Com’esce dalla pandemia la terza città italiana e, insieme ad essa, l’area metropolitana più complessa, delicata e a maggiore emergenza sociale della nazione? Si ripresenterà sulla scena l’eterna Napoli-Giobbe di cui parlava Giuseppe Mazzini, paziente, sfortunata, che non fa a tempo a sollevarsi da una tragedia che entra subito in un’altra? O sarà la città-Sisifo che deve sempre ricominciare daccapo quando pensava di aver risalito la china, logorata dall’impotenza a contrastare un destino minore?
Contrariamente a questa statica visione, l’immagine che oggi Napoli rimanda di sé è un insieme di spossatezza e di vitalità, una metropoli piena di problemi, di ferite aperte, di acciacchi acuiti e di sorprendenti energie, di impetuosa voglia di ricominciare. Reazione tipica di chi è abituato alle lunghe e strutturali difficoltà e sa reagire meglio alle crisi contingenti grazie a un lungo apprendimento a gestire le incertezze e adattarsi alle situazioni di fatto.
Perché Napoli, al di là dello stilema che le si è cucito addosso, non è affatto una città immobile, anzi, al contrario, ha sempre ricevuto una spinta possente dalle numerose tragedie che ha attraversato nel corso della sua storia. Un dinamismo precario, certo, ma sempre di dinamismo si tratta. I bombardamenti della seconda guerra mondiale (la città ne subì più di cento con più di 20.000 vittime civili e la distruzione del porto, delle principali manifatture e di più del 50% delle case e delle infrastrutture urbane); il colera del 1973 che mise in ginocchio l’economia che ruotava attorno ai frutti di mare; il terremoto del novembre 1980 che rese inagibile gran parte del centro storico provocando una crisi abitativa pari a quella determinatasi nel dopoguerra; la fine della Cassa del Mezzogiorno e il conseguente crollo dell’apparato industriale tra metà anni ottanta e metà anni novanta; gli atti terroristici e le numerose faide di camorra (unica città a subire entrambe le violenze); la chiusura dell’Italsider, la più grande fabbrica del Mezzogiorno, che nel 1977 dava lavoro a ben 8.000 addetti): questi sono solo alcuni dei momenti difficili o tragici che la città ha attraversato. A Napoli la voglia di reagire e il disincanto sono sempre in bilico, in un intreccio strettissimo tra “nonsipuotismo” (l’introiezione che “non si può fare niente” per incidere sulla realtà) e una esagerata considerazione delle virtù taumaturgiche dei singoli. Ma in genere dopo le grandi tragedie ritorna sempre l’entusiasmo per ciò che prima sembrava impossibile: cambiare Napoli nelle condizioni storiche che di volta in volta si determinano. Perché si può sempre fare qualcosa anche quando l’aiuto esterno che ci si aspetta potrebbe non arrivare.
Se Napoli è da sempre una città-mondo (capace cioè di influenzare l’immaginario globale e di essere amata anche da chi non l’ha mai visitata), se è stata sempre percepita all’estero come metropoli inclusiva, ospitale, autentica, umana, non è mai diventata fino in fondo una città-nazione, cioè una metropoli in grado di determinare le scelte fondamentali della nazione al pari di Milano, Roma, Genova, Venezia o Torino.
In questa pandemia, guardando alle reazioni verificatesi in altre città e in altri contesti economici, meraviglia come la città problematica per eccellenza non sia esplosa socialmente. Forse la spiegazione più semplice, oltre al funzionamento di una solidarietà familiare e di vicinato e al sostegno di un ampio fronte di volontari cattolici e laici, sta nel fatto che il reddito di cittadinanza ha svolto la sua funzione di ammortizzatore sociale. L’ostilità verso questo strumento, come ha ricordato su questo giornale Chiara Saraceno, impedisce di vederne anche gli effetti positivi. Finalmente lo Stato ha fornito un sostegno a chi non ce l’aveva e a chi non poteva averlo durante la pandemia, impedendo di trasformare la non occupazione in disperazione. Certo, vanno esercitati più controlli per evitare che anche di questo strumento approfittino persone e famiglie del mondo malavitoso, ma non vanno confusi gli abusi con la validità dello strumento. Se il blocco dei licenziamenti ha consentito una relativa tenuta sociale nel mondo operaio del Centro-Nord, il reddito di cittadinanza ha avuto gli stessi effetti per una parte precaria del mondo del (non) lavoro meridionale. Nella provincia di Napoli ne hanno usufruito oltre 166.000 famiglie, quasi mezzo milione di persone coinvolte, un numero che supera quelli di Lombardia e Veneto insieme. In Campania risiedono il 20,3% dei nuclei beneficiari complessivi. Napoli è la metropoli che registra in assoluto il numero più alto di percettori.
Certo, è nella ripresa del ruolo nel settore turistico, della ristorazione, del commercio, della fruizione culturale e museale, che si giocherà la grande partita del post pandemia, con una differenza rispetto alle altre zone e città turistiche italiane: per Napoli questo ruolo di attrattore è più recente e più instabile, e in ogni caso non è in grado di assorbire tutta la vasta disoccupazione urbana. Il 2019 era stato l’anno record delle presenze turistiche in città e nella regione, con 11 milioni di arrivi all’aeroporto di Capodichino (di cui più di 6 milioni dall’estero). Un trend di crescita impressionante, cominciato già decenni addietro, ma consolidatosi dopo gli attentati nei paesi arabi, soprattutto in Tunisia, Marocco ed Egitto. Napoli si è inserita bene in questa modifica delle mete turistiche dovuta ai pericoli del terrorismo internazionale. Ed ora ha davanti a sé la partita di confermare e ampliare la posizione raggiunta prima della pandemia. Non è solo un problema di apporto del turismo al Pil, ma di modifica dell’assetto urbano e sociale della città. Non va dimenticato che alcune delle guerre di camorra si svolgono a pochi metri dai luoghi più visitati,e il rischio di un coinvolgimento di ospiti stranieri potrebbe comprometterne il richiamo internazionale. Perciò una quotidiana attenzione alle condizioni sociali di diversi quartieri è prioritaria, provando a bloccare il rifornimento di nuove leve criminali che vengono dall’età minorile. E prima o poi dovrà essere affrontato il problema di una più giusta ripartizione di risorse tra il comune di Napoli e la Regione Campania. Così come tra le altre aree metropolitane e le corrispettive Regioni.
Napoli è stata all’opposizione della politica nazionale in altre epoche politiche, ma mai come negli ultimi 10 anni. Quando il monarchico Achille Lauro era al governo della città negli anni cinquanta del Novecento poteva almeno contare su di un blocco sociale locale in grado di sopperire economicamente all’isolamento nazionale. E quando è capitato a Bassolino di amministrare avendo Berlusconi come presidente del Consiglio, lo ha fatto sapendo mantenere aperto il dialogo. Una città con i problemi di Napoli, e con la scarsità di risorse a disposizione, non si può neanche lontanamente permettere un isolamento politico così forte ed evidente. Un potere locale senza proiezione e influenza nazionale è di fatto un potere dimezzato. Questo è forse, al di là di ogni altra considerazione, il maggiore limite dell’esperienza del sindaco de Magistris. Per la verità negli ultimi anni anche l’Italia e le sue classi dirigenti si sono distaccate da Napoli, e non solo per responsabilità del sindaco. Si è consumato insomma un allontanamento, quasi un divorzio tra la classe dirigente nazionale e la città più importante del Sud dell’Italia, con un’algida indifferenza intervallata da brevi scoppi di attenzione, particolarmente quando si verifica qualche episodio criminale che impressiona l’opinione pubblica nazionale.
E se è del tutto evidente che la città non può farcela da sola per la mole di problemi irrisolti accumulati nel tempo ( di cui la pandemia è solo l’ultimo), è altrettanto chiaro che può chiedere una mano alla nazione solo se pone più cura e attenzione alla qualità delle sue classi dirigenti.
Questo articolo è sato pubblicato su la Repubblica il 3 giugno 2021