Turchia. Migliaia di donne ieri in piazza contro l’uscita del governo di Ankara dal trattato di Istanbul. La ministra della famiglia: «La carta contro la violenza di genere non ci serve». Ma i numeri dicono altro
Le donne turche e le associazioni femministe lo avevano già capito. Manifestano dall’anno scorso, nonostante la pandemia, perché l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul era nell’aria, portata dalle parole insistenti come martelli pneumatici di ministri, politici, dello stesso presidente Erdogan.
Venerdì sera è successo: la Turchia, primo firmatario della Convezione del Consiglio d’Europa e paese ospitante il debutto della principale carta internazionale contro la violenza sulle donne, non aderisce più al trattato.
La Convenzione, entrata in vigore nel maggio 2011, firmata da 45 paesi (e dalle istituzioni Ue) e ratificata da 35, è la prima a introdurre strumenti legalmente vincolanti per combattere la violenza sulle donne, prevenire gli abusi domestici e perseguire i responsabili.
ALL’ARTICOLO 3, definisce la violenza di genere come una forma di discriminazione e individua una serie di abusi come specifica violenza contro le donne: violenza psicologica e fisica, stupro, molestie, stalking, matrimonio forzato, mutilazione genitale femminile, aborto forzato e sterilizzazione forzata, delitti d’onore.
Ankara dice di non averne bisogno e affida questa certezza a un tweet della ministra della famiglia, Zehra Zumrut: «A tutelare le donne ci sono già le leggi nazionali, a partire dalla nostra Costituzione. Il nostro sistema giudiziario è dinamico e abbastanza forte da implementare nuove leggi».
I NUMERI DICONO il contrario: secondo l’Oms, il 38% delle turche ha subito violenza almeno una volta, mentre secondo un rapporto dello stesso governo turco risalente al 2014 quattro donne su 10 hanno subito abusi fisici o sessuali, tre su 10 si sposano ancora minorenni, al 33% delle ragazze non viene permesso di frequentare la scuola e all’11% delle donne di lavorare.
E poi i femminicidi: 300 nel 2020 (più 170 casi «sospetti», che la polizia ha frettolosamente bollato come suicidi tra le proteste delle associazioni delle donne), 477 nel 2019, 440 nel 2018. Grosso modo il doppio dei dati del 2012.
NUMERI CHE si accompagnano alla martellante campagna imbastita da numerosi esponenti di governo e personalità conservatrici che (a partire dallo stesso Erdogan) da anni dipingono un’immagine dei ruoli di genere che buona parte delle donne – e non solo – considera l’ennesimo esempio di patriarcato di Stato: prendersi cura della casa e dei figli, soprattutto farli i figli, almeno tre, per il bene della nazione, che rischia ogni giorno a causa dell’avanzata della propaganda Lgbtqi+, terroristi che puntano a distruggere la fabbrica sociale (lo ha ribadito ieri su Twitter il vice presidente Fuat Oktay).
Questa la realtà agognata da una fetta importante di classe dirigente, se non altro quella al potere con la coalizione di governo Akp-Mhp. La Convenzione è divenuta il bersaglio migliore, con il suo richiamo all’uguaglianza che i conservatori ritengono il mezzo per promuovere i diritti Lgbtqi+.
Immediata la reazione delle opposizioni del Chp e dell’Hdp, ma soprattutto quella delle associazioni delle donne e femministe che hanno chiamato subito alla piazza, mai lasciata in questi mesi: «Chiamiamo alla lotta totale contro chi ha rimosso la Convenzione di Istanbul», il messaggio affidato ai social dalla piattaforma turca We Will Stop Femicide, annunciando proteste in tutto il paese, nel pomeriggio di ieri, da Hakkari a Erzurum, da Duzce a Kırsehir.
Il quartiere di Kadikoy a Istanbul si è colorata di viola e riempita del grido di migliaia di donne: «Kararı geri çek, sözlesmeyi uygula» (ritira la decisione, rispetta la Convenzione). Con loro membri del Chp, le socialiste femministe dell’Ehp, il Partito comunista e tanti altri, che hanno preso la parola insieme ai gruppi femministi. Lo slogan comune «Non stiamo zitte, non obbediamo». La polizia le ha caricate.
E MENTRE I SOCIAL NETWORK venivano inondati di messaggi di dissenso (l’hashtag: #istanbulsozlesmesiyasatir) venivano inondati di messaggi di dissenso, a reagire è anche il Consiglio d’Europa per bocca della sua segretaria generale Marija Pejcinovic Buric: «Questa mossa è un grave passo indietro e tra i più deplorevoli perché compromette la protezione delle donne in Turchia».
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Erdogan alla fine si prende Gezi Park
Continua il braccio di ferro politico intorno al destino di Gezi Park, il parco di Istanbul per cui i progetti di gentrificazione del presidente Erdogan avevano scatenato proteste di massa nella primavera-estate 2013.
Il governo ha tolto la proprietà di Gezi Park al comune di Istanbul (amministrato dal repubblicano Imamoglu dal 2019, enorme sconfitta per l’Akp) per porlo sotto il controllo dello Stato. Immediata la reazione del comune: già annunciato ricorso.
Il parco passerà nelle mani di una delle fondazioni del direttorato per gli affari religiosi, parte del ministero della Cultura. Il timore è che ora Erdogan possa realizzare il suo piano: ricostruire la caserma di Taksim per ospitare appartamenti di lusso e un centro commerciale.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Manifesto il 20 maarzo 2021