Ogni nuovo anno porta con sé la designazione di una nuova Capitale della cultura italiana per l’anno successivo. Questa volta (2022) toccherà a Procida, e all’annuncio è seguito il solito rito di esultanze scomposte. Eppure abbiamo già visto fallire la conversione di Torino da città industriale a città culturale: nonostante i miliardi spesi per le Olimpiadi invernali del 2006, e il loro triste lascito di attrezzature sportive e non abbandonate o sottoutilizzate, nonostante l’inutile Torino 2008 World Design Capital, nonostante l’investimento milionario nelle Officine Grandi Riparazioni e l’attivismo di CRT e Compagnia di San Paolo, Torino era, sotto il profilo culturale, molto più produttiva e vitale quando le sue ricchezze erano legate alla fabbrica che dopo anni di politiche di “innovazione culturale”. A Milano abbiamo osservato come la visione posticcia di un’Expo a zero cubature, tutta orti e giardini, ispirata a Slow Food, presentata nel 2010 al BIE (il Bureau International des Expositions responsabile per le Esposizioni Universali), sia stata poi tradotta nel solito display di padiglioni tamarri e spettacoli scadenti e folle stremate e imbesuite che ricorre ogni cinque anni a Shanghai o Dubai, e come il famoso parco promesso in eredità sia diventato nei rendering una selva di palazzoni etichettati come futura Smart City, e come infine lo stesso Modello Milano che ne è scaturito si sia rivelato una gigantesca macchina della diseguaglianza.
Per non parlare del prevedibile esito di Matera Capitale della Cultura (europea): cinquanta milioni, per il novantacinque per cento provenienti da finanziamenti pubblici, che sono serviti a disneyficare un luogo minuscolo per un anno, suggellato da una simbolica alluvione che ha messo a dura prova i B&B e ristoranti. Le decine di artisti coinvolti in eventi di dubbio senso hanno ottenuto frazioni minime di quel denaro, le infrastrutture non sono neanche state completate e la Corte dei Conti trova da ridire sulla gestione dei fondi. Il futuro è incerto.
L’elenco di piccoli e grandi fallimenti legati al marketing dei grandi eventi, alla supposta valorizzazione delle città attraverso manifestazioni culturali e sportive è virtualmente infinito, ma nulla sembra scalfire il rito celebrativo della competizione, della vittoria, del bagno mediatico. Neppure quando, come per le Olimpiadi 2026 attribuite a Milano-Cortina, quasi tutti gli altri concorrenti si erano ritirati per disinteresse. La letteratura che documenta i dissesti economici, le conseguenze nefaste sul territorio, la mercificazione di sport e cultura prodotti da queste politiche è sempre più ricca (tra gli ultimi La bolla Olimpica di Silvio La Corte, Mimesis, 2020), eppure i nostri amministratori la ignorano.
Il paradigma che subordina l’idea stessa di cultura al turismo, al successo commerciale, alla redditività economica e al consenso che è in grado di portare a chi governa ha un alfiere convinto nell’attuale ministro Franceschini, che non a caso presiede un ministero, il Mibact, che prima era dedicato ai beni culturali e ambientali, e solo dal 2013 affianca invece le competenze di turismo e cultura. Nel 2014, anno in cui per la prima volta ricoprì la carica con il governo Renzi, Franceschini ha istituito questa specie di festivalone ambulante che è la Capitale italiana della cultura: un format che mima in piccola scala quello della Capitale europea della cultura, e cioè soldi in grandissima parte pubblici assegnati una tantum a un luogo “minore”, secondario, allo scopo di “inserirlo sulla mappa” del turismo.
La funzione della cultura in queste manifestazioni è doppiamente svilita: in primo luogo perché sanciscono la preminenza dello straordinario sull’ordinario, e poi perché serve a fornire una cornice “nobile” e un alibi alla privatizzazione e alla turistificazione più greve. Da un lato viene privilegiato il finanziamento di eventi e progetti temporanei rispetto alla manutenzione dei siti e dei musei, all’assunzione di personale qualificato nelle istituzioni pubbliche in grado di fare ricerca e di produrre una cultura forte, reale, internazionalmente rilevante. I finanziamenti al sistema degli eventi vanno infatti messi in relazione ai tagli e al depotenziamento delle soprintendenze, dei funzionari e dei dipendenti pubblici, dei fondi per il funzionamento e la tutela del patrimonio “minore”, quello meno “attrattivo”, della ricerca. Quel milione all’anno assegnato a un posto depresso come un regalo eccezionale lo paghiamo con la sparizione di posti di lavoro qualificati e con l’assenza – anzi, la demolizione – di politiche strutturali sul patrimonio culturale diffuso.
Ma la cosa più triste è che il mondo della cultura, compreso il popolo dei working poor che ha ormai introiettato la propria condizione precaria, si è ridotto ad assecondare la logica di questo sistema, contribuendo di buona lena ad alimentare le narrazioni fasulle della valorizzazione equilibrata, del turismo di qualità con toni pittoreschi e nostalgici, nella speranza di rimediare qualche spicciolo.
Solo negli ultimi anni sono nate in Italia reti di attivisti contro gli effetti della turistificazione e la distruzione del lavoro culturale, come Emergenza cultura, il collettivo Mi riconosci? e la rete SET (Sud Europa di fronte alla Turistificazione) che, nel suo nucleo napoletano, ha espresso una posizione critica sulla fresca vittoria di Procida 2022 capitale della cultura, in quasi totale isolamento rispetto all’accoglienza trionfalistica tributata alla designazione. Un trionfo dovuto anche all’opera di persuasione esercitata dall’ampia coalizione che ha sostenuto la candidatura, comprendente enti locali, università campane, realtà imprenditoriali e numerose istituzioni ed entità associative culturali e civiche.
D’altro canto, il progetto “La cultura non isola” con il quale Procida ha ottenuto la designazione di Capitale italiana della cultura 2022 sembra essere stato studiato apposta per allontanare ogni critica e convincere un’opinione pubblica sempre più esigente che il progetto è proteso alla ricerca di un turismo “lento” e “sostenibile” per la piccola isola flegrea. Tuttavia, già le prime dichiarazioni rilasciate dagli amministratori locali lasciano presagire ben altro. In soli due giorni il sindaco di Procida, Dino Ambrosino, ha scoperto le carte confidando al principale quotidiano napoletano che l’obiettivo è di superare l’incremento di turisti fatto registrare da precedenti capitali italiane della cultura come Pistoia (2017) e Palermo (2018), dove si era attestato intorno al dieci per cento (“Procida capitale, la carica dei centomila in più”, Il Mattino,20 gennaio 2021). A suo dire, neppure il venti per cento sarebbe un obiettivo soddisfacente per Procida. L’isola deve aspirare a incrementare il numero di turisti di almeno il trenta per cento, facendo balzare la cifra complessiva di presenze tra sbarchi e diportisti dai trecentomila del 2019 alle quattrocentomila presenze annue. Nello stesso articolo, l’assessore al turismo di Procida si spinge oltre, prevedendo un’impennata di presenze che porterebbe gli arrivi fino al mezzo milione di turisti l’anno. Anche il rappresentante locale di Federalberghi si unisce al coro e dichiara: “Non vediamo l’ora che si sviluppi un aumento del turismo”.
La fede incrollabile nelle presunte virtù della crescita turistica rischia ormai di diventare una prerogativa tutta italiana. A livello internazionale da qualche anno si è fatta avanti nelle amministrazioni la consapevolezza di dover tenere sotto controllo i flussi di visitatori, e con metodi ben diversi dalle misure sul decoro e gli accessi a numero chiuso. Dando prova di lungimiranza, nel 2019 l’amministrazione locale di Amsterdam ha annunciato di voler porre fine a ogni iniziativa di promozione turistica della città. Amsterdam nel 2017 era arrivata a contare diciotto milioni di turisti. Tenendo conto che la sua popolazione residente è di ottocentomila abitanti, ciò significa che ad Amsterdam si contano circa venti turisti per ciascun abitante (Procida secondo i dati del 2019 ne aveva di più, trenta turisti per ogni abitante). Non è stata solo Amsterdam a porre volontariamente un freno alla politica di marketing territoriale orientato al turismo, in quello che appare come un gesto disperato ma dovuto, se si ha minimamente a cuore la preservazione del tessuto sociale e storico di un luogo. La stessa linea è stata adottata da Praga e Berlino, tra le altre.
Perché parliamo di Amsterdam e di altre grandi città europee a proposito di Procida? Perché pur essendo un’isola di piccole dimensioni e con una modesta base demografica di circa diecimila residenti, dal punto di vista geografico Procida non è un territorio remoto, ma è parte integrante del sistema metropolitano (una conurbazione di circa tre milioni di abitanti) che si sviluppa intorno a Napoli. È proprio grazie all’effetto di spinta ricevuto dal successo internazionale di Napoli come destinazione turistica a partire dal 2014-15 che Procida e le altre isole dell’arcipelago napoletano hanno conosciuto un fenomeno di iper-crescita turistica nella seconda metà degli anni 2010.
Nell’agosto del 2017 lo stesso sindaco di Procida sottolineava una “stagione turistica da record” con aumenti degli sbarchi dai traghetti del cinquantasette per cento nell’arco di soli due anni. L’esplosione della pandemia ha imposto un arresto alla crescita del turismo, nelle isole come ovunque nel mondo, ma già il flusso registratosi all’indomani del lockdown della scorsa primavera lascia presagire una ripresa tumultuosa del fenomeno: “Assalto dei turisti a Ischia e Procida, oltre trentamila nell’ultimo fine settimana”, si leggeva in rete nel luglio del 2020.
A ben vedere, l’avvento del turismo di massa non implica il fatto che il turismo diventi più “democratico”, alla portata di tutti. In condizioni normali, il turismo ha l’effetto di aumentare i prezzi delle case e dei beni di prima necessità nelle destinazioni turistiche, a danno dei residenti ma anche dei visitatori meno abbienti. Nelle località di ridotte dimensioni – un’isola come Procida, un piccolo borgo storico, ecc. – l’incremento esponenziale del turismo può giungere a livelli che oltrepassano la soglia critica di “capacità di carico” ambientale, imponendo misure eccezionali di confinazione dello spazio e selezione degli arrivi: tasse di ingresso, servizi di trasporto collocati in fasce orarie tali da scoraggiare i visitatori giornalieri, fino ad accessi riservati solo a chi dimostri di avere una prenotazione alberghiera.
In un’intervista recente, commentando la designazione di Procida, l’assessore al turismo della Regione Campania ha auspicato – in perfetta sintonia con il piglio autoritario dell’amministrazione De Luca – il passaggio da un “turismo dell’ammuina” (il disordinato boom turistico degli anni scorsi) a un “turismo della disciplina” di cui Procida dovrebbe diventare il modello. Per la sua prossimità alla terraferma e i suoi frequenti e tutto sommato economici collegamenti con il porto di Pozzuoli, Procida non è soltanto meta di villeggiatura per la classe media e i ceti benestanti, ma anche luogo prediletto da fruitori locali che possono permettersi solo un’andata e ritorno in giornata per una gita al mare. Nonostante l’ovattata retorica sul turismo “sostenibile” a vantaggio della comunità locale, il “modello Procida 2022” non contempla la storica fruizione autoctona dell’isola. Che cosa ne sarà di questo andirivieni spontaneo di fruitori quando il modello Procida si sarà realizzato e il “turismo della disciplina” avrà preso il sopravvento? Procida capitale della cultura continuerà a essere uno spazio aperto di attraversamento come è stata fino a oggi, o diventerà un’enclave turistica, affollata e al tempo stesso elitaria?
Questo articolo è stato pubblicato su Napoli Monitor il 9 febbraio 2021