Donatella Della Porta traccia una continuità tra la contestazione al G8 di venti anni fa e le lotte che successivamente hanno attraversato il pianeta
Il ventennale dei fatti di Genova del luglio 2001 continua a far discutere e riflettere. Nel dibattito di questi giorni, è ancor più importante comprendere cos’è che a Genova si era manifestato e cos’è che la violenta repressione poliziesca provò a fermare. A questo proposito abbiamo incontrato Donatella Della Porta, sociologa di fama internazionale e autorevole studiosa dei movimenti sociali. Nel corso dei suoi lavori ha avuto modo di studiare anche a livello accademico il movimento altermondialista, facendo conoscenza diretta delle sue diverse espressioni nel corso del tempo. Della Porta è convinta che vi sia una sostanziale continuità tra il movimento che diede vita alle proteste di Genova e le lotte che hanno attraversato il globo nei decenni successivi.
Partiamo da una definizione più compiuta del movimento che conquistò grande visibilità nelle drammatiche giornate di Genova. Se dovessi definirne un perimetro cronologico e sociale, anche rispetto a quanto si è detto in questi giorni sulla sua effettiva durata e sull’ipotesi che Genova stessa possa essere stata una fiammata estemporanea, come lo tracceresti?
Penso che bisogna sottolineare il fatto che Genova sia stato un punto di arrivo di un processo lungo, quindi sicuramente quello che in sociologia definiamo un «evento di protesta trasformativo». Trasformativo sia per il percorso che ha portato a Genova, che presentava già innovazioni considerevoli, sia per quello che succede dopo Genova. Quindi nel dibattito di oggi va sottolineato che Genova fu anche un momento di partenza di un movimento che è rimasto forte successivamente, che ha visto nel Social Forum Europeo di Firenze l’anno dopo un momento di grande continuità (anche se ovviamente anche di sviluppo e crescita), ha visto l’avviarsi dei Social Forum europei, mondiali e locali, e poi è stato alla base di uno dei più grandi movimenti pacifisti che ha visto svilupparsi una serie di lotte e campagne che lì hanno trovato ispirazione. E ritroviamo i semi di quel percorso fino al processo dei movimenti anti-austerity all’inizio dello scorso decennio e poi al 2019 con l’inizio di un movimento globale dal Cile al Libano. Durante la stessa pandemia i temi di Genova sono stati ancora visibili. Nel dibattito di questi giorni, secondo me, un bias è stato concentrarsi solo sulla vicenda italiana, senza vedere che in un movimento per la giustizia globale mettono radici anche percorsi che poi, ad esempio, nel 2011, portano a grandissimi movimenti in Spagna o in Grecia. Ma anche a movimenti in Italia, che forse non hanno avuto le stesse caratteristiche e le stesse capacità di aggregazione ed espressione politica, ma che hanno espresso momenti di mobilitazione notevoli.
Genova – ma quando diciamo Genova bisogna ricordare che c’era stato Seattle e c’era stato già il primo forum sociale globale a Porto Alegre, oltre ad alcuni episodi di contestazione in Europa – fu un momento di convergenza di tante prese di coscienza degli effetti negativi della globalizzazione economico-finanziaria e del capitalismo neoliberista, precedentemente poco tematizzati. Attorno a ciò si era formata una grande coalizione, un «movimento di movimenti» in cui convergevano diversi percorsi. Da un lato c’erano le organizzazioni di movimento transnazionali deluse dagli esiti delle grandi conferenze dell’Onu su temi come le donne e l’ambiente. Dall’altro la constatazione degli effetti delle politiche economiche di istituti come la Banca Mondiale, l’Fmi o il Wto contestato a Seattle (il G8 contestato a Genova era un’altra di queste organizzazioni internazionali dalla legittimità democratica incerta). Poi c’era il percorso di tanti movimenti che si erano sviluppati a livello locale; basta guardare alle centinaia di organizzazioni che firmano il «Patto di lavoro», l’appello per le mobilitazioni a Genova: molti sono gruppi locali che si sono attivati nel corso del decennio precedente su temi come lo stato sociale attaccato dalle riforme neoliberiste, sui diritti civili o sul tema dei migranti, cui fu dedicata la prima manifestazione del controvertice giovedì 19 luglio. A Genova convergono tutti questi gruppi, che avevano delle basi sociali molto diverse. Molti erano i giovani, ma non era un movimento soltanto giovanile. E tra i giovani, c’erano i giovani scout e i giovani dei centri sociali occupati. C’erano incontri tra gli ecologisti e i sindacati. C’erano i temi dei contadini del sud del Mondo. C’era una notevole varietà e ci fu una frattura nel modo di pensare la differenza, da sempre un tabù per la sinistra: Genova rappresentò un tentativo di costruire spazi dove la diversità era apprezzata piuttosto che stigmatizzata.
Tu hai studiato i movimenti collettivi sull’arco di diversi decenni. Quali sono secondo te i principali elementi di novità portati da Genova rispetto alle precedenti stagioni dei movimenti in Italia, dai più immediati antecedenti dei movimenti degli anni Ottanta e inizio anni Novanta fino al lungo Sessantotto italiano che è stato spesso utilizzato come termine di paragone in questi giorni?
Il ’68 era molto più ideologico nella presentazione degli obiettivi del movimento. Al di là dei primi mesi delle proteste, in cui il ’68 era un movimento ampio e globale, ci fu un’evoluzione molto rapida verso un movimento tradizionale della sinistra. La nuova sinistra sviluppava una critica verso quella che possiamo chiamare «vecchia sinistra» – veniva messo in discussione il principio della «contraddizione principale», con un’attenzione al fatto che tanti conflitti si realizzavano anche al di fuori della fabbrica – ma sostanzialmente l’innovazione era all’interno del discorso ideologico più canonico. A Genova, quel che abbiamo visto studiando ad esempio i documenti delle varie manifestazioni ma anche i siti web di centinaia di organizzazioni che avevano promosso la protesta, l’atteggiamento era più pragmatico, orientato a costruire una conoscenza e a sperimentare delle soluzioni alternative. La mia impressione, avendo vissuto sia il ’68 sia il global justice movement, è che il ’68 si ricollegava a soluzioni considerate già affermate, anche se da adattare ai tempi, mentre nel movimento per una giustizia globale c’era una consapevolezza che le vecchie ricette dei movimenti non erano sufficienti ad affrontare i problemi nuovi che emergevano e a superare le divisioni tra problemi ambientali e sociali, o dei diritti delle donne e diritti di altro tipo. Questo è un elemento rimasto nei movimenti successivi: un tentativo di creare spazi di incontro per costruire più utopie che ideologie.
La formula stessa dei social forum – che a Genova si vede meno nei giorni della repressione, ma che era ben presente nell’inizio della settimana di mobilitazione – era un tentativo in questa direzione. Erano spazi in cui le espressioni dei diversi movimenti, ma anche attivisti singoli, raccontavano come stavano funzionando alcuni esperimenti alternativi, mobilitazioni, ecc.. C’era molto spazio discorsivo. Nelle analisi che ho fatto da un punto di vista sociologico, quella che si avvia con Genova è una concezione della democrazia nei movimenti che non è solo orientata alla partecipazione e alla deliberazione, ma anche alla costruzione di identità comuni. Quindi anche di spazi di ascolto. Nei social forum c’erano le assemblee con i portavoci più visibili ovviamente, ma c’erano anche centinaia di luoghi di incontro adatti agli attivisti di base per confrontare esperienze diverse. Vi confluivano l’insegnamento zapatista, le concezioni di democrazia dal basso che venivano dall’America Latina, come i Sem Terra, esperienze che avevano avuto il bisogno concreto di costruire spazi aperti di confronto dove la partecipazione non fosse pensata solo per delegati di organizzazione. Questa è una dimensione che si manifesterà in modo più forte nelle acampadas del movimento spagnolo del 2011, ma che era presente anche a Genova, anche se era maggiore il ruolo delle organizzazioni. L’idea del consenso, con tutte le sue difficoltà di implementazione concreta, era quella di costruire su ciò che unisce e quindi anche molto sulle idee che arrivano dal basso. Il rispetto per gli interventi dei singoli individui era enormemente più alto rispetto alla stagione dei gruppi che seguì il ’68.
Rispetto al ’77, che è l’altro momento di aggregazione rilevante in Italia, il fatto che l’atteggiamento prevalente nell’atmosfera e nel patto di lavoro di Genova fosse quello non violento sottolineava questa tendenza all’inclusione. Ci furono poi ovviamente difficoltà nell’implementare questa idea di democrazia. La stagione dei forum sociali entra in declino già nel 2004 ad Atene, e poi anche Malmo e Istanbul saranno momenti sempre meno ampi. La rete europea dei movimenti sociali Blockupy del 2011-2012 rappresentò un tentativo di continuare quella strada, ma da parte di una frazione di attivisti molto più piccola. La criticità dei social forum sarà proprio il progressivo prevalere della dimensione verticale su quella orizzontale: più si riduceva il numero di partecipanti che non rappresentavano un’organizzazione, più le dinamiche di competizione inter-organizzative si accentuavano, come abbiamo potuto vedere nelle ricerche.
Cosa cambia dopo Genova? Una volta che questo «movimento dei movimenti» conquista lo spazio pubblico, sperimenta anche l’incontro-scontro con la politica istituzionale e con gli apparati repressivi dello Stato. Sembra uno snodo determinante. Subito dopo Genova, ci sarà anche l’11 settembre che influirà molto sul modo di concepire gli spazi di libertà e di agibilità democratica. Cosa cambia nei movimenti degli anni successivi?
Il declino dei social forum ha varie spiegazioni. Ma una spiegazione fuorviante, secondo me, è quella di dire che a Genova la repressione ha sconfitto la possibilità di un movimento. Io credo che a Genova la repressione ha creato problemi al movimento: una componente come Rete Lilliput rimase fortemente scossa dagli scontri e iniziò ad allontanarsi, ci fu una divisione tra i centri sociali più forti e una difficoltà ad avere sponde politiche. Ma Genova non fu la fine dei movimenti. Questo è un elemento da sottolineare molto: la repressione fu forte e non indolore, ma non ha vinto. C’è stato invece l’11 settembre che sicuramente ha avuto conseguenze rilevanti; poi la guerra e quindi il movimento per la pace e le difficoltà a trovare formule nuove per rinnovare la protesta.
Dal punto di vista dei cambiamenti concreti, bisogna ricordare che Genova fu sia un controvertice (a G8 in corso), sia un social forum (a inizio settimana). Continuarono entrambe le forme, ma in maniera tendenzialmente divaricata. Ci furono ancora vari controvertici, che presentarono sfide sempre più particolari per il movimento, tanto che con il tempo la pratica fu ridimensionata e poi praticamente abbandonata, anche perché i vertici stessi erano sempre più blindati, sia con strategie dure dal punto di vista dell’ordine pubblico, sia portandoli in luoghi inaccessibili. L’idea del controvertice era quello di occupare uno spazio di attenzione alla politica internazionale che si creava attraverso i vertici: le organizzazioni governative reagirono togliendo questo palcoscenico ai movimenti. I controvertici si diradarono e il movimento puntò più sui forum sociali, su una strategia di autonomizzazione degli incontri rispetto ai grandi vertici internazionali (come a Firenze nel 2002), scegliendo anche formule che riducessero il peso della repressione.
Questa strategia ha poi trovato un momento di trasformazione nelle acampadas del 2011, che non si contrapponevano a nessun evento, ma avevano una componente di azione diretta più rilevante dei social forum, perché in pubblico e soggette all’azione della polizia. C’era quest’idea di occupazione di spazi pubblici poi divenuta tipica dei movimenti più recenti, come in Cile e in Libano e prima a Gezi Park in Turchia e nelle Nuit Debout francesi: occupare spazi per ricostruire relazioni e per dare visibilità a una protesta. Dal punto di vista dei movimenti che seguono vedo questa continuità, ma anche un’evoluzione e una trasformazione.
Se si pensa alle forme organizzative invece, Genova e i primi social forum rappresentarono un grande incontro, mentre subito dopo ci fu un ritorno al livello locale e una riframmentazione (o rispecializzazione) da un punto di vista tematico. Abbiamo avuto movimenti territoriali come i No Tav oppure il movimento studentesco dell’Onda; nuove lotte operaie contro la precarietà e nuovi movimenti femministi ed ecologisti che pure hanno seguito la strada dell’internazionalizzazione. C’è stato indubbiamente il riemergere di differenziazioni su base nazionali, presenti anche prima ma accentuate in occasione dei movimenti anti-austerità e delle evoluzioni politiche successive. Da un lato in Spagna e Grecia, e in parte in Portogallo, sono proprio gli attivisti formati nel movimento per una giustizia globale a dare vita ai nuovi partiti della sinistra: da Pablo Iglesias di Podemos, che era stato vicino alle Tute Bianche, a Syriza di Tsipras che era nata nel momento dei social forum, fino al Bloco de Esquerda che si trasforma in quel momento o all’Islanda che è un altro caso interessante di utilizzo dal basso di strumenti istituzionali su scala nazionale. L’Italia è stata un’altra storia.
Raccontiamola dunque…
È una storia che secondo me non abbiamo ancora del tutto compreso. Io penso che ciò sia legato al fatto che in Italia i movimenti a sinistra sono stati sempre piuttosto vivaci, ma anche poco autonomi rispetto alla vecchia tradizione del Partito Comunista che poi si è evoluto verso Pds, Ds e Pd. Mentre ad esempio, in Spagna, nonostante il peso del Psoe, i movimenti sono stati più capaci di mantenere una forza di mobilitazione dal basso. In Italia la forza a Genova era stata data anche dalla mobilitazione di risorse organizzative di quelle che una volta venivano definite «organizzazioni collaterali» della sinistra politica, cioè l’Arci o organizzazioni come Legambiente, in parte i sindacati, ecc. Però poi ci fu un processo di restaurazione. E questo avvenne anche nel mondo cattolico, dove le organizzazioni (come Pax Christi) che erano state molto visibili a Genova (pensiamo alla famosa immagine delle suore che sfilano) subirono la restaurazione nella Chiesa Cattolica, molto forte nei confronti di ciò che si era mosso in direzione progressista. Un processo interrotto da Papa Francesco, ma che era stato notevole con Papa Ratzinger. Secondo me, in Italia, il movimento era più sensibile ai cambiamenti nelle associazioni e nelle organizzazioni che l’hanno sostenuto. In Spagna anche il Psoe andò verso una progressiva moderazione, ma il movimento era più indipendente. Da un punto di vista partitico poi, penso che i Cinque Stelle, pur non essendo paragonabili a Syriza o Podemos, abbiano occupato uno spazio di protesta, lasciandone poco alle alternative possibili. Quelle che sono emerse di tanto in tanto avevano all’interno una componente troppo alta di cultura comunista tradizionale per poter rappresentare una proposta innovativa convincente.
Alcuni hanno evidenziato come anche nel Movimento 5 Stelle confluiscano biografie che partono da Genova o la attraversano in qualche forma. Al di là della capacità di occupare lo spazio della protesta, tu vedi nella vicenda di una formazione come il M5S anche qualche forma di continuità con quella stagione di movimenti?
Non la definirei «continuità» perché i inque Stelle sono molto eterogenei. Ciò che vedo in continuità è tutto il processo del referendum contro la privatizzazione dell’acqua, cui molti attivisti dei Cinque Stelle parteciparono, ma poi ci sono tanti altri aspetti che li hanno resi molto meno capaci di interagire con i movimenti veri e propri. Oltre ad alcuni esponenti della parte sinistra come Roberto Fico o altri molto presenti tra i primi eletti in Parlamento, c’erano anche attivisti di estrazione di diverso tipo e di provenienze meno definite. Mentre Podemos riuscì anche a conquistare un elettorato non tradizionalmente di sinistra su istanze di sinistra, i Cinque Stelle hanno fatto in parte il contrario. Analizzando i flussi elettorali, è evidente la componente dell’elettorato di centro-sinistra degli inizi, ma gli sviluppi successivi e poco trasparenti dettati dalla leadership di Beppe Grillo hanno portato a qualcosa di più confuso e indefinito. Ora è diventato chiaro che si tratta di una formazione che si trova più a suo agio col Pd che con la Lega: su temi come il reddito di cittadinanza o i diritti civili, i Cinque Stelle presentano fondamentalmente delle posizioni di sinistra moderata, in alcuni casi forse anche più di sinistra del Pd stesso. Ma sempre all’interno di una grande confusione, di cui la scelta di un leader come Giuseppe Conte è l’ennesima testimonianza: un leader che non viene dal partito, non viene da esperienze di mobilitazione, che è stato primo ministro di un governo con la Lega. Manca una vera identità collettiva. Ma anche il resto della sinistra istituzionale non sta meglio.
Sicuramente quella dell’espressione politica è una questione che in Italia rimane aperta. I movimenti hanno ritrovato un loro margine di manovra, ma l’incapacità di trovare una strada per avere effetto sulle istituzioni resta un problema grosso, evidenziato e accentuato in particolare dal fatto che in Parlamento non esistano espressioni potenzialmente alleate a sinistra, se non singoli parlamentari dei Cinque Stelle o del Pd o di Leu che non rappresentano neanche vere e proprie correnti.
Tornando all’eredità di Genova, tu hai analizzato le forti continuità dei movimenti successivi, evidenziando le caratteristiche dei vari cicli delle lotte antiliberiste degli ultimi due decenni, dai movimenti anti-austerity alle proteste globali di questi anni. Che si parli di lotte in America Latina o in Medio Oriente, oppure dei nuovi movimenti femministi, ecologisti e antirazzisti, cos’è che ti sembra più direttamente riconducibile a Genova? Nel 2001 si assistette a una grande convergenza di processi diversi, oggi tu stessa evidenzi un certo grado di frammentazione. Vedi delle potenzialità per delle nuove alleanze larghe nel prossimo futuro?
Vedo momenti di convergenza già a partire da queste esperienze che abbiamo menzionato. Nei movimenti del 2019, dal Libano ai gilets jaunes, nonostante le tante caratteristiche specifiche, alcuni tratti erano comuni. Se pensiamo all’ondata ecologista contro il climate change, se pensiamo a Non Una Di Meno come nuova ondata di protesta sui diritti di genere, all’opposizione a Salvini che ha attraversato l’Italia (le mobilitazioni femministe di Verona del marzo 2019 erano quasi un controvertice), ma anche Black Lives Matter, sono tutti movimenti che tendono a intrecciare temi. Non vedo una divisione tra «temi d’identità» e «temi d’interesse», come a volte si dice. La dimensione sociale, l’attenzione alle disuguaglianze sociali è sempre molto forte. E ciò costituisce una continuità visibile con Genova. Dei movimenti pre-Genova spesso si diceva fossero «nuovi movimenti» che guardavano all’ambiente, ai diritti civili e alle donne preoccupandosi poco delle tematiche sociali. Secondo me non era del tutto vero anche allora, ma dopo Genova questo è diventato più chiaro. E lo è ancora oggi nei documenti e nelle parole d’ordine di Non Una Di Meno e di molti gruppi locali di Fridays For Future. Così anche in Black Lives Matter. Ora si chiama «intersezionalità», ma anche a Genova era presente questa attenzione alle diverse fonti di disuguaglianza, che erano sul lavoro ma anche fuori dal lavoro.
Quella che vedo come potenzialità è anche una frattura all’interno di questi movimenti. Sull’ambiente, la divisione tra i fiduciosi nel mercato delle rinnovabili e i critici del modello di sviluppo globale sarà visibile già dai prossimi mesi stessi. Nel campo dei movimenti di genere, abbiamo visto i conflitti tra alcune concezioni tradizionali e un femminismo delle nuove generazioni più inclusivo. Nel movimento antirazzista c’è già un’attenzione alle disuguaglianze razziali più universalista che si contrappone a una chiusura e frammentazione tra i diversi gruppi che soffrono. Questi cleavage saranno sempre più chiari. Una convergenza potrebbe nascere pragmaticamente davanti alla consapevolezza della globalità dei problemi dettata dalla pandemia. Ma ci sarà anche il bisogno di ripensare le prospettive alla luce della definizione di questi cleavage.Lì saranno importanti gli spazi di incontro e di riflessione.
Secondo te, parafrasando lo slogan del «movimento dei movimenti», in termini di processi politici e sociali, un’altra Genova sarà possibile?
Qualche tentativo c’è. Anche in questi giorni, le diverse iniziative volte a recuperarne lo spirito sono indicative di qualcosa. Sarebbe interessante fare una ricerca, ma ho l’impressione che questo ventesimo anniversario del G8 sia più importante e abbia ricevuto più attenzione del decimo. Fa pensare che ci sia un bisogno di riflettere su questo tipo di memorie. Genova acquista valore nel dibattito di questi giorni non solo perché è un anniversario, ma anche perché si cerca di trarre una lezione e si cerca una strada.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 22 luglio 2021