Sulla riforma del sistema penale italiano

di Leonardo Grassi /
12 Luglio 2021 /

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Per fare un processo che riguardi un reato di media gravità, ad esempio una rapina di strada, nel caso in cui l’imputato detenuto intenda ricorrere a tutti gli strumenti di impugnazione, occorrono non meno di trenta giudici, dal PM che promuove l’azione penale al tribunale di sorveglianza che decide sulle modalità di esecuzione della condanna, passando attraverso il GIP e il GUP, il tribunale, il tribunale del riesame, la corte d’appello, ed infine la cassazione, ma i giudici coinvolti possono essere anche molti di più, solo che, come spesso avviene, per svariate ragioni, nullità o altro, si passi più di una volta innanzi allo stesso organo giurisdizionale.

Questo per dire che il sistema processuale penale italiano è pletorico e inutilmente complesso, non più prontuario di ciò che si può o non si può fare per accertare responsabilità individuali rispetto a un fatto reato, ma enorme macchinario di cui si smarrisce il senso.

Si dichiara ispirato ai sistemi accusatori anglosassoni, dei quali peraltro non ha né l’essenzialità né, fortunatamente, la durezza verso i soggetti più deboli, ma in realtà farebbe onore ai legislatori degli ultimi giorni di Bisanzio.

È un enorme macchinario, si diceva, tanto complicato quanto in un certo senso fine a se stesso.

I gradi di giudizio, nel processo ordinario, sono quattro: Il GUP, il giudice di primo grado, il giudice d’appello ed infine la cassazione.

I riti alternativi, volti in teoria alla semplificazione son scoraggiati dalla speranza di ogni imputato di poter conseguire la prescrizione e comunque sono anch’essi forieri di ingiustizie e complicazioni.

Infatti, non è infrequente il caso di un imputato condannato col rito abbreviato, mentre i complici gravati da elementi di prova uguali, vengono assolti con rito ordinario.

Poi vabbè, si fa finta che la baracca funzioni e si fanno istruttorie, si scrivono sentenze, come se lì vicino, dopo mesi o anni di fatiche e costi non indifferenti sia in termini umani che economici, non vi sia il baratro della prescrizione.

Per adeguarsi all’Europa, come si usa dire, occorrerebbe semplificare questo sgangherato carrozzone, il peggior sistema processuale in Europa, non renderlo ancor più complesso e inefficiente, come sembra fare la legge proposta dall’attuale governo.

Nella massa di articoli di stampa e documenti che sono stati prodotti in questi giorni sulla riforma della giustizia penale non sono riuscito a trovarne il testo ufficiale, né credo che molti commentatori ne abbiano avuto cognizione diretta.

Sarebbe sempre bene scrivere attingendo direttamente alle fonti, specie in tema di diritto, ma detto questo, le notizie che circolano non lasciano presagire nulla di buono.

La riforma tocca una molteplicità di temi, dalla giustizia riparativa, con le sue nobili aspettative e con le sue ambiguità, al processo telematico, all’udienza preliminare, ai criteri di priorità in un quadro costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale e al dibattuto tema della prescrizione.

Questo scritto contiene solo le prime impressioni su una riforma ancora in divenire e mi soffermerò quindi soltanto sulle questioni che mi hanno più colpito, ad iniziare dalla vexata quaestio dalla prescrizione, che maggiormente ha appassionato il dibattito pubblico e sulla quale i politici, nel tentativo di raggiungere una mediazione fra di loro, si sono esercitati nelle più spericolate acrobazie.

Nella riforma si ipotizza una prescrizione processuale, per cui il processo d’appello dovrebbe venire dopo due anni da quello di primo grado, pena una sorta di improcedibilità che estingue il processo ma non il reato (che cosa voglia dire in concreto non è ancora dato comprenderlo). Il giudizio in cassazione dovrebbe venire un anno dopo quello d’appello. Il regime si applicherebbe ai reati commessi dopo il primo gennaio 2020.

Il provvido legislatore, tuttavia ipotizzerebbe, da quanto è dato sapere, una breve proroga di tali termini per i reati più gravi.

Come tutte le commistioni fra diritto sostanziale e diritto processuale, anche questa riforma non riesce bene e pone tutta una serie di problemi, anche di rilevanza costituzionale, che sarebbe stato meglio evitare.

Un autorevole commentatore dice che con la prescrizione processuale mentre il reato resta in vita il processo “evapora” e l’espressione a mio giudizio ben si attaglia alla misteriosa alchimia che vorrebbe sostituire l’attuale regime della prescrizione, nel quale dopo il processo di primo grado, come è giusto che sia, la prescrizione non corre più.

Un altro commentatore parla invece di una sorta di “amnistia mascherata”.

“I processi d’appello nascono già morti” dice con amarezza il presidente di una Corte d’appello a proposito della riforma. Se infatti attualmente occorrono anni e anni solo per calendarizzarli come è possibile concluderli in un biennio?

Si ha quasi l’impressione che il legislatore della riforma non conosca i dati statistici delle diverse corti, ma evidentemente questo è impossibile, bene o male gli uffici statistici funzionano, e allora forse l’intento è proprio quello, sempre caro alla destra berlusconiana, di mandare al macero masse enormi di processi, salvo poi semmai stracciarsi le vesti quando l’opinione pubblica si accorgerà che andranno prescritti reati che hanno agitato le coscienze o suscitato l’indignazione dei cittadini.

Ma vero è che il compito della politica è quello di fare delle scelte, e queste sono le scelte dell’attuale governo.

Mi ha colpito poi un atteggiamento ambivalente che traspare nella riforma riguardo alla figura del PM, che da un lato viene investito di facoltà divinatorie, quando deve valutare, nel chiedere il rinvio a giudizio dell’imputato, se la sua condanna sia prevedibile o meno, cosa ben diversa dal dire se sussistano a suo carico elementi di prova rilevanti, e che dall’altro lato ispira la sfiducia del legislatore che, contro la Costituzione e il principio di parità delle parti gli preclude la possibilità di impugnare in appello.

Ma si sa, le procure sono il vero bersaglio di certa politica, che dai tempi di Berlusconi a seguire vorrebbe sottrarsi a qualsiasi controllo di legalità.

Non si deve scordare che in Italia, a parte una pletora di politici più o meno minori, sono incorsi nei rigori della legge penale ben tre presidenti del consiglio. Giulio Andreotti, prosciolto per prescrizione per il non insignificante reato di concorso esterno in associazione mafiosa, Bettino Craxi, morto esule o latitante a seconda dei punti di vista, inseguito da molteplici provvedimenti di cattura per reati non certo commendevoli, ed infine Silvio Berlusconi, condannato con sentenza definitiva per evasione fiscale alla pena atroce di prendersi cura di alcuni anziani, che certo avranno ben profittato della sua benevola assistenza.

Cioè, come dire, il rapporto fra giustizia e magistratura in Italia non è mai stato dei più felici ed ora, per molte ragioni, sono apparsi maturi i tempi per un regolamento di conti, forse definitivo.

Nel contesto di questo regolamento assume un ruolo rilevantissimo la rideterminazione del rapporto fra l’obbligatorietà dell’azione penale, voluta dalla nostra tanto bistrattata costituzione, e l’adozione di criteri di priorità nella trattazione degli affari penali, resa necessaria dalla vischiosità del nostro pletorico sistema, per cui è impossibile, materialmente impossibile, fare tutto e subito come in astratto sarebbe dovuto.

L’obbligatorietà dell’azione penale ha un valore intuitivo, nel senso che se un sistema prevede un reato a tale previsione deve logicamente seguire che il reato venga effettivamente perseguito.

Ciò, come sappiamo, non sempre avviene per l’intasamento enorme che per molte ragioni si è creato nel tempo nelle aule di giustizia e tuttavia il principio dell’obbligatorietà conserva anche in questo habitat un valore ulteriore altrettanto grande, cioè quello di rappresentare un potente deterrente contro la commissione di reati.

Sapendo che se commetto un reato potrò essere perseguito forse avrò qualche remora a commetterlo, diversamente dall’ipotesi in cui abbia la certezza dell’impunità.

Orbene, è giusto quindi che nel tentativo di smaltire l’arretrato penale si fissino dei criteri di priorità in ragione di numerosi parametri di valutazione (uno stupro deve avere la precedenza rispetto alla contraffazione di un marchio), ma la fissazione di tali criteri, contrariamente a quanto voluto dalla riforma, che ne attribuisce la responsabilità al parlamento, deve rimanere prerogativa esclusiva della magistratura, sotto le indicazioni del suo organo di auto governo, pena la contaminazione fra poteri e l’interferenza del potere legislativo in compito esclusivo della giurisdizione.

Anche perché è sin troppo facile pensare che il ceto politico, questo ceto politico, inevitabilmente nel tentativo di auto assolversi da ogni responsabilità andrebbe a cercare forme di dilazione dei reati dei colletti bianchi, come dimostrato da molti sintomi, non ultimo la ventilata ipotesi di una ennesima rimodulazione del reato di interesse privato in atti d’ufficio, che ne limiti ulteriormente l’operatività.

Per concludere, detto che queste sono solo alcune prime impressioni su una riforma molto articolata, occorre ora chiederci perché tutto questo sta passando con il consenso unanime delle forze politiche.

Le ragioni sono molte e a mio giudizio nella riforma c’è soprattutto un’aria di regolamento di conti con una magistratura che nel bene e nel male ha avuto un ruolo troppo incisivo nello svelare “di che lacrime grondi e di che sangue lo scettro ai reggitori” con le inchieste sulle mafie, sulle stragi, sulla dilagante corruzione, e che ora, anche per responsabilità proprie, è in una fase di estrema decadenza, perciò facilmente attaccabile, per certi versi indifendibile, per altri ormai corriva ai poteri reali che si muovono nella società, per altri infine stremata in una fatica di Sisifo che in certo momenti appare senza speranza.

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