In assenza di interventi redistributivi incisivi questa crisi amplierà profondamente le diseguaglianze preesistenti. È necessario e urgente tassare i grandi patrimoni ma anche immaginare una riforma fiscale complessiva
Intorno alle ragioni dello scetticismo o dell’opposizione – per lo più di carattere ideologico – rispetto all’idea di introdurre una patrimoniale è stato discusso ampiamente. Tuttavia, nei mesi scorsi abbiamo assistito anche a una convergenza di opinioni piuttosto insolita su temi dirimenti per le politiche economiche degli ultimi anni e per la direzione che prenderanno le politiche di risposta alla crisi attuale. Immaginiamo, per assurdo, cosa potrebbe pensare una persona che abbia perso i sensi a gennaio dello scorso anno e li abbia riacquisiti in questi mesi a sentir parlare certi alfieri dell’«austerità espansiva» di stimolo alla spesa pubblica o di riforma fiscale e patrimoniale come condizione per la fiducia al Governo. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire. Tuttavia, è bene chiarire il percorso che ci ha portati sin qui, per mantenere una bussola sugli orizzonti a venire.
In termini generali, sebbene la riflessione sul ruolo dello Stato nella gestione della sfera economica fosse fondamentale ben prima dell’arrivo della pandemia – pur restando appannaggio esclusivo di una certa cultura accademica e politica – oggi rappresenta un tema ineludibile, e potenzialmente trasversale, per rispondere a una crisi economica e sociale per certi versi inedita e di profondità devastante. L’emergenza pandemica ha ribadito a gran voce la non-sostituibilità e la centralità dello Stato per il funzionamento di economie complesse e per la gestione di settori fondamentali quali la sanità e la ricerca, ma anche e soprattutto per redistribuire, attraverso le imposte, il peso della crisi e l’impatto iniquo che sta avendo tra individui e classi sociali.
Due punti risultano essenziali per inserire il problema della riforma fiscale all’interno del contesto di crisi attuale. Il primo riguarda gli effetti persistenti delle crisi economiche precedenti allo shock pandemico, con particolare riferimento all’economia italiana, e il ruolo delle trasformazioni in atto che hanno caratterizzato la fase più recente di sviluppo delle economie capitalistiche a livello globale. Come sappiamo, la pandemia sta colpendo duramente un tessuto produttivo, economico e sociale già dilaniato dalle crisi precedenti e dalle persistenti disuguaglianze relative alla distribuzione dei redditi e della ricchezza, alle condizioni lavorative e salariali, alle condizioni abitative e alle divergenze tra diverse aree geografiche del Paese.
A questo si aggiungono gli effetti dei processi di trasformazione in corso a livello globale. Tra questi, i rischi e i cambiamenti legati all’automazione dei processi produttivi, alla progressiva frammentazione delle catene del valore su scala globale e alla diffusione delle piattaforme digitali e del lavoro on-the-demand hanno comportato un aumento della fragilità e dei livelli di precarietà sul mercato del lavoro e un conseguente deterioramento della distribuzione del reddito a svantaggio del fattore lavoro. Ossia la riduzione della quota di valore aggiunto che viene distribuita ai lavoratori sotto forma di salari, registrata negli ultimi decenni in molte delle economie a capitalismo avanzato e non solo. Dunque, in assenza di interventi redistributivi incisivi questa crisi, cha ha colpito in modo profondamente asimmetrico gli individui e le classi sociali a causa di condizioni di partenza fortemente eterogenee, rischia di divaricare e acuire ulteriormente le disuguaglianze preesistenti e i processi in corso.
Il secondo punto riguarda il ruolo che hanno avuto le politiche di «austerità espansiva», adottate in risposta alla crisi del 2010-2011, sul processo di inesorabile indebolimento del sistema economico e sociale colpito dalla pandemia. Tra queste, c’è il grave depotenziamento della sanità, della ricerca e dell’istruzione, frutto di anni di tagli lineari alla spesa pubblica, un sistema fiscale scarsamente redistributivo e insufficientemente progressivo a livello nazionale, e caratterizzato da una concorrenza fiscale esasperata tra Paesi membri a livello europeo, e riforme «strutturali» che hanno comportato una progressiva flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro.
Come sappiamo, questo tipo di politiche – orientato da un impianto di finanza pubblica di stampo ordoliberista e guidato dal faro del pareggio di bilancio – ha contribuito a esacerbare le fragilità strutturali su cui oggi l’emergenza sanitaria, economica e sociale è andata a innestarsi. Quest’ennesima crisi rischia dunque di non fare sconti all’incapacità di pensare e attuare soluzioni coordinate e cooperative, a livello internazionale, europeo e nazionale, alla luce del persistente divario tra regioni del nord e sud Italia e delle difficoltà manifestate nella gestione pandemica.
Da questo punto di vista, una riforma del sistema fiscale in chiave redistributiva rappresenta un primo passo decisivo verso il ribilanciamento del carico fiscale tra le classi e tra gli individui, per evitare che siano le fasce più fragili della società a pagare il prezzo della crisi negli anni a venire. Per fare ciò, occorre innanzitutto invertire alcune tendenze che hanno caratterizzato le politiche fiscali degli ultimi anni in Italia.
Primo fra tutti, il progressivo spostamento del carico fiscale dai patrimoni ai redditi, e dai redditi di impresa ai redditi da lavoro – soprattutto da lavoro dipendente – con un conseguente indebolimento del principio della capacità contributiva previsto dall’art. 53 della Costituzione. I dati Ocse ci dicono, infatti, che in media, tra il 1990 e il 2018, la tassazione diretta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) e la tassazione indiretta – principalmente Iva e accise – hanno rappresentato, rispettivamente, il 26% e il 27% delle entrate fiscali totali, mentre la tassazione sul reddito di impresa ha rappresentato solo il 7% e quella sulla proprietà solo il 5%. Nel confronto internazionale, la tassazione dei redditi delle persone fisiche in Italia, tra il 1998 e il 2018, si trova al di sopra della media Ocse mentre, nello stesso periodo, la tassazione dei redditi di impresa si trova al sotto e con un trend decrescente.
Inoltre, dalla riforma tributaria del ’73 il numero di scaglioni Irpef e delle relative aliquote è stato ridotto drasticamente – da 32 a 5 – in nome di un presunto principio di semplificazione. Nei fatti, il taglio del numero di scaglioni ha comportato un grave depotenziamento della progressività dell’imposizione fiscale, ossia il secondo pilastro dell’art.53 e principio ispiratore del sistema impositivo delineato dalla riforma Cosciani-Visentini del 1971. A questo si aggiunge il crescente ricorso a regimi di tassazione separata – «piatta», con aliquote fisse – come la tassazione prevista sulle rendite finanziarie al 26% o sui «premi di produttività» al 20% – che ha frammentato la base imponibile Irpef impedendo, di nuovo, la piena realizzazione del principio progressività.
Infine, sul lato della domanda negli ultimi anni è stata favorita la «logica dei bonus» come unica misura redistributiva e di stimolo ai consumi, mentre le misure sul lato dell’offerta hanno riguardato prevalentemente la «competitività» delle imprese e la loro trasformazione smart in «imprese 4.0» – finora un topos di matrice tedesca più che un processo realmente diffuso nel tessuto produttivo italiano – attraverso la riduzione del costo del lavoroe gli incentivi fiscali per lo stimolo degli investimenti in nuove tecnologie digitali.
Da diversi anni la Campagna Sbilanciamoci! ha proposto, nelle sue Controfinanziarie, un insieme di misure volte a incidere, da un lato, sullo squilibrio impositivo tra redditi da lavoro e ricchezza accumulata, tramite interventi che consentano la piena applicazione del principio di capacità contributiva e, dall’altro, sulle iniquità distributive a livello funzionale, ossia tra profitti e salari e, al loro interno, a livello personale tra le diverse classi di reddito, attraverso interventi che favoriscano l’applicazione e il potenziamento del principio di progressività.
L’introduzione di unatassazione patrimonialedi carattere progressivo è diventata un’urgenza impellente, soprattutto per far fronte alla crisi economica e sociale attuale. Al di là delle discussioni tecniche o di carattere politico – certamente non irrilevanti – sul posizionamento dell’asticella e sulle eventuali franchigie, è necessario andare a colpire i grandi patrimoni attraverso una tassazione progressiva che tenga conto sia della dimensione che della tipologia di patrimonio (reale e finanziario). Questo consentirebbe di aggredire l’elevata concentrazione della ricchezza netta delle famiglie, anche alla luce del cambiamento nella composizione che ha visto negli ultimi vent’anni la ricchezza finanziaria arrivare a rappresentare quasi la metà della ricchezza netta totale, in un Paese come l’Italia dove la ricchezza immobiliare ha rappresentato l’asset privilegiato sin dal dopoguerra. Chiaramente, a una misura di questo tipo è necessario affiancare un intervento di riforma del catasto – non più rinviabile – che consenta di evitare distorsioni nell’applicazione dell’imposta sui patrimoni immobiliari legate alla rendita e al valore catastale degli immobili. Un ulteriore intervento sul lato patrimoniale, riguarda la necessità di potenziare l’imposta di successione, ad esempio abbassando la franchigia (attualmente pari a un milione di euro), e introducendo un’aliquota progressiva rispetto alla ricchezza ereditata,in modo da incidere su quei meccanismi di trasmissione della ricchezza che negli ultimi decenni hanno amplificato le disuguaglianze intergenerazionali in un Paese cronicamente caratterizzato da una scarsa mobilità sociale.
Per quanto riguarda l’imposizione sui redditi, è necessaria una rimodulazione della struttura delle aliquote Irpef esistenti, aumentando anche il numero degli scaglioni e delle relative aliquote sulle fasce di reddito più alte, in modo da garantire e potenziare la progressività dell’imposta, soprattutto a vantaggio delle fasce di reddito più deboli. Una proposta recente riguarda, in alternativa, l’introduzione di una tassazione dei redditi con aliquota «continua», sul modello tedesco. Si tratterebbe di calcolare e applicare al reddito del singolo contribuente un’aliquota ad hoc – senza superare l’attuale aliquota massima al 43% – eliminando le detrazioni per tipologia di reddito, in modo da evitare possibili distorsioni e consentire un’applicazione più raffinata del principio di progressività. Contestualmente, occorre operare una ricomposizione della base imponibile Irpef, attraverso l’eliminazione delle forme di tassazione separata, in modo da ricondurre tutte le fonti di reddito al principio di progressività.
Un punto dirimente per gli interventi fiscali del post-pandemia riguarda, inoltre, la necessità di orientare il sistema economico verso un minor impatto ambientale, innanzitutto eliminando i sussidi pubblici alle attività dannose per l’ambiente e ragionando su forme di tassazione greenal fine di favorire processi produttivi e dinamiche di consumo più sostenibili.
Infine, le trasformazioni relative alla diffusione dell’economia digitale, e il processo di accelerazione innescato dallo shock pandemico riguardo all’utilizzo delle piattaforme e ai volumi d’affari conseguiti dai colossi del settore – grazie alla fornitura di servizi digitali su piattaforma resi di fatto indispensabili dalle misure di distanziamento sociale – hanno imposto la necessità di potenziare la «web tax» andando a tassare direttamente le transazioni digitali. Chiaramente, a quest’ultimo punto si lega la necessità di aggredire in modo incisivo il problema endemico legato ai fenomeni di evasione ed elusione fiscale, sia a livello nazionale sia per una necessaria armonizzazione fiscale a livello comunitario al fine di contrastare il crescente ricorso a strategie di concorrenza fiscale al ribasso tra Paesi membri. A livello nazionale, le perdite dovute all’evasione sono state stimate in una media di 107 miliardi di euro per il periodo 2015-17, di cui 36 miliardi attribuibili all’evasione dell’Iva e 32,8 miliardi all’evasione dell’Irpef sui redditi da lavoro autonomo e di impresa. A livello comunitario, le perdite per i Paesi membri dovute all’evasione di gruppi multinazionali in paradisi fiscali interni – quali Uk, Lussemburgo, Olanda e Svizzera – ammontano a circa 27,6 miliardi di dollari all’anno.
L’entità e le dimensioni della crisi pandemica richiederanno di inserire questi interventi all’interno di un sistema coerente di politiche economiche di medio-lungo periodo, rivolto a potenziare la spesa pubblica in sanità, istruzione e welfare – superando la logica perversa del «rigorismo» nei conti pubblici – e che rimetta al centro la politica industriale, come strumento di rilancio del sistema produttivo, e relazioni industriali e politiche sul mercato lavoro che garantiscano una maggiore tutela e stabilità, sia contrattuale che salariale. Questo consentirebbe, a monte, di intervenire con misure predistributive, come ad esempio l’istituzione di un salario minimo, e con forme di ribilanciamento dei meccanismi distributivi del reddito a livello funzionale – ossia tra salari e profitti – e a valle, per redistribuire e contrastare le disuguaglianze attraverso una riforma fiscale ormai improrogabile.
Cui prodest? Il punto è ineludibile. Il processo di redistribuzione del carico fiscale, e dunque anche del peso economico e sociale della crisi, non riguarda solo la fattibilità delle misure in termini di risorse, ma comporta uno scontro tra interessi distinti, tra interessi di classe. Proprio per questo rischia di non essere sufficiente il parziale riconoscimento della miopia delle politiche economiche degli ultimi anni – manifestato da chi quelle politiche le ha suggerite, caldeggiate e applicate e che oggi converge invece su proposte di buon senso in risposta alla crisi pandemica – a prescindere da posizioni teoriche pregresse. Nella fase attuale, è necessario essere chiari sugli obiettivi di una riforma fiscale redistributiva perché è l’idea di società che ne discende a consentire una continuità di intenti. Ossia la necessità di incidere sui rapporti di forza consolidati e sulle inaccettabili disuguaglianze che caratterizzano il tessuto economico e sociale in cui viviamo.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 28 gennaio 2021