L’Italia è il paese europeo con la percentuale più alta di persone che dichiarano di non avere nessuno a cui rivolgersi – che siano parenti, amici, vicini di casa o conoscenti – in caso di bisogno. È quello che emergeva da uno studio pubblicato dall’Eurostat nel 2015. La pandemia ha senza dubbio esasperato questo dato, ma soprattutto ha reso evidente l’importanza delle pratiche di cura. I dati dicono che durante la pandemia sono state soprattutto le donne a prendersi cura di bambini, anziani, malati. L’istituto per l’uguaglianza di genere (Eige) ha analizzato la parità di genere (gender equality) in tutti i paesi dell’Unione europea, e l’Italia è all’ultimo posto per quanto riguarda l’uguaglianza di genere nel mondo del lavoro. Ed è tra gli ultimi se si tiene conto del tempo dedicato alla cura, al lavoro domestico e alle attività sociali – davanti solo a Grecia, Belgio, Repubblica Ceca e Slovacchia.
Comparando i dati si potrebbe azzardare che le donne italiane non abbiano tempo per lavorare, sommerse come sono dal lavoro di cura. Secondo lo studio condotto dall’istituto di sondaggi Ipsos per la onlus We world e intitolato La condizione economica femminile in epoca covid-19, “il 60 per cento delle donne ha dichiarato di occuparsi da sola della cura di figli, anziani e disabili (contro il 21 per cento degli uomini), spesso lavorando. Una donna su due ha dovuto abbandonare piani e progetti a causa del covid-19, contro due uomini su cinque”. Il lavoro di cura rappresenta ancora un paradosso per l’emancipazione femminile: se da una parte è un elemento cruciale per il benessere e lo sviluppo delle persone e delle comunità, dall’altro continua a relegare le donne in posizioni di subalternità rispetto agli uomini.
Durante quest’anno di pandemia è emersa un’enorme frammentazione sociale, ma è balzato agli occhi che il principale problema delle donne è quello di non poter contare sull’aiuto di nessuno, insieme alla solitudine profonda con cui svolgono il lavoro di cura tra le mura domestiche.
Formare una comunità di cura
“Per tutta la vita mi sono presa cura degli altri. Mi sono presa cura di Sunil. Mi sono presa cura di Solo. Mi sono perfino presa un po’ cura di Mr Chetan. E adesso? Guardami, quaranta e passa anni e non ho un accidente di niente che dimostri il mio valore. Finché servivo, bene. Ora non sono più niente per nessuno”. Sono le parole di Betty, la protagonista di Love after love di Ingrid Persaud (edizioni e/o 2021), vincitore del premio Costa award 2020. Betty vive a Trinidad, ma il suo bisogno di aiuto non è tanto dissimile dal nostro. Betty è sola con un figlio e, per motivi economici, decide di affittare una stanza della sua casa a un amico gay: i tre formeranno una famiglia, anche se per nulla tradizionale.
Formare una comunità di cura significa anche questo: aiutarsi a vicenda condividendo le risorse e aiutandosi gli uni con gli altri. Nel Manifesto della cura (Alegre 2021) le autrici parlano di cura “promiscua”: prendendo a modello le pratiche di promiscuità della comunità gay negli anni ottanta durante la crisi dell’aids, la cura può – e a volte deve – essere “promiscua”, ovvero esistere al di fuori delle reti familiari e delle logiche di mercato.
Secondo gli autori e le autrici del libro, oltre al mutuo soccorso e alla condivisione delle risorse, per costruire una comunità si dovrebbe occupare uno spazio pubblico e creare un’esperienza di democrazia di prossimità. È possibile dunque costruire comunità in cui il lavoro non sia solo un carico fisico e mentale delle donne e/o il welfare non sia interamente privatizzato?
A Milano
Al Ri-make di Bruzzano, nella periferia di Milano, si lavora in questa direzione già da qualche anno. Con la campagna NonSeiSola/Solo il centro sociale ha organizzato oltre alla consegna della spesa per chi non poteva uscire di casa durante la pandemia, anche doposcuola e campi estivi gratuiti, incontri per discutere la riconversione di spazi pubblici in beni comuni, uno sportello psicologico.
Marie Moïse, attivista di Ri-make e cotraduttrice del Manifesto della cura, dice: “Sono le donne a prendersi cura degli altri, sono state educate a farlo. E sono anche le donne che fanno il lavoro politico su questo. L’iniziativa NonSeiSola/Solo riprende una pratica che è figlia del femminismo: se aiuti una donna aiuti tutti, quando aiuti una donna si modifica anche la società. Non c’è l’identità al centro, ma le pratiche sociali, e la cura è una pratica sociale”.
Al centro sociale milanese si è cercato anche di lavorare sulla pressione psicologica di cui le donne devono farsi carico e che spesso cresce nei fine settimana, con l’organizzazione di mercatini solidali e pranzi popolari della domenica. “Non si parla di servizi ma di autogestione, non di volontariato ma di mutualismo”, continua Moïse.
A Terni e a Reggio Emilia
Paola Gigante è una delle fondatrici della Casa delle donne di Terni, l’unica in Umbria, una regione dove durante quest’anno di pandemia si è registrata una spinta politica fortissima a privatizzare parte dei servizi sociali. Gigante racconta che la regione ha ostacolato decisamente le attività delle associazioni, che non possono riprendere in presenza, né all’aperto né al chiuso, fino al termine dello stato d’emergenza.
“Prima della pandemia avevamo varie attività tra cui uno sportello antiviolenza, un altro di consulenza legale, abbiamo fatto orientamento ai servizi e al lavoro, ma abbiamo anche organizzato un cineforum femminista, un gruppo di lettura, e poi laboratori sartoriali e teatrali, perfino il coro!”, dice Gigante. “In remoto abbiamo continuato a fare tanto, in particolare abbiamo fatto un lavoro di contrasto alla solitudine con un gruppo di mutuo aiuto chiamato ‘Una stanza tutta per noi’, un luogo virtuale dove le donne hanno messo sul piatto i loro problemi, facendo emergere un senso di isolamento e un forte bisogno di ascolto”.
Il tentativo di fondare un welfare comunitario lo mette in pratica anche la fondazione Reggio children, che con il progetto Cucina di quartiere – in collaborazione con Pause-atelier dei sapori e l’associazione culturale I burattini della commedia – ha dato vita a un pranzo “di quartiere” a Reggio Emilia. Dal 2019 ogni domenica, sempre in un posto diverso – solitamente uno spazio condiviso come una scuola o un asilo – ci si incontra per pranzare e poi partecipare a uno spettacolo di teatro di figura. Partendo dal cucinare insieme e dal portare a tavola le proprie biografie culinarie, le tradizioni, i ricordi, si cerca di rinsaldare il concetto di comunità e di ascolto reciproco.
Carla Rinaldi, presidente della fondazione Reggio children, pioniera insieme a Loris Malaguzzi di una pedagogia fondata proprio sulla cura e sui diritti dei bambini, è convinta che educare sia un gesto di comunità e che “non puoi educare senza prenderti cura”. “Ai bambini e alle donne”, dice Rinaldi, “sono stati negati i diritti durante quest’anno, sono stati lasciati soli. Non c’è bambino felice se non è felice la sua famiglia. Noi avevamo cominciato un lavoro con le famiglie prima della pandemia e abbiamo continuato a farlo, per quanto possibile, anche in remoto. Il cambiamento che si è innescato, soprattutto per quanto riguarda le donne migranti, è stato una piccola rivoluzione. Venendo a questi appuntamenti le donne si sono sentite riconosciute e protagoniste della loro comunità. Inoltre, spesso sono venute a cucinare da sole lasciando i mariti o i compagni a casa con i bambini. Questo rovesciamento dei compiti ha fatto sì che molte di loro si siano sentite per la prima volta al centro e indipendenti”.
Anche se all’estero il dibattito sulla cura è attivo da tempo – a partire dalla teorica femminista Nancy Fraser e dal suo La fine della cura (Mimesis 2017), fino a Naomi Klein che di recente ha dichiarato che la cura è da considerarsi “il concetto e la pratica più radicale che abbiamo oggi a disposizione” – in Italia la questione non è ancora al centro del discorso pubblico come dovrebbe essere. Al contrario.
In Umbria alcuni consiglieri della Lega, subito seguiti da colleghi piemontesi e marchigiani, hanno avanzato una proposta di legge regionale che, se fosse approvata, introdurrebbe la privatizzazione dei consultori, togliendo soldi alle cooperative e alle associazioni che si occupano di donne, bambini e anziani. Il progetto preoccupa la società civile e in particolare le donne che tentano di creare reti di solidarietà digitali e in presenza. Qualcosa di simile è successo nel Regno Unito, come si legge nel Manifesto della cura, dove si moltiplicano iniziative di mutuo soccorso e reti di solidarietà in risposta a uno stato che cerca di privatizzare il più possibile.
Forse la pandemia ci ha fatto capire che le forme di amore più radicali sono quelle legate alla solidarietà. Del resto non si può pensare che le istituzioni si facciano carico della cura (nostra e del pianeta) senza che tutti si prendano cura gli uni degli altri. Secondo Jennifer Guerra, autrice di Il capitale amoroso (Bompiani 2021), l’amore è “una delle azioni più antisistema, rivoluzionarie e coraggiose che ci siano: un vero atto di resistenza in questi tempi sempre più divisi”.
“Tutti abbiamo bisogno di cura”, dice Guerra, “non è un problema che può essere rimosso: che sia nostra madre o nostra figlia o una badante, qualcuno si è preso o dovrà prendersi cura di noi. C’è bisogno di risposte sistemiche perché queste non sono questioni identitarie, ma materiali”.
Secondo Carla Rinaldi “abbiamo trasformato la cura in accudimento, dimenticandoci che è un valore, abbiamo scordato la sua parte nobile, l’abbiamo delegata e questo è un vero delitto”.
Le comunità di cura, l’autogestione, i progetti educanti tuttavia non sono sufficienti: in un paese come l’Italia dove si registra il 51 per cento di disoccupazione femminile, dove la redistribuzione dei compiti all’interno del nucleo familiare è ancora del tutto insufficiente, forse è necessario che anche la politica se ne prenda carico, lavorando a un vero e proprio “stato di cura”.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 17 maggio 2021