Il governo si è dimenticato degli operai della Whirlpool

di Angelo Mastrandrea /
16 Settembre 2021 /

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Quando sono rientrati al lavoro dopo un mese e mezzo di lockdown, il 27 aprile, Gennaro Fardella e Maria Rosaria Sagliocco si sono sentiti come dei “condannati a morte”. L’11 aprile Gilles Morel, vicepresidente della multinazionale statunitense Whirlpool, aveva detto che “l’impianto di Napoli, nonostante gli investimenti, non era sostenibile prima del covid”, aggiungendo che “la pandemia ha aggravato la situazione”, e che per questo la fabbrica di lavatrici avrebbe fermato la produzione alla fine di ottobre. La notizia li ha gettati nello sconforto.

Dopo un anno di scioperi e presidi per impedire che i macchinari fossero smontati e portati via dallo stabilimento di via Argine – costruito dalla Ignis nel 1957, passato alla Philips nel 1972 e finito alla Whirlpool all’inizio degli anni novanta – avevano interpretato come un segnale positivo il fatto che la produzione fosse continuata anche durante il blocco delle attività imposto dal governo Conte il 9 marzo. La fabbrica era rimasta aperta fino al 19 marzo, perché allora la proprietà la considerava “strategica”. Poi era stata costretta a chiudere, come molte altre aziende, e gli operai erano stati messi in cassa integrazione. Meno di un mese dopo l’azienda avrebbe voluto riportarli al lavoro, ma non è stato possibile perché mancavano le condizioni per garantire la sicurezza.

Le dichiarazioni di Morel non sono state un fulmine a ciel sereno. È da un anno che la Whirlpool cerca di lasciare lo stabilimento di Napoli, un piccolo gioiello con standard tecnologici e produttivi molto alti. L’intenzione è quella di spostare la produzione in Polonia e in Cina, dopo aver già ridimensionato il polo casertano di Carinaro, trasformandolo in un deposito di pezzi di ricambio. Il 16 gennaio, durante una riunione al ministero dello sviluppo economico, l’amministratore delegato per l’Italia Luigi La Morgia ha sostenuto che l’impianto di Napoli perde venti milioni di euro all’anno e dunque non è più sostenibile. Chi era presente ricorda una frase del ministro Stefano Patuanelli (Movimento 5 stelle), che ha fatto storcere la bocca ai rappresentanti dei lavoratori: “Non ho strumenti per fermare una multinazionale”.

In una buca delle lettere
In realtà, dicono i sindacati, uno strumento per costringere la Whirlpool a non delocalizzare ci sarebbe. È il piano industriale 2019-2021, firmato il 25 ottobre 2018 dall’allora ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio insieme ai rappresentanti dell’azienda, dei sindacati e delle regioni che ospitano gli stabilimenti. L’accordo concederebbe alla Whirlpool ammortizzatori sociali e incentivi economici, in cambio di un investimento di 17 milioni di euro per creare a Napoli un polo per la produzione di lavatrici di alta gamma. L’intesa però è stata rimessa in discussione dai proprietari dopo appena sei mesi, senza nessuna obiezione da parte del ministero. Il 31 maggio 2019 hanno detto ai sindacati che la fabbrica sarebbe stata chiusa di lì a qualche mese. “Ci mostrarono un grafico con tutti gli stabilimenti europei, solo quello napoletano era barrato con una X rossa”, ricorda Vincenzo Accurso, rappresentante della Uilm.

Poco dopo, i lavoratori hanno ricevuto una lettera nella quale veniva annunciato il loro trasferimento a un’altra società, la Passive refrigeration solutions (Prs), una start-up dai finanziatori sconosciuti, che non ha neppure un sito web e non ha mai prodotto niente. La sede è al numero 16 di corso Elvezia, a Lugano. Una “buca delle lettere”, come l’hanno definita i mezzi d’informazione svizzeri. Dopo una serie di proteste degli operai, uno sciopero generale il 31 ottobre 2019 e l’intervento del governo, la cessione è stata sventata, ma degli investimenti previsti si è persa ogni traccia. “Il fatto che un accordo firmato dal governo non sia rispettato rappresenta un precedente molto grave per l’Italia, purtroppo il primo a non rendersene conto è stato il ministro Patuanelli”, dice Accurso. “Significa che tutti possono sottoscrivere un accordo al ministero e poi rimangiarsi la parola il giorno dopo senza pagarne le conseguenze”, gli fa eco il segretario napoletano della Fiom-Cgil, Rosario Rappa.

Al termine della riunione di metà gennaio il ministro dello sviluppo economico ha proposto di affidare a Domenico Arcuri, allora amministratore delegato di Invitalia, il compito di cercare un compratore per lo stabilimento napoletano. L’amministratore delegato per l’Italia, La Morgia, aveva acconsentito. Ma il 16 marzo Arcuri è stato nominato commissario straordinario per l’emergenza covid-19 e al governo nessuno si è più occupato della Whirlpool.

Un lento esodo
Per Gennaro Fardella e Mariarosaria Sagliocco la fabbrica di via Argine è come una seconda casa. Hanno ereditato il posto dai loro genitori, come quasi tutti i dipendenti napoletani. È il modo in cui da sempre l’azienda si è assicurata il sostegno dei lavoratori, che con la prospettiva di lasciare il posto di lavoro ai figli la consideravano come una sorta di bene comune. “Ci conosciamo da sempre, i nostri genitori si frequentavano, siamo una comunità”, raccontano. Fardella ha 42 anni, è stato assunto nel 2001 e per quattro anni ha lavorato al fianco del padre, finché questi è andato in pensione. Sagliocco ha 36 anni e ha cominciato anche lei nel 2001. Suo padre era un delegato sindacale della Uil. Si sono innamorati alla catena di montaggio e tre anni fa hanno avuto un bambino. Vivono insieme in una casa popolare poco distante dallo stabilimento.

Il 27 aprile scorso sono arrivati ai cancelli dell’azienda, si sono fatti misurare la temperatura con il termoscanner, hanno indossato guanti e mascherine e si sono rimessi al lavoro. Lui all’impianto che sforna le lavatrici grezze, lei al reparto montaggio. Nessuno dei due ha pensato che i loro sforzi sarebbero serviti a qualcosa. “È dura sapere che tra pochi mesi entrambi perderemo il nostro posto di lavoro”, dicono.

Dopo dieci anni di stati di crisi, casse integrazioni e contratti di solidarietà che hanno ridotto gli stipendi a un migliaio di euro al mese in media, tanti non hanno retto di fronte all’annuncio della chiusura. Dopo l’intervista a Morel, in quattordici hanno gettato la spugna, accettando la buonuscita di 75mila euro proposta dall’azienda.

In realtà il lento esodo dei lavoratori è cominciato già un anno fa. Erano 420, ora sono 350. “Non è stata una scelta libera, in condizioni normali non se ne sarebbero andati, molti hanno preso i soldi offerti dall’azienda per ripagare debiti contratti a causa della riduzione dei salari”, denuncia Accurso. Finora nessuno di loro ha trovato un altro lavoro.

Il 30 aprile il Wall Street Journal ha scritto che per il 2020 la Whirlpool ha previsto un calo di fatturato tra il 13 e il 18 per cento a causa della pandemia. Per questo, scrive il giornale, l’azienda ha deciso di tagliare 500 milioni di dollari su manodopera e altri settori.

Sul destino dello stabilimento napoletano intanto aleggia ancora lo spettro della Prs. Secondo La Morgia l’azienda italo-svizzera “avrebbe garantito tutti i lavoratori”. Ma gli operai non si fidano.

Molti di loro non vogliono arrendersi. In ballo ci sono le sorti di 350 persone e di un altro migliaio che lavorano nell’indotto. Una petizione lanciata il 13 maggio scorso per chiedere l’intervento del governo ha raccolto 18mila firme in pochi giorni. “L’azienda è disposta a sacrificare i nostri posti e la sicurezza delle nostre vite in un momento di crisi mai vista? Siamo persone e oggi più che mai pretendiamo di essere ascoltati”, scrive Luciano, 52 anni, napoletano, impiegato dal 1986.

L’età media dei lavoratori dello stabilimento è 45 anni e tutti sanno bene che per loro trovare un altro lavoro non sarebbe semplice, per questo non si arrendono facilmente. Nel frattempo, la Whirlpool lavora a un nuovo progetto. Si chiama Majestic e punta alla produzione di lavatrici di alta gamma. Però vuole realizzarle a Wuhan, in Cina, dove la pandemia è cominciata.

Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 15 settembre 2021

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