Con il governo Draghi, il ritorno paradossale del blocco borghese

di Stefano Palombarini /
24 Febbraio 2021 /

Condividi su

Mario Draghi governerà dunque l’Italia con l’appoggio di una maggioranza larghissima, che va dalla destra estrema della Lega fino a un pezzo di Liberi e Uguali. Non si tratta di una situazione del tutto inedita. Di governi di unità nazionale diretti da un «tecnico» ce ne sono stati già tre negli ultimi trent’anni: il primo fu quello di Carlo Azeglio Ciampi (1993-94), seguito dal governo Dini (1995-96) e, più di recente, da quello presieduto da Mario Monti (2011-13).

Queste esperienze hanno vari tratti comuni. Tre dei quattro «tecnici» scelti per presiedere il consiglio di ministri avevano prima esercitato il ruolo di banchieri centrali. Le ampie ed eterogenee coalizioni a sostegno dei quattro governi si sono formate in corso di legislatura, e in reazione a crisi politiche profonde. E queste crisi avevano una dimensione europea importante. Ciampi venne chiamato dopo l’uscita della lira dal Sistema monetario europeo, avvenuta nell’autunno 1992. Monti rimpiazzò un Berlusconi delegittimato pubblicamente, in una conferenza stampa, da Merkel e Sarkozy, il che contribuì alla forte crescita dei tassi sul debito italiano. Draghi arriva con il compito essenziale di negoziare i fondi stanziati dall’Unione europea con il Next Generation EU.

Dei tecnici non così estranei alla politica italiana

Il profilo del nuovo governo indica che l’utilizzo dei fondi europei è la ragione determinante della svolta politica. Nella ricerca di un equilibrio con i partiti che lo sostengono, Draghi, con l’accordo del presidente Mattarella, ha loro assegnato dei ministeri di peso: Esteri, Difesa, Salute. Su ventitrè ministri, solo otto sono degli indipendenti. Tuttavia, i tre ministeri che avranno un qualche peso nel negoziato sulle condizioni e l’utilizzo dell’aiuto europeo, sono stati tenuti lontani dall’influenza dei partiti, e attribuiti a uomini di fiducia del Presidente del consiglio: Vittorio Colao sarà responsabile dell’innovazione tecnologica e della transizione digitale, Roberto Cingolani della transizione ecologica, Daniele Franco dell’economia.

Il nome del responsabile del dicastero dell’economia non è, come quello di Draghi, del tutto nuovo alla politica italiana, e permette di stabilire un legame tra il nuovo governo e quello di Mario Monti.

E’ noto che la crisi che portò, nel 2011, alle dimissioni di Berlusconi, si aprì con una lettera della Bce firmata da Jean-Claude Trichet e… Mario Draghi, indirizzata al governo italiano. In quella lettera, il governatore della Banca centrale e il suo successore designato scrivevano a chiare lettere che l’acquisto sul mercato secondario dei titoli di debito italiano, indispensabile per evitare la crescita dello spread e dei tassi di interesse, sarebbe continuato solo in presenza di una forte restrizione fiscale e di una serie di riforme strutturali: liberalizzazione dei servizi pubblici, passaggio dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, revisione delle regole sui licenziamenti, riforma del sistema pensionistico. Un vero programma di governo per il quale Berlusconi sarà poi ritenuto inadeguato; Monti, che ne prese il posto, tradusse in pratica gran parte di quelle indicazioni. Un episodio meno noto di questa vicenda viene raccontato da Renato Brunetta, ministro di Berlusconi all’epoca dei fatti e ministro di Draghi oggi, in un libro del 2014.1 Tre mesi prima di dare le dimissioni, informato della pubblicazione imminente della lettera, Berlusconi telefonò a Draghi, dicendogli di avere capito il messaggio (che tradurrà nell’annuncio di qualche nuova tassa nei giorni seguenti) e chiedendo se fosse possibile conoscere in anticipo il contenuto preciso della lettera. Draghi gli rispose che alla redazione della lettera stava lavorando, alla Banca d’Italia, Daniele Franco, e fu lo stesso Franco che si rese qualche giorno dopo a Palazzo Chigi con una prima versione della missiva.

Il governo tecnico di Monti, nato per dare seguito ai consigli della Bce, inaugurò poi l’era che, con Bruno Amable e Elvire Guillaud, abbiano definito del governo del blocco borghese2, un’alleanza sociale equivalente a quella che costruirà qualche tempo dopo Macron in Francia3. In questo blocco sociale, che escludeva programmaticamente l’insieme delle classi popolari dal suo perimetro, le classi medie ed alte precedentemente separate dalla divisone tra destra e sinistra si sono trovate unite nel sostegno alla costruzione europea e alle riforme di stampo neoliberista. L’esperienza copre, in Italia, un arco di sette anni, dal 2011 al 2018, e dopo quello di Monti ha visto come protagonisti i governi Letta, Renzi e Gentiloni. Per cogliere il carattere paradossale della situazione che l’Italia sta vivendo, va ricordato che, dal punto di vista elettorale, quell’esperienza si è conclusa in modo catastrofico per chi l’ha sostenuta, trionfale per chi l’ha avversata. Il partito fondato da Monti, Scelta Civica, si è sciolto dopo essere sceso sotto all’uno percento alle legislative del 2018. Letta ha abbandonato l’attività politica. Renzi è uscito dal Partito democratico dopo averne perso il controllo, e il movimento che ha fondato fatica ad arrivare al 3% nei sondaggi. Gentiloni, dal canto suo, è stato nominato commissario europeo, il che gli ha consentito di mettersi al riparo dai venti avversi della politica italiana.4 Sul fronte opposto, la Lega ed ancor di più il Movimento 5 Stelle (M5S), entrato in parlamento nel 2013 e divenuto il primo partito italiano cinque anni più tardi, sono cresciuti moltissimo. Alle ultime elezioni politiche, quelle che determinano la composizione attuale del parlamento, i due partiti che si erano opposti ai governi del blocco borghese hanno ottenuto oltre il 50% dei suffragi.

Dieci anni dopo la nascita del blocco borghese, alla quale Draghi e Franco hanno dato un contributo decisivo, tre anni dopo la sonora sconfitta elettorale dei partiti che lo hanno appoggiato, l’Italia si ritrova dunque con un governo guidato da Draghi, con Franco responsabile dell’economia, che potrà contare sul sostegno quasi unanime del parlamento senza che nuove elezioni abbiano modificato il risultato del 2018.

Una narrazione keynesiana funzionale alle riforme neoliberiste

Media e responsabili politici italiani segnalano tuttavia, in coro quasi unanime, che è errato paragonare la fase che si va aprendo, con Draghi a distribuire i soldi in provenienza dall’Europa, e quella dell’austerità imposta da Monti. E se avessero torto?

Intanto, va sottolineato che le somme in arrivo grazie al Next Generation EU non somiglieranno alla pioggia miracolosa che viene raccontata. I fondi, 209 miliardi erogati tra quest’anno e il 2026, sono per 127 miliardi dei prestiti, per 82 miliardi sovvenzioni a fondo perduto. Per i prestiti, concessi a tasso assai agevolato, quel che conta è ovviamente la differenza con gli interessi che l’Italia dovrebbe pagare se si indebitasse a proprio nome sui mercati. Secondo i calcoli presentati nel Financial Times da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo5, il risparmio sugli interessi sarà nel migliore dei casi, vale a dire facendo ipotesi pessimiste sulla dinamica dei tassi italiani, di 24 miliardi in sei anni. Per quel che riguarda le sovvenzioni, va sottolineato che in assenza di un’improbabile nuova imposta europea di scopo, arriverranno da un fondo alimentato dai paesi dell’Unione: il contributo italiano sarà di 40 miliardi, il che riduce la sovvenzione netta a 42 miliardi. A conti fatti si arriva dunque a un massimo di 66 miliardi in sei anni di aiuti europei, 11 miliardi l’anno, cifra da comparare ad una caduta del Pil che è stata, nel solo 2020, di circa 160 miliardi. Sembra dunque completamente fuori luogo aspettarsi una politica keynesiana di forte rilancio dell’economia.

Ma più fondamentale è capire il ruolo dell’austerità nella strategia del blocco borghese. La necessaria riduzione del deficit pubblico, il rischio dell’esplosione del debito, il peso insostenibile che lo stesso debito farebbe ricadere sulle generazioni future… sono parte della retorica dei responsabili politici che fanno riferimento a quella alleanza sociale. Tuttavia, l’austerità non è, come non è mai stata, il loro obiettivo fondamentale, che va invece individuato nella riforma complessiva del capitalismo italiano in direzione neoliberista. In questo senso, l’austerità ha svolto un ruolo importante, come vincolo che permetteva di giustificare la necessità delle riforme strutturali: si tratta dunque non dell’obiettivo, ma di uno strumento (utile, non indispensabile) della strategia politica corrispondente al blocco borghese. Un discorso analogo vale per l’ideale europeo, che in questa prospettiva altro non è che uno strumento per legittimare l’indispensabile modernizzazione del capitalismo italiano.

Il parallelo tra i governi Monti e Draghi è dunque, contrariamente al discorso dominante, del tutto pertinente. Monti presentava le riforme come l’unica via per evitare l’esplosione del debito, Draghi dirà che le riforme sono indispensabili per ottenere gli aiuti europei. E più che l’austerità, sono le riforme strutturali che hanno ridotto la protezione sociale, indebolito i servizi pubblici, precarizzato i rapporti di lavoro, ad aver suscitato la reazione ostile di gran parte della società italiana ai governi del blocco borghese, e prodotto il rovesciamento dei rapporti di forza elettorali alle ultime legislative.

Dei partiti in crisi strategica

Bisogna dunque chiedersi per quali stravaganti ragioni i partiti cresciuti nell’opposizione ai governi del periodo 2011-2018 (M5S e Lega), e quelli che a causa del sostegno agli stessi governi hanno perso moltissimi elettori (PD e Forza Italia), si ritrovano tutti insieme nella maggioranza di Draghi, la cui strategia sarà con ogni probabilità quella di privilegiare nuovamente le attese di un blocco sociale né di destra né di sinistra che sembra rinascere dalle proprie ceneri. Il primo discorso pubblico di Draghi, il 17 febbraio al Senato, rinforza l’ipotesi di una continuità tra il suo governo e quelli del blocco borghese. Il nuovo presidente del consiglio ha insistito sulla necessità di riforme rapide per intensificare la concorrenza sul mercato dei beni, semplificare il sistema fiscale riducendo al contempo il livello di tassazione complessiva, rendere più efficiente l’amministrazione pubblica, favorire l’emergenza di poli d’eccellenza nel sistema di ricerca. Il quadro è dunque ancora quello del decennio passato: sono le riforme di struttura a dover garantire l’innovazione, la crescita e anche, novità imposta dal Next Generation EU, la transizione ecologica. Gli aiuti alle imprese, ha dichiarato Draghi, saranno selettivi: il che, tradotto concretamente, vuol dire che il governo lascerà fallire le imprese considerate come non abbastanza competitive. Alla massa di disoccupati che crescerà per effetto della crisi ed anche della scelta di concentrare le risorse su alcuni settori ed alcune imprese, il governo rinnova l’identica promessa di Monti e Renzi: delle politiche attive per il lavoro, vale a dire la possibilità di seguire dei corsi di formazione che si vorrebbero sufficienti per ritrovare un impiego. Ma è semplice capire che, in un contesto di forte recessione economica, la disoccupazione è causata dall’assenza di domanda di lavoro da parte delle imprese, non dalle qualifiche dei lavoratori. Al Senato, Draghi non ha speso una sola parola sulle forme contrattuali e la diffusione del precariato, sugli effetti di una contrattazione ormai spostata quasi completamente a livello aziendale, sull’assenza di un salario minimo presente invece nella grande maggioranza dei paesi industrializzati, sul livello delle remunerazioni o sulle regole relative ai licenziamenti. A conferma che le modifiche introdotte in questi ambiti da chi ha governato tra il 2011 e il 2018 non sono in contraddizione con la sua strategia. Draghi ha invece confermato con forza l’impegno europeo dell’Italia, che dovrà comportare ulteriori trasferimenti di sovranità in ambito fiscale. Persino l’invito retorico a non sacrificare l’avvenire delle giovani generazioni all’egoismo delle più anziane è in perfetta continuità con i governi del blocco borghese, da Monti a Gentiloni.

Quali sono dunque le ragioni che spiegano il sostegno quasi unanime al nuovo governo? Una parte di queste riguardano le dinamiche interne ai vari partiti; mi limiterò a una breve analisi delle scelte di Lega, M5S e PD, le tre principali forze parlamentari. Ma per spiegare la paradossale svolta politica italiana, bisogna guardare anche alla ristrutturazione profonda del campo politico che è stata prodotta dagli anni di governo del blocco borghese, e su questo aspetto tornerò nelle conclusioni di questa analisi.

La svolta spettacolare della Lega, entrata nella nuova maggioranza dopo aver fatto campagna per anni sull’uscita da una moneta unica che Draghi ha dichiarato al Senato essere irreversibile, non ha in realtà nulla di sorprendente. La linea del partito è sempre stata dettata dalla sua componente tradizionale, legata al mondo delle piccole e medie imprese del nord Italia. Salvini ha cercato, ed è riuscito in parte, a trasformare un movimento che sino al 2017 si chiamava Lega nord per l’indipendenza della Padania, in partito nazionalista presente sull’insieme del territorio, rivolgendosi anche alle classi popolari del centro e del sud sacrificate dall’austerità e dalle riforme strutturali. Tuttavia, il mondo produttivo del nord, e più in particolare del nord-est, fortemente integrato dal punto di vista commerciale e produttivo con la Germania, guarda con timore ad un’eventuale rottura con l’UE, specie se condotta in maniera unilaterale. Dopo la vittoria alle elezioni 2018, e appena un mese dopo aver formato il governo di coalizione con M5S, Salvini s’è affrettato a dichiarare al Washington Post che, sull’euro, aveva cambiato idea.6 Un anno dopo, la caduta del primo governo Conte è stata causata dal rifiuto dei 5stelle di accordare alle regioni la forte autonomia fiscale richiesta dai governatori leghisti del nord. Il partito nazionale e nazionalista che Salvini si è proposto di costruire ha dunque due anime; ma ogni volta che una scelta si è imposta come ineludibile, è la vecchia Lega, rappresentante del nord industrializzato, ad aver dettato la linea, senza ricercare il minimo compromesso con le attese del nuovo elettorato del centro e del sud. Una scelta era necessaria anche al momento della formazione del governo Draghi: opporsi o entrare in maggioranza. E ancora una volta, senza esitazioni e senza bisogno di discutere, sono state privilegiate le attese delle classi legate al mondo delle piccole e medie imprese. Questo mondo, che come detto non mostra nessun entusiasmo per la prospettiva di un rapporto conflittuale con le istitutioni comunitarie, accetta tranquillamente ed anzi per gran parte richiede rapporti di lavoro flessibili, e spera di approfittare almeno in parte dei fondi europei in arrivo. Non capirebbe allora una Lega all’opposizione del nuovo governo. Salvini ha d’altronde dichiarato che tutto quel che chiede a Draghi è di ridurre l’Irpef, evitare l’introduzione di una patrimoniale e non alzare l’imposta sulla casa7. Non è complicato capire a quali interessi sociali corrispondano richieste di questo tipo.

La svolta della Lega corrisponde dunque alla fine del progetto nazionale di Salvini e a un ritorno alla base tradizionale del partito. Questo riposizionamento è facilitato dal fatto che Fratelli d’Italia, formazione alleata in tutte le scadenze elettorali, punta precisamente all’elettorato di centro e sud al quale la Lega sta rinunciando. La strategia di Salvini è dunque chiara, e mira a fare della Lega, aiutata in questo anche dal declino di Forza Italia, il rappresentante politico del Settentrione produttivo.

Le cose sono più complesse per Partito democratico e M5S, che all’autunno 2019 si erano trovati a governare insieme. Un’alleanza improvvisata, determinata dalla decisione di Salvini di chiudere la parentesi giallo-verde e dal desiderio di evitare elezioni anticipate che avrebbero con ogni probabilità consegnato il governo del paese alle destre. A questa alleanza, i due partiti sono arrivati ciascuno in piena crisi strategica.

Il Partito democratico è stato, dal 2011 al 2018, il principale sostegno dei governi del blocco borghese. Dalle sue fila provengono tra l’altro i tre presidenti del consiglio succeduti a Monti. Ma le conseguenze elettorali di quell’esperienza sono senza ambiguità: dopo aver ottenuto il 33% dei suffragi nel 2008, ad elezioni che tra l’altro perse, il PD è sceso al 25% nel 2013, e al 18% nel 2018. Dopo quest’ultima disfatta, la linea di Renzi, che coincide in maniera quasi caricaturale con quella del blocco borghese, è stata messa in minoranza; lo stesso Renzi ha poi lasciato il partito. Tuttavia, ed è il nocciolo del problema, nel partito non v’è stato alcun confronto esplicito né dibattito contradditorio tra linee differenti. Renzi s’è per così dire battuto da solo, lasciando dietro sè una formazione senza bussola politica. La coscienza delle disuguaglianze e dei danni sociali prodotti dalle necessarie riforme è certo diffusa nel PD, ma l’unico collante che permette l’esistenza del partito, nel quale è ancora presente una consistente minoranza renziana, è l’adesione forte e incondizionata alla costruzione europea; e tale collante rende impraticabile una vera analisi critica degli anni del blocco borghese, senza la quale è difficile immaginare l’elaborazione di un progetto alternativo.

La situazione è se possibile ancora più confusa per il M5S, la cui traiettoria sembra determinata più dagli imprevisti delle congiunture politiche che da un vero orientamento. A lungo opposto alla casta dei partiti, e deciso a rifiutare ogni alleanza, il movimento ha cambiato linea durante la campagna elettorale 2018, dicendosi disposto a governare con chiunque all’eccezione di Berlusconi. Dopo il trionfo a quelle elezioni, M5S ha proposto un’intesa al PD, rifiutata da Renzi; si è allora rivolto alla Lega, ma dopo la caduta del primo governo Conte è tornato a girarsi verso il PD. Ed ora si trova, per la verità in presenza di un forte dissenso interno, a governare con PD, Lega e… Berlusconi.

Questo percorso apparentemente caotico ha seguito qualche linea direttrice. Il risultato straordinario, per un movimento nato solo da poco, ottenuto nel 2018 (33%), si spiega con l’opposizione frontale del movimento ai governi del blocco borghese, imperniata sulla difesa dei beni pubblici, sulla denuncia dei privilegi dei molto ricchi, e anche sull’attenzione rivolta alle tematiche ambientali. Posizioni molto nette accompagnate da altre, volutamente più sfumate e a volte contraddittorie, su temi importanti come la fiscalità, la moneta unica, i rapporti con l’Unione europea, la gestione dei flussi migratori; il che ha permesso ai 5stelle di raccogliere consensi in provenienza da destra e da sinistra. Il rapporto conflittuale con la Lega nel primo governo Conte, poi quello più cooperativo col PD durante il Conte 2, hanno in seguito condotto il M5S a posizionarsi in maniera sempre più chiara per una fiscalità progressiva, contro la diffusa precarietà dei rapporti di lavoro, e anche in favore di un tentativo di modificare i trattati europei dall’interno, senza rotture con l’UE. Non è sorprendente dunque che il movimento abbia finito per perdere una parte importante dei suoi elettori, quelli provenienti dalla destra.

Il secondo governo Conte era dunque appoggiato da due formazioni, Partito democratico e M5S, in crisi strategica, ma che in qualche modo, tra esitazioni e conflitti interni, e sotto il pungolo attivo di LeU, camminavano nella stessa direzione. E’ proprio per bloccare la prospettiva, ancora ipotetica ma concreta, di un nuovo centrosinistra certo condizionato da un europeismo un po’ incantato, ma attento alle diseguaglianze sociali e alla diffusione di precarietà e povertà, che Renzi ha deciso di aprire la crisi che ha condotto alla formazione del governo Draghi.

L’egemonia del blocco borghese sopravvive al suo declino sociale

Le vicissitudini dei principali partiti possono essere ricondotte ad un quadro unitario, che spiega anche il paradosso della situazione italiana; ovvero il ritorno probabile ad un’azione di governo in continuità con quella del periodo 2011-2018, mettendo tra parentesi il risultato delle ultime legislative. Il blocco borghese non è solo un’alleanza sociale di sostegno alla costruzione europea e alle riforme neoliberiste che unisce le classi medie ed alte in provenienza da destra e sinistra. E’ anche un progetto ideologico che implica una ridefinizione completa del quadro politico. Le disfatte elettorali del PD versione Renzi e di Forza Italia, non cancellano le tracce di quel progetto sulla strutturazione del conflitto politico, nella quale l’asse che separava destra e sinistra è stato messo in ombra dalle opposizioni tra europeisti e nazionalisti, tra élites e popolo, tra cosmopoliti e identitari, tra mondialisti e sovranisti. Il blocco borghese è un’alleanza sociale costruita oltre la destra e la sinistra attorno a uno dei poli di questi nuovi assi di differenziazione politica; alleanza che ha visto ridursi il proprio perimetro sociale, ma che resta compatta nei suoi obiettivi e nel sostegno alla strategia, europeista e neoliberista, che ne permette l’esistenza. Al polo opposto dei nuovi clivages si trova una parte maggioritaria ma politicamente eterogenea della società italiana. Questa eterogeneità è all’origine delle scissioni interne ai 5stelle, che si erano costruiti come movimento anti-élites, delle difficoltà che incontra il progetto nazionalista di Salvini, dei conflitti che hanno segnato l’anno di esistenza dell’alleanza giallo-verde e del governo del popolo che essa ha provato ad esprimere. Ma anche l’adesione senza riserve del PD alla costruzione europea, che lo porta a rigettare come populista ogni posizione critica rispetto all’UE, risponde a un posizionamento del partito all’interno del nuovo quadro politico, e rende difficile un reale cambio di linea politica.

Vi è una parte, ma solo una parte di verità nel discorso dei media dominanti che denunciano l’incapacità dei responsabili politici di proporre una soluzione alla crisi, incapacità all’origine dell’appello a Draghi. Il problema non è legato alle qualità personali dei dirigenti dei vari partiti, ma ad un’egemonia del blocco borghese che sopravvive al suo declino sociale. Un’egemonia che ha per effetto diretto un dibattito politico nel quale praticamente non si discute di protezione sociale, di servizi pubblici, di rapporti di lavoro, e che obbliga anche chi si oppone al blocco borghese a definirsi secondo i criteri che esso ha imposto. In un conflitto sociale e politico strutturato dalla visione del mondo del blocco borghese, quella nella quale lo scontro tra destra e sinistra è stato rimpiazzato dall’opposizione tra l’Europa e la Nazione, dalla divisione tra il popolo e la casta, esiste lo spazio per un’unica strategia politica solida e coerente: quella corrispondente al blocco borghese. Il che spiega che, nell’emergenza di una crisi economica alla quale va data risposta, una maggioranza politica larghissima si sia formata a sostegno di un progetto socialmente minoritario.

Resta che l’impatto sociale delle politiche di Draghi sarà, con ogni probabilità, comparabile a quello provocato dall’azione dei governi del periodo 2011-2018. Le classi sacrificate dalle riforme del blocco borghese avevano cercato una strada per esprimere la loro sofferenza e il loro scontento. E adesso? Avranno di nuovo anche solo la possibilità di farsi sentire per via elettorale, e la tenacia per provarci nuovamente? Non è certo per nulla. E anche se citare troppo spesso le stesse frasi di un autore complesso come Gramsci comporta il rischio di semplificarne il pensiero, non trovo, per queste riflessioni, migliore conclusione della sua: « La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati ».

 

Note

1 R. Brunetta : Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto, Editore Il Giornale, 2014

2 B. Amable, E. Guillaud, S. Palombarini : L’Économie politique du néolibéralisme. Le cas de la France et de l’Italie, Editions Rue d’Ulm, Parigi, 2012

3 B. Amable, S. Palombarini : L’illusion du bloc bourgeois, Raison d’Agir, Parigi, 2018

4 S. Palombarini : « L’Italie est malade du néolibéralisme (mais elle ne le sait pas) », Blog personale Mediapart, 9 aprile 2020

5 E. Brancaccio, R. Realfonzo : « Draghi’s plan needs less Keynes, more Schumpeter », Financial Times, 12 febbraio 2021

6 « Italy has done a lot, maybe too much », intervista di Salvini al Washington Post, 19 luglio 2018

7 Dichiarazione di Salvini a «  ½ ora in più », Rai 3, 14 febbraio 2021

 

Questo articolo è stato pubblicato su Contretemps il 19 febbraio 2021.

Traduzione in italiano dellautore

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati