Il calpestio dei passi prima lontano poi sempre più distinto gli mise una forte ansia. Mancavano poche centinaia di metri al portone di casa, affrettò il passo ma guardando all’indietro non vide nessuno. Alcuni secondi di silenzio e poi riprese quel sinistro squash delle scarpe sull’asfalto bagnato. Aumentò ancora l’andatura con l’angoscia anche di cadere, il respiro si fece affannoso, i fulmini del temporale estivo squarciavano la notte, pioveva più forte e sparivano anche le ombre dalla strada. Vide di fronte l’edificio e l’ingresso, si rincuorò un istante, ma dietro l’altro avanzava ancora più velocemente, così si mise a correre, scivolò sull’asfalto saponato, si tenne a stento aggrappandosi al lampione, non aveva più saliva, l’acqua della pioggia gli colava nelle spalle insieme al sudore, il terrore cieco s’impossessò totalmente del suo corpo che cominciò a fremere. Ecco cento, ottanta, cinquanta metri, più si avvicinava più quella porta pareva lontana. Infilò la mano nella tasca per cercare le chiavi, non le trovò, erano nell’altra, le afferrò e nella fretta di prendere la chiave giusta gli caddero, le riprese. Gli era addosso ora correva, allora corse ancora di più, era lì sotto il portone e i sei gradini, li salì a due a due, la mano tremante, cercava d’infilare la chiave nella toppa, non entrava, infine entrò un giro ecco si apre, si voltò e con orrore la vide su di lui con le due mani unghiate di rosso, gli occhi neri, la bocca spalancata e i denti bianchi e aguzzi che in un baleno gli affondarono nel collo. Crollò sul selciato mentre quella finiva il lavoro, succhiandogli l’ultima goccia. Così la povera bestia rantolando s’accasciò priva di vita. Si pulì le labbra intrise di carne e sangue, ricompose l’abito sgualcito, riabbottonò il trench, si riavviò i capelli e si ridette il rossetto. Con andatura flessuosa riprese la strada, la bella.