Nessuna città italiana compare tra le prime cinquanta più violente al mondo per numero di omicidi. Né si trovano altre città europee in questa particolare graduatoria, tantomeno asiatiche, australiane o canadesi. La lista viene stilata ogni anno da un’organizzazione non governativa messicana (il “Consiglio cittadino per la sicurezza pubblica e la giustizia penale”) usando come indice il numero di morti ammazzati ogni 100.000 abitanti.
Le prime tre classificate cambiano di anno in anno, ma non cambia un dato di fondo: la testa è quasi sempre occupata da città dell’America Latina (messicane, honduregne, salvadoregne, guatemalteche, venezuelane, brasiliane). Sono inoltre stabilmente presenti anche alcune medie città degli Stati Uniti e alcune del Sud-Africa. Insomma il problema delle città più violente al mondo riguarda il continente americano (46 su 50), in particolare la sua zona centrale, e una parte dell’Africa, luoghi e continenti diversissimi per condizioni politiche, economiche e sociali. Alla luce di questi dati, dunque, non si può dire che sia solo il sovraffollamento o la miseria la causa principale della violenza urbana: moltissime megalopoli hanno in questo momento storico tassi bassi di omicidi (tutte le grandi città cinesi, NewYork, Tokio, Londra, Istambul, Seoul, ecc.), così come non sono ai vertici di questa classifica i grandi agglomerati urbani con condizioni sociali e abitative disperate (Lagos, Giacarta, Delhi, Mumbai, Bangkok, Lima, Karachi, Kinshasa, Teheran, ecc). Quello che decide il primato per numero di assassinii in rapporto alla popolazione è il controllo del traffico della droga abbinato a determinate condizioni di vita urbana. Il fatto che al primo posto ci sia una città messicana (Celaya), che altre sei si collochino tra le prime dieci e che altre diciassette città di quella nazione (cioè oltre il 35% di tutto il campione) si trovino tra le prime cinquanta con più omicidi al mondo, dimostra come il controllo delle frontiere tra una narco-nazione qual è il Messico e il principale luogo di consumo, cioè gli Usa, sia da almeno 25 anni la causa principale dello scatenarsi della violenza omicida urbana. E’ lungo la frontiera tra queste due nazioni (ben 3114 chilometri) che si svolge in tempi di pace una guerra contemporanea che non sembra avere mai fine. E a ridosso del Messico, per entrare nel mercato americano degli stupefacenti, premono altri paesi di confine o geograficamente più vicini agli Usa. Il Messico solo nel 2019 ha visto morire in maniera violenta ben 34.982 persone, cioè 95 al giorno, 4 ogni ora, come ha documentato su questo giornale Giovanni Porzio. Il Messico è oggi l’epicentro mondiale della violenza omicida. Per fare un confronto con l’Italia, va ricordato che nella nostra nazione nel 2019 si sono verificati 315 omicidi, numero che è sceso a 271 nel 2020, il più basso della nostra storia unitaria. In una sola città media messicana si compiono in un anno più omicidi di quelli che si compiono in Italia e in ognuna delle altre nazioni europee.
Insomma sulla graduatoria della violenza omicida urbana incidono motivi geopolitici in relazione al controllo del traffico di droghe. Infatti le due grandi città messicane di frontiera con gli Usa, Tijuana e Ciudad Juarez (quest’ultima descritta magistralmente,con il nome di Santa Teresa, da Roberto Bolaño come l’incarnazione urbana del male nel libro 2666) sono al secondo e al terzo posto per numero di morti ammazzati, con più di cento assassini ogni centomila abitanti solo nel 2020, anno in cui per la pandemia c’è stato comunque una riduzione di omicidi per strada. Non sono risparmiate le città turistiche (come Acapulco ad esempio, la perla messicana sul Pacifico, o negli anni scorsi Los Cabos) . Da notare che Medellin (la città colombiana dominata da Pablo Escobar, il più famoso narcotrafficante della storia) non compare da alcuni anni tra le prime cinquanta città più violente al mondo, pur avendo dominato questa particolare classifica nei primi anni di pubblicazione. La Colombia colloca solo due città tra le prime cinquanta, a dimostrazione di come l’efficacia di un’azione repressiva si deve sempre coniugare con fattori di geopolitica: il Messico ne ha preso il ruolo di principale luogo logistico dello smistamento della droga.
Nella splendida trilogia di Don Winslow sul narcotraffico tra Messico e Usa, vengono fatte affermazioni del tutto convincenti: “Le cose non cambieranno mai finché esisterà questo insaziabile appetito per le droghe. Che ha origine dalla domanda prodotta dagli Usa. Il cosiddetto problema messicano della droga, è in realtà il problema americano della droga”. Insomma, se questa classifica la si guarda con l’ausilio di una carta geografica, si comprende bene come il problema della violenza nel mondo in questa epoca storica è in grandissima parte riconducibile al controllo del traffico degli stupefacenti. E le megalopoli non sono necessariamente le più pericolose e violente. Nella criminologia moderna il peso della produzione, del commercio e del consumo delle droghe ha cambiato radicalmente i parametri di interpretazione della violenza, ma su ciò gli scienziati sociali non traggono tutte le conseguenze. L’offerta criminale di droghe è sorretta da una domanda di massa, che ha raggiunto la cifra di 25 milioni di tossicodipendenti nel mondo e di 250 milioni di consumatori occasionali.
Da notare il ruolo centrale del Brasile che colloca ben 11 sue città in questa classifica, tra cui le tre metropoli di Fortaleza, Salvador e Recife. Mentre le altre nazioni Sud-americane (Argentina, Cile e Perù) non sono presenti. Le tre città africane in graduatoria sono tutte appartenenti al Sud Africa. E’ lì, al di la delle numerose guerre di quel continente, che si concentra la violenza omicida, a partire dalla capitale Cape Town. Il caso del Sud Africa sembra delineare l’impossibilità di condizioni normali di vita in presenza di una urbanizzazione forzata di popolazione fino a pochi anni fa distribuita nelle campagne e con scarse opportunità di lavoro per tutti. A Città del Capo a qualche minuto di macchina dal centro, si trovano le cosiddette Flats – un’intricata serie di quartieri popolari e baraccopoli dove a inizio Novecento vennero segregati gli abitanti neri della città, e dove operano 130 bande criminali di cui fanno parte almeno 100 mila persone in costante lotta tra di loro. Mentre dopo la fine dell’apartheid la violenza è diminuita in tutta la nazione, ciò non si è verificato a Città del Capo. Anche qui il controllo del traffico di droghe gioca un ruolo importante, ma assieme alle condizioni miserevoli di alcuni sobborghi.
Caso particolare è quello delle cinque città statunitensi presenti nella graduatoria. Addirittura S. Louis compare al settimo posto dopo le città messicane, poi più distanziate troviamo Baltimora, New Orleans, Memphis e Detroit, con la caratteristica di essere tutte di medie dimensioni. Le grandi metropoli statunitensi (New York, Los Angeles, Chicago) non compaiono in questa classifica. Ed è ancora più singolare che nessuna delle città americane di confine con il Messico (in particolare San Diego ed El Paso che sono la parte americana di Tijuana e Ciudad Juarez) presenta alti tassi di crimine pur essendo in effetti una sola grande area metropolitana divisa tra due nazioni. Come spiegarsi ciò? In un importante libro, Perché le nazioni falliscono, scritto dall’economista Daron Acemoglu assieme al politologo James A.Robinson, si sostiene che il diverso grado di sviluppo, di ricchezza, di istruzione, e dunque anche di sicurezza, dipende dalla qualità delle istituzioni e dal tasso di democrazia reale che si è sviluppata all’interno delle due nazioni divise dalla lunga frontiera. Ma se sono la qualità delle istituzioni e il livello di democrazia responsabili non solo della ricchezza dei popoli ma anche della loro sicurezza, come mai negli Usa ci sono livelli così alti di violenza? E come mai ben 5 sue città registrano tassi di omicidi tra i primi nel mondo? E’ proprio sul tema della sicurezza e sull’uso della violenza che le teorie di Agemoglu-Robinson sembrano meno convincenti. Se si analizza il caso di S. Louis, si potrà verificare come anche in questa città l’alto numero di omicidi commessi (264 in un anno in una città di appena 300.000 abitanti) è legato al traffico e al consumo di droga. In particolare avendo deciso di abbassare il costo dell’eroina, ciò ha prodotto una accesa conflittualità tra le varie gang che controllano lo spaccio. Meno costa la droga, più clienti bisogna procacciarsi per mantenere alti i profitti che prima si realizzavano con prezzi più alti. Inoltre, negli Stati Uniti, la facilità con cui è possibile acquistare armi incide indubbiamente negli indici omicidiari.
La teoria del generale declino della violenza, che secondo il neuroscienziato americano Steven Pinker caratterizza la nostra epoca, al punto da considerarla come la più “pacifica” della storia umana, ha qualche intoppo di fronte al dato che è il commercio delle droghe a causare il più alto numero di omicidi nel mondo. Mai le droghe nel corso della storia avevano assunto un ruolo economico così importante e un consumo cosi di massa. Sta di fatto che uno dei commerci più ricchi al mondo è nelle mani di organizzazioni criminali e ciò causa un numero elevato di morti ammazzati laddove si concentra geograficamente l’incontro tra domanda e offerta, cioè tra Messico e Usa.
In Europa le città con i tassi di omicidi più alti sono Kaunas e Vilnius in Lituania (sono dati relativi al 2017, con un tasso rispettivamente di 5,4. 3,9 omicidi ogni 100.000 abitanti), anche se imparagonabili con quelli latino-americani, statunitensi e sud- africani. Seguono poi Marsiglia (con un tasso del 3,5) Bratislava (3,5) e Bruxelles (3,2). Basso è il tasso nelle altre capitali (Parigi all’1,3, Londra all’1,2, Berlino all’1,4) mentre Roma è ampiamente sotto l’1% e dunque non è affatto tra le capitali più pericolose d’Europa, contrariamente a quello che si racconta. Sui tassi alti di Lituania (ma anche di Lettonia ed Estonia, come rilevato da Eurostat nel 2018) incide molto l’uso dell’alcol, mentre le condizioni economiche e abitative delle periferie delle grandi città (e il diffuso malessere sociale) sono alla base della violenza nei conflitti tra bande e gang delle altre città dell’Europa occidentale. Da segnalare anche l’alto numero di suicidi nei Paesi baltici.
In Italia, Napoli ha i tassi più alti rispetto alle altre metropoli, ma è scavalcata da Nuoro e Vibo Valentia tra i capoluoghi di provincia. Anche nella città partenopea la violenza del passato non è paragonabile a quella di oggi. Se guardiamo ai dati relativi agli ultimi decenni, il tasso di omicidi ogni centomila abitanti è passato dal 7,93% del triennio 1989-1991 al 3,16% del periodo 2013-2016. Scendendo al due per cento nel 2018 e riducendosi all’1% nel 2019. Se poi il calcolo lo si fa in rapporto al numero complessivo dei reati commessi, cioè includendo anche quelli non violenti, Napoli e la sua provincia sono solo al diciottesimo posto, mentre Palermo non compare neanche tra le prime venti posizioni. Nella graduatoria delle province con più reati Milano è prima, seguono Firenze e Rimini, mentre Roma è in sesta posizione, e le prime due province meridionali sono Napoli (diciottesima) e Foggia (diciannovesima). Paradossalmente si potrebbe dire che senza mafia e camorra, Napoli e Palermo potrebbero essere tra le città e le province meno pericolose al mondo! Ma mentre a Palermo il calo degli omicidi è una costante degli ultimi 25 anni, a Napoli si alternano fasi di calo ad altre di incremento: tra le città a presenza di fenomeni di tipo mafioso, la metropoli partenopea sembra in perenne ebollizione, così come le città calabresi, di cui ben 6 compaiono tra le più violente in Italia.
Mentre Vibo Valentia è la prima città per numero di omicidi rispetto alla popolazione, la città con più denunce per reati sessuali è Trieste; Roma ha il più alto numero di denunce per spaccio di droghe, mentre Napoli invece è al primo posto per furti, scippi e rapine a mano armata. Ma è Milano in assoluto la città con il più alto numero di reati denunciati. In Italia i delitti in famiglia superano da tempo i delitti per strada, i femminicidi quelli delle organizzazioni di stampo mafioso. Nel 2019 su 315 delitti (un crollo rispetto ai 1633 del 1990) solo 29 sono di matrice mafiosa, mentre si sono verificati ben 101 uccisioni di donne da parte di mariti o conviventi. Da tempo gli omicidi per rissa hanno superato quelli in agguato.
In conclusione: il controllo del narcotraffico è al centro della violenza omicida nelle città del continente americano, mentre in Europa la violenza si concentra attorno al disagio urbano, in particolare nelle periferie delle grandi città. L’invenzione delle periferie è una delle cose di cui meno possono vantarsi la cultura, la politica e l’urbanistica occidentali, un problema a cui non si pensa minimamente di fare fronte nonostante la quasi scientifica dimostrazione del loro carattere criminogeno. In Italia, invece, le mafie sembrano avere addomesticato la violenza piegandola al servizio degli affari, diversamente dai narcotrafficanti latino-americani. Eccezione è Napoli dove l’assoggettamento della violenza agli affari non è stata del tutto completata e il disagio urbano provoca una immediata interconnessione con comportamenti devianti all’interno del sottoproletariato urbano: uno dei pochi casi tra le grandi città europee in cui disagio e crimine sono così vicini.
Nel mondo di oggi, dunque, non è l’immigrazione la principale causa della violenza urbana: sono i traffici attorno alle droghe, la vita delle periferie e le deprivazioni economiche e sociali.
Questo articolo è stato pubblicato su La Repubblica il 5 luglio 2021