittatura fascista. Che non sarebbe forse passata con una giurisprudenza più cosciente e, pertanto, più gelosa della sua superiorità della sua funzione; e che potrebbe anche ripresentarsi se la giurisprudenza non si affretta a prendere coscienza di codesta superiorità, a rifarsi un abito mentale che ripristini la ragione, dovunque sia bandita..fosse anche dalla legge, e a considerare sé stessa non come fucina di sentenze ottenute meccanicamente attraverso l’introduzione di un articolo di legge, ma fattrice di giustizia indagata e, se occorre, faticosamente rintracciata al vaglio di tutti gli elementi di ragione, chiudendo anche arditamente la porta di fronte a chiunque pretenda di entrare nel suo stesso tempio a portarvi la profanazione con lo stivale speronato o con la faccia infarinata.”

Questo articolo è stato pubblicato su domenicogallo.it l’8 ottobre 2021

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