Un giovanissimo della provincia di Napoli commette un delitto per una banale rissa, finisce in carcere per il resto della sua vita (tranne pochissimi anni di latitanza) e diventa il più potente uomo di camorra della storia criminale del nostro Paese. Nei vari istituti di pena in cui viene rinchiuso (compresi i manicomi giudiziari) mette su un esercito di massa di giovani delinquenti (più di tremila reclutati agli inizi degli anni ottanta del Novecento) offrendo loro soldi per pagarsi l’avvocato, sussidi alle famiglie, vestiti per presentarsi decentemente nelle udienze o ai colloqui con i parenti, riti di iniziazione per sentirsi parte di una élite delinquenziale e, infine, un credo ideologico in base al quale non dovevano sentirsi volgari assassini ma dei moderni Robin Hood, così come aveva scritto nel suo libro Poesie e pensieri che circolava nelle celle come una vera e propria Bibbia criminale. I direttori delle carceri e dei manicomi gli lasciano fare quello che vuole, compresi i giudici di sorveglianza e gli agenti penitenziari. All’apice del suo potere scatena una carneficina con più di 1500 morti ammazzati nello scontro con gli altri clan federati contro di lui. Tutto questo ha dell’incredibile, eppure è successo. In Italia, nella seconda metà del secolo scorso. e il protagonista di tutto ciò, Raffaele Cutolo, è morto l’altro ieri. Egli è il primo boss di un’organizzazione criminale di tipo mafioso che trasformato un luogo di espiazione delle pene e di recupero dei rei nella più grande scuola di formazione delinquenziale che si conosca in Occidente.
Potrebbe succedere ancora? Anche oggi alcune carceri (nonostante tante persone generose che ci lavorano) sono luoghi permanenti di educazione criminale, e migliaia e migliaia di giovani sottoproletari cercano nel crimine una bandiera, un credo, una possibilità di uscire da una vita di niente con una morte da boss.
Com’è stato possibile che da Cutolo si siano recati nel 1981 degli agenti dei servizi segreti (su sollecitazione di alcuni esponenti dei vertici della Dc dell’epoca) a chiedergli di intercedere con le Brigate rosse, per la liberazione di Ciro Cirillo, l’assessore regionale della Campania rapito dai terroristi? E quando quest’uomo nel 1994 prova a pentirsi, chiamando nel carcere di Carinola i magistrati per registrare le sue dichiarazioni, uomini degli stessi servizi segreti sono presenti prima che arrivino i magistrati e lo dissuadono con argomenti evidentemente convincenti. Altre trattative dello stesso tipo si sono ripetute in Sicilia, in Calabria, e chissà in quante altre parti d’Italia. L’uomo che autorizzò la visita a Cutolo in carcere dei rappresentanti dei servizi segreti si chiamava Ugo Sisti ed era il direttore degli istituti di prevenzione e di pena dello Stato italiano. Recentemente il suo nome è tornato alla ribalta per la strage alla stazione di Bologna dell’agosto 1980 quando era il capo della procura in quella città e indirizzò le prime indagine per fuorviarle.
Chi è stato, dunque, Cutolo? E chi lo ha fatto diventare un boss del livello descritto? L’indole, l’intelligenza, l’ambiente in cui è vissuto e si è formato, o anche le condizioni delle carceri italiane, il comportamento dei direttori, dei magistrati e le occasioni che le istituzioni gli hanno permesso di sfruttare? E infine quanto ha inciso sulla sua carriera la legittimazione degli apparati dello Stato e la volontà di alcuni esponenti della Dc di liberare un loro uomo quando tre anni prima erano stati intransigenti nel non trattare per la vita di Aldo Moro? Sono domande che un osservatore dei fatti criminali deve porsi, perché le carriere dei camorristi e dei mafiosi non si formano solo negli ambienti di provenienza ma nelle interrelazioni con potenti di altri ambienti non formalmente criminali. Cutolo fa parte a pieno titolo di un capitolo della storia italiana, cioè il rapporto di alcuni rappresentanti delle istituzioni di sicurezza (e di ambienti politici) con i capi delle maggiori organizzazioni criminali.
Ma il più importante e influente boss della camorra contemporanea. non ha lasciato né eredi né un regno criminale da trasmettere. E’ stato un fiero avversario dei mafiosi siciliani ma ha cercato di imporre il loro modello centralizzato a un mondo criminale, quello campano, riottoso ad ogni forma di centralizzazione. Oggi la frammentazione dei clan camorristici è impressionante, ben 180 in Campania, un numero record in rapporto alle altre criminalità mafiose italiane.
Se è fallito il modello cutoliano di camorra, tutto ciò che si è sprigionato in quegli anni di dominio e di lotta con gli altri clan ha prodotto invece notevoli risultati. Dalla seconda metà degli anni novanta del Novecento è radicalmente cambiata la gerarchia all’interno delle mafie italiane: le camorre napoletane e casertane (assieme alle ‘ndrine calabresi) hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla sconfitta dei corleonesi. Tre lezioni fondamentali Cutolo ha lasciato: non si è nessuno nel mondo criminale se non si entra nel campo delle imprese legali; se non si obbliga chi dalle istituzioni dovrebbe combatterti a fornirsi dei tuoi servizi; se non si ha sempre pronto un esercito criminale di riserva con grande voglia di riscatto sociale attraverso la violenza. Cutolo è stato il criminale più mediatico e più ideologico. Più vicino ad Al Capone che a Riina. Così scriveva nel suo libro: “ Napoli è divisa in signori e pezzenti. Se io ho un carisma è quello di poter offrire il passaggio immediato dalla seconda alla prima categoria.” I numerosi clan che lo hanno sostituito tengono ferma la barra in quella direzione. E ci sono riusciti.
Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 18 Febbraio 2021