Contro la privatizzazione della conoscenza

di Massimo Florio /
12 Luglio 2021 /

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Questo contributo è tratto dal numero cartaceo 1/2021 “Frontiere”. Questo contenuto è liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+. Per ricevere il numero cartaceo è possibile abbonarsi a Pandora Rivista. È inoltre disponibile la formula sostenitore che comprende tutte le uscite del 2020 e del 2021. L’indice del numero è consultabile a questa pagina. Il presente articolo anticipa alcuni temi di un libro di Massimo Florio di prossima uscita per Editori LaterzaLa privatizzazione della conoscenza. Tre proposte contro i nuovi oligopoli

Una parte consistente della produzione scientifica contemporanea è ‘artigianato’. In linea generale, la ricerca è portata avanti da un principal investigator con un piccolo gruppo di ricercatori e dottorandi a supporto. Tuttavia, vi è un’altra modalità, che è in crescente sviluppo e che consiste piuttosto in una produzione di scienza su larga scala, in ‘fabbriche’ del sapere, capaci di avere un impatto sociale ed economico invisibile ma penetrante.

Quando nel 2012 Fabiola Gianotti, all’epoca portavoce dell’esperimento ATLAS del CERN a Ginevra, annuncia la scoperta del bosone di Higgs, parla a nome di una entità collettiva, composta da circa tremila scienziati, appartenenti a 181 istituti di ricerca di 38 Paesi diversi. All’interno della macro-collaborazione, centinaia di piccoli gruppi si coordinano in comitati, si scambiano continuamente risultati, pubblicano firmando collettivamente. Nessun individuo, infatti, può dominare tutti gli aspetti di una ricerca così complessa da richiedere come ‘microscopio’ un acceleratore di 27 km di circonferenza in un tunnel a 100 metri di profondità nel sottosuolo, la cui costruzione ha coinvolto oltre mille imprese. Siamo evidentemente ben lontani dall’artigianato.

Di esempi del genere se ne possono portare molti. Lo Human Genome Project (HGP) ha mappato per la prima volta tre miliardi di basi del DNA di un uomo. Il progetto è costato tre miliardi di dollari e ha richiesto tredici anni di collaborazione di oltre 250 scienziati appartenenti a 20 istituti e università in USA, UK, Germania, Giappone, Cina e Francia. Nel corso di anni di lavoro sono state messe a punto tecnologie che permettono in poche ore di analizzare il genoma completo tanto di un virus quanto di un essere umano. Il modo di lavorare della medicina è da allora cambiato per sempre.

Tale modello basato su larghe e complesse collaborazioni, che combinano spesso infrastrutture tangibili con infrastrutture digitali, ha come effetto la creazione di comunità virtuali di intelligenza collettiva. In questa decisiva evoluzione delle forme di produzione scientifica, un elemento caratteristico è rappresentato dagli enormi processi cumulativi. Lo UNESCO Science Report 2015, stimava il numero totale di ricercatori in 7,8 milioni– circa uno ogni mille abitanti del pianeta –, tre quarti dei quali presenti in cinque aree (USA, UE, Cina, Giappone, Russia). Web of Science, la banca dati di Reuters relativa alle 12mila riviste scientifiche più autorevoli (e contenente inoltre più di 160mila estratti di conferenze), ospita 79 milioni di articoli di oltre 250 discipline. Nel solo anno 2017 sono state depositate 3 milioni e 170mila domande di brevetto, con la Cina al primo posto per numero di richieste (dati WIPO).

Le università si stanno necessariamente adattando a queste massicce trasformazioni. È impensabile, infatti, che un singolo ateneo possa da solo creare progetti di frontiera su grande scala. Nell’università prevale certamente il modello tradizionale, quello basato su piccoli gruppi, ma molte di queste unità di ricerca fanno parte di reti che collaborano strettamente e che usano risorse comuni – dai telescopi alle fonti di luce di sincrotrone, dalle bio-banche agli studi multicentrici.

Fondamentalmente, questa ricerca è finanziata dai governi con le imposte che paghiamo tutti come cittadini. È così che può nascere e svilupparsi soprattutto la ricerca di base. Le imprese, invece, fanno per lo più ricerca applicata ‘a valle’ – e anch’essa siamo noi a finanziarla, attraverso i prezzi che paghiamo per beni e servizi che incorporano conoscenza. La ricerca delle imprese è dunque solo la fase finale del processo di produzione scientifica, il che dà origine al paradosso per cui ciò che a monte nasce come bene pubblico – finanziato dalla collettività – viene privatizzato a valle. Questa dinamica può essere ben esemplificata dall’uso e dal finanziamento delle sorgenti di luce di sincrotrone che producono raggi X ad altissima energia, utilizzabili come un microscopio a risoluzione della singola cellula o macromolecola. Nel mondo ve ne sono in funzione alcune decine. Nel caso dello European Synchrotron Radiation Facility (ERSF) di Grenoble, un progetto pubblico europeo con un costo annuo di 100 milioni di euro, circa il 30% dei gruppi che si avvicendano alle trenta stazioni cui sono convogliati i raggi per gli esperimenti lavora su progetti dichiaratamente con potenziale interesse industriale. Una piccola percentuale dei turni è assegnata direttamente a gruppi che lavorano per la R&D di imprese. Solo in questo ultimo caso l’accesso è a pagamento, e comunque ad una tariffa oraria modesta, ma per oltre il 90% degli esperimenti il servizio è gratuito.

Per lo più le imprese quindi aspettano pazientemente che le idee maturino e siano diffuse, il che fa del meccanismo di trasmissione delle conoscenze sperimentali alle aziende un percorso non lineare. Tornando al precedente esempio, gli scienziati che fanno gli esperimenti a ERSF prima o poi pubblicano i loro risultati, rappresentati da circa 1.800 articoli scientifici ogni anno – articoli che a loro volta sono citati da altre pubblicazioni, le quali vengono citate da altre ancora, e così via, secondo un processo cumulativo. Una parte di questi lavori contiene risultati che possono avere applicazioni commerciali, ad esempio nel settore farmaceutico, dell’elettronica o dell’automobile. Evidentemente, più aperta è la scienza ‘a monte’, più alta è la probabilità che, nella cascata di impatti che essa crea a valle, vi sia – lungo il percorso – una opportunità di profitto, incorporata in un brevetto (ma in vari settori la proprietà delle innovazioni è infatti difesa in altri modi).

Questo meccanismo di trasformazione della conoscenza in capitale valeva già per parte della ricerca accademica nei secoli della Rivoluzione industriale, ma allora la Little Science equivaleva ad artigianato, e le imprese potevano anche costruirsi intorno ad un singolo inventore fortunato, talvolta addirittura dilettante. Le infrastrutture di ricerca contemporanee sono invece fabbriche industriali di sapere su larga scala, il cui impatto è amplificato dalla digitalizzazione degli output scientifici. Con la mediazione delle comunità scientifiche nelle università e nelle altre istituzioni specializzate e con la trasmissibilità quasi istantanea si crea infatti un fiume di opportunità potenziali di innovazione. Pertanto, alle imprese conviene attrezzarsi per approvvigionarsi a questo fiume con investimenti mirati, e alla finanza sostenere questi investimenti ad alta intensità di conoscenza per montarvi le proprie scommesse. Questo processo si svolge sotto i nostri occhi; esso ha degli straordinari risultati economici e tecnologici, di cui beneficiamo ogni giorno, ma anche un effetto collaterale non irrilevante: il sorprendente contributo della scienza contemporanea alla disuguaglianza sociale.

La ragione fondamentale di tale effetto collaterale risiede nella creazione di nuovi oligopoli, cui sono associate spettacolari rendite. Nel secolo scorso le imprese di maggiore valore di mercato erano le società petrolifere, eredi delle ‘Sette sorelle’, sfidate all’inizio degli anni Cinquanta da Enrico Mattei, fondatore dell’ENI. Tali imprese si basavano in larga misura sull’appropriazione privata di risorse del sottosuolo, risorse spesso considerate nelle legislazioni nazionali intrinsecamente pubbliche, ma poi a vario titolo ‘concesse’ ai privati. In quel caso le enclosures hanno recintato il sottosuolo invece che i pascoli – come era a sua volta successo alle origini della Rivoluzione industriale –, privatizzando le fonti energetiche e le relative rendite.

Il petrolio dei nostri tempi è invece rappresentato dalla conoscenza, dall’informazione e dai contenuti digitali in ogni forma. Le nuove ‘Sette sorelle’ sono Apple, Alphabet, Microsoft, Facebook, Tencent, Alibaba e Amazon[1], seguite poi da Big Pharma e altre multinazionali della conoscenza mercificata. Ancora una volta, a dominare è l’elemento dell’appropriazione, i cui meccanismi – sempre meno materiali – sono molteplici. In primo luogo, la legislazione sulla proprietà intellettuale stabilisce un monopolio legale sullo sfruttamento economico delle invenzioni, per venti anni e oltre. Si tratta di una deliberata deviazione dall’ideologia e dalla politica del libero mercato, la cui finalità dichiarata è quella di tutelare l’inventore poiché si ritiene che altrimenti non vi sarebbero incentivi adeguati all’innovazione. Vi è in questa ipotesi una lettura antiquata del modo in cui da vari decenni la ricerca e sviluppo, e quindi le innovazioni, funzionano. Nessun brevetto può infatti citare esaustivamente gli antecedenti, né può mostrare come la germinazione di un’idea nella mente di un ricercatore possa avere attinto al giacimento comune della conoscenza. La conseguenza è che il brevetto stabilisce una recinzione legale e crea così una rendita, stabilendo un rapporto di proprietà su potenziali innovazioni che hanno in verità molte madri e molti padri, e sicuramente moltissimi zii e cugini. Se questi parenti non rivendicano la loro quota di proprietà è perché sarebbe troppo costoso e incerto farlo.

Un secondo meccanismo è rappresentato dalle commesse ad alta intensità tecnologica per il settore pubblico. L’esternalità positiva che va dalle infrastrutture di ricerca alle imprese può infatti contribuire a creare posizioni dominanti in alcuni mercati. Questo è ben noto nel caso, ad esempio, del settore aerospaziale: radar, telecomunicazioni (incluso internet), satelliti per osservazione terrestre, missilistica, aeronautica, computer, la filiera nucleare dual use (come nel programma atomico francese) … La casistica è ampia. Gli oligopoli, in questo caso, si creano e si sviluppano perché protetti da pluridecennali rapporti con la committenza pubblica.

Una terza dinamica fondamentale è quella della creazione di capitale umano nelle università e nelle infrastrutture di ricerca a spese dei contribuenti. A ben vedere, le conoscenze non viaggiano tanto nei documenti depositati per ottenere i brevetti, e nemmeno negli articoli pubblicati nelle riviste o nelle relazioni a conferenze scientifiche, quanto piuttosto nelle teste delle persone. Quando un giovane ricercatore post-dottorato in fisica delle particelle, con le sue capacità di analisi dei dati e di soluzione di problemi computazionali complessi viene assunto da un fondo di investimenti per occuparsi di modelli di asset management, ciò che succede è che le conoscenze incorporate nel capitale umano vengono in gran parte privatizzate. Un percorso concepito e formato nell’idea del servizio pubblico sfocia insomma nell’impiego di rare competenze nella sala gioco delle scommesse finanziarie, con il favore delle alte retribuzioni offerte, della maggiore certezza di prospettive, e della circostanza che in determinati campi di ricerca scientifica l’offerta di brillanti cervelli è maggiore della loro domanda nel settore pubblico o no-profit.

In quarto luogo, un meccanismo molto penetrante è l’uso commerciale di dati raccolti con altre finalità dalle piattaforme digitali. Siamo così abituati a ritenere ovvio ciò che Amazon, Google, Facebook, Instagram, YouTube fanno con i nostri dati che probabilmente ci sfugge che questa appropriazione non dipende da una tecnologia superiore né da una distrazione dei legislatori. Le enormi praterie dei dati personali e industriali sono state recintate in modo artificioso, conferendo la proprietà dei dati stessi ad alcune imprese private, ma non ad altre, attraverso contratti che tutti noi sottoscriviamo – senza leggerli – con un paio di click e senza che un’autorità pubblica verifichi se i cittadini sono informati su che cosa stanno sottoscrivendo (diversamente da quello che dovrebbe accadere nei servizi a rete regolamentati, come l’energia o le telecomunicazioni).

Infine un meccanismo controintuitivo, è connesso all’Open Science[2]. Questo approccio, di per sé animato dalla nobile idea che la conoscenza debba essere considerata un bene pubblico, crea infatti un paradosso. Le imprese private che si collocano a valle con la loro attività di R&S si appropriano privatamente della conoscenza, grazie agli investimenti in conoscenza già realizzati a monte. Ad esempio, uno studio svolto per ELIXIR, una rete bio-informatica europea, ha identificato, tra il 2014 e il 2017, 8mila brevetti che citano bio-dati pubblici. Si stima che nel mondo vi siano 1,7 milioni di ricercatori nelle scienze della vita e che di questi, già nel 2016, il 13% – cioè quasi 200mila ricercatori – fossero utenti dei dati resi accessibili dallo European Molecular Biology Laboratory-European Bioinformatics Institute.

Se oggi il capitale si presenta in modo decisivo come conoscenza cristallizzata in attività intangibili, e l’oligopolio privato che ne è espressione non riesce ad essere domato da altri strumenti di intervento (essenzialmente la politica tributaria e della concorrenza), sembra urgente tornare a riflettere sul ruolo e le potenzialità dell’impresa pubblica, in forma nuova. Storicamente, le imprese pubbliche sono state infatti fondamentali per rompere l’oligopolio privato. In certi periodi hanno trovato sostegno anche da economisti e politici di tendenza liberale, come in Italia Ernesto Rossi, nella sua analisi dell’oligopolio elettrico (I padroni del vapore,1955 ed Elettricità senza Baroni, 1962). Tuttavia, per oltre tre decenni il tema è quasi del tutto sparito dalla ricerca accademica e dal dibattito sulla politica industriale, poiché l’attenzione è stata rivolta interamente al tema delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Da alcuni anni, però, in particolare dopo l’inizio della Grande recessione del 2008, è in corso un ripensamento. Peraltro, le imprese a partecipazione pubblica non sono mai venute meno nella maggior parte delle economie più sviluppate, dalla Francia, alla Germania, dai Paesi scandinavi al Canada, oltre che in Cina e altri Paesi asiatici. Sotto il profilo degli investimenti in R&S e dei brevetti, poi, queste imprese hanno spesso una performance superiore a quella delle omologhe imprese private – un fatto che si spiega con un atteggiamento da investitore ‘paziente’, meno legato alla necessità di mostrare rendimenti a breve termine ad azionisti. Questo ultimo punto è proprio quello decisivo per l’elaborazione della proposta di una politica alternativa al processo di privatizzazione della conoscenza.

Questa nuova proposta potrebbe ruotare intorno alla creazione di una nuova generazione di infrastrutture pubbliche ad alta intensità di conoscenza, frutto ideale della sintesi del modello dell’infrastruttura di ricerca e dell’impresa pubblica. Nell’Unione Europea, in questo senso, si potrebbero immaginare tre grandi infrastrutture: una per la R&S biomedica, che si spinga fino alla sperimentazione, produzione e distribuzione di farmaci e innovazioni terapeutiche in campi ritenuti poco redditizi dalle Big Pharma; una relativa alla transizione ecologica, perché evidentemente non saranno le Oil&Gas, l’oligopolio automobilistico e gli altri settori responsabili del cambiamento climatico, a investire per una rottura radicale; una, infine, che operi alla costruzione di piattaforme alternative alle ‘Tech Giants’, per governare i Big Data come bene pubblico.

Non è qui il caso di entrare nel dettaglio delle proposte, alcune delle quali sono sviluppate nel Forum Disuguaglianze e Diversità, e alla cui elaborazione sto attualmente lavorando (si veda Massimo Florio, La ricerca biomedica come bene pubblico, in Il mondo dopo la fine del mondo, Editori Laterza, 2020). Può essere utile indicare alcuni dei principi generali intorno a cui ruota questa idea alternativa di politica della conoscenza.

Missione. Uno dei problemi che nel secolo scorso ha indebolito il ruolo potenziale delle imprese pubbliche in alcuni campi è una inadeguata indicazione delle missioni da parte dei governi. Lo statuto delle nuove infrastrutture dovrebbe delineare la propria missione, in modo tale che amministratori, dipendenti e ricercatori esterni ricevano un messaggio sufficientemente informativo su che cosa ci si attende sotto il profilo della funzione pubblica. Un buon esempio è lo statuto dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che combina ricerca e tecnologia spaziale sia per scopi scientifici che di politica industriale. Un altro meccanismo formale a disposizione è lo strumento, sviluppato soprattutto in Francia, dei contratti di programma fra Stato e imprese o agenzie pubbliche. In questo caso la missione viene declinata in obiettivi generali e specifici, spesso anche con la definizione di indicatori e tempi di attuazione. Un terzo meccanismo è dato dal coinvolgimento degli Stati o dei soggetti membri di una organizzazione nei suoi organi di governo o di monitoraggio, in modo da garantire in concreto il raccordo fra politiche e soggetto attuatore – anche se qui, come vedremo più avanti, si pongono delicati problemi di equilibrio sotto il profilo dell’autonomia manageriale.

Proprietà. Vi è una vastissima esperienza internazionale nell’attribuzione dei diritti di proprietà a soggetti quali imprese pubbliche, infrastrutture pubbliche di ricerca, agenzie ed altri soggetti formalmente autonomi dallo Stato ma portatori di missioni pubbliche. Per quanto riguarda le infrastrutture di ricerca, tipicamente derivanti da accordi fra una pluralità di Stati, la forma caratteristica è quella di soggetti giuridici di natura pubblica, svincolati dal controllo da parte dei singoli Stati sotto il profilo amministrativo. Il panorama delle possibilità è ampio, se si considera che in linea di principio una agenzia pubblica o una infrastruttura di ricerca, avendo propria personalità giuridica, può a sua volta partecipare alla proprietà di una società di diritto privato.

Governance. Vi è molto da imparare dalle grandi infrastrutture pubbliche di ricerca, che, in quanto espressione di un incontro fra comunità scientifiche internazionali e governi o istituzioni che le hanno costituite e le finanziano, esprimono modelli sofisticati di bilanciamento dei poteri degli enti finanziatori e del management. Come ha scritto anche «The Economist», si dovrebbe studiare come mai il management dei grandi centri di ricerca scientifica riesca ad essere così efficiente, spingendo l’organizzazione alla frontiera tecnologica, solitamente rispettando i vincoli di bilancio, mantenendo ferma la propria missione strategica, e senza gli incentivi di stipendi multimilionari e le stock options che si ritengono indispensabili per i manager delle imprese private. Il segreto della governance di un ospedale pubblico, di una università, come di un centro di ricerca in genere, sta tutto nella internalizzazione della missione da parte di una comunità professionale con cui il management si identifica. In tutti questi casi, non sono né i meccanismi di mercato né la separazione formale dei poteri (pur essenziale) a determinare il successo dell’organizzazione, ma il prevalere delle motivazioni intrinseche: fare scienza, salvare vite, educare menti. Succede tutti i giorni sotto i nostri occhi.

Finanziamento. Le proposte che formulo sono ambiziose e richiedono fondi importanti (nell’ordine di alcuni miliardi ogni anno per ciascuna delle tre infrastrutture) per avere massa critica ed impatto. Per quanto ognuna delle proposte possa avere meccanismi diversi, sono presenti alcuni possibili canali per finanziare progetti di imprese europee ad alta intensità di conoscenza. Supponendo – per fissare le idee – che la forma legale sia quella di un ente pubblico sovranazionale sul modello del CERN o dell’Agenzia Spaziale Europea, il canale principale dovrebbe essere quello del trasferimento dal bilancio degli Stati al bilancio del nuovo organismo. Per assicurare che vi sia solidità nel progetto, gli impegni dovrebbero essere di natura pluriennale, e, come tali, iscritti nel bilancio degli Stati membri nonché formalizzati con appositi strumenti legali fra finanziatore ed ente ricevente. Il contributo ordinario non dovrebbe dunque essere legato a singoli programmi di ricerca o di servizio, ma all’insieme dell’attività istituzionale, salvo finanziamenti aggiuntivi a programmi singoli (come succede in ESA).

In secondo luogo, l’Unione Europea potrebbe entrare come tale fra i finanziatori, contribuendo con il proprio bilancio. Questo schema in cui l’UE, rappresentata dalla Commissione, partecipa a grandi progetti internazionali insieme a Stati membri e non membri si ritrova ad esempio nella governance di ITER, il progetto per la fusione nucleare (Cina, UE tramite Euratom, India, Giappone, Corea, Russia, USA, Regno Unito). Andrebbero in questo modo cancellati dispersivi programmi nazionali, risparmiando risorse che non sono adeguate a fare massa critica, mentre i nuovi soggetti sovranazionali potrebbero concorrere alla raccolta di fondi per progetti specifici, in aggiunta a quelli di funzionamento generale, anche attraendo fondi filantropici e di imprese private che per varie ragioni potrebbero volere contribuire a fondo perduto alla realizzazione della missione (come avviene per l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Occorrerebbe poi immaginare canali di ricorso al mercato finanziario, ad esempio attraverso prestiti BEI o – se fosse conveniente – emissione di eurobond finalizzati a questi grandi progetti.

Infine, sono anche prevedibili entrate di mercato, che possono derivare da contratti di fornitura, ad esempio per i servizi sanitari nazionali e le pubbliche amministrazioni. Si possono poi immaginare entrate da brevetti con la concessione di licenze, sia pure a condizioni tali da favorire il massimo accesso. Questo potrebbe richiedere che entrino nell’orbita del progetto società di diritto privato controllate dall’ente sovranazionale, ma con propria autonomia ed eventualmente con la partecipazione di soggetti privati.

Insomma, gli strumenti andrebbero studiati caso per caso, ma vi è ragione di ritenere che le risorse non manchino nelle presenti condizioni dei mercati finanziari (con tassi zero o negativi per il debito sovrano o sovranazionale) e con l’aumento straordinario del bilancio della Commissione (Next Generation EU). In questo senso, il momento è eccezionalmente favorevole sotto il profilo finanziario per investimenti pubblici di nuovo tipo, sostenuti da una coalizione internazionale che ne possa garantire la credibilità.

In conclusione, l’oligopolio di nuovo tipo va contrastato là dove il valore si crea: nel meccanismo di appropriazione della conoscenza, cui va restituito il ruolo di bene pubblico attraverso progetti ambiziosi, a lungo termine, al tempo stesso concreti e basati sul coinvolgimento di scienziati, amministratori pubblici e comunità di cittadini-utenti.


Crediti immagine: Licenza Pexels [CC0 Creative Commons], attraverso pexels.com

Note

[1] The world’s most valuable resource is no longer oil, but data. The data economy demands a new approach to antitrust rules, «The Economist», 6 maggio 2017.

[2] http://www.oecd.org/science/inno/open-science.htm

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