Sono iniziate – finalmente – le vaccinazioni contro il virus Sars-Cov 2, che ha causato la attuale pandemia da Covid 19.
Subito è nato un dibattito, attualmente solo in fase embrionale, sulla possibilità dei datori di lavoro di licenziare i propri dipendenti che non si siano vaccinati, in quanto in sostanza ritenuti un (più o meno potenziale) pericolo per l’azienda ed i suoi dipendenti.
Al momento si registrano già alcune autorevoli prese di posizione.
In estrema sintesi, e senza andar troppo per il sottile, da una parte l’ex pubblico ministero di Torino Raffaele Guariniello (ora forse in pensione) e Pietro Ichino (ex parlamentare, avvocato e credo anche professore di diritto del lavoro) sono per il sì; dall’altra parte Franco Scarpelli, avvocato e professore di diritto del lavoro alla Università Milano Bicocca è per il no.
Quello su cui tutti sono d’accordo, compreso il sottoscritto, è che una legge che imponesse la obbligatorietà del vaccino risolverebbe tutti i problemi (ed io personalmente ritengo che la legge andrebbe fatta).
Fino a che però la legge non c’è vale quanto prevede l’art 32 della Costituzione: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Dunque che fare ?
Ichino ritiene che l’obbligo, pena il licenziamento, provenga (seppure indirettamente) dall’art. 2087 del codice civile “ L’imprenditore e’ tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarita’ del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrita’ fisica e la personalita’ morale dei prestatori di lavoro.”
Quindi il datore di lavoro per rispettare l’obbligo di tutelare i propri dipendenti dovrebbe imporre il vaccino a tutti, e chi non lo fa dovrebbe di conseguenza essere licenziato.
Scarpelli invece sostiene che questa tesi non sia fondata.
In primo luogo è possibile che un lavoratore non possa sottoporsi al vaccino per ragioni mediche (ad esempio per una intolleranza allergica).
In seconda istanza non è detto che qualunque mansione svolta in azienda porti il lavoratore ad essere in contatto potenzialmente pericoloso con altre persone: vi sono lavori che invece escludono un contatto a rischio, per cui in tali ipotesi la vaccinazione potrebbe essere superflua.
Inoltre: da oltre 10 mesi le associazioni datoriali e dei lavoratori hanno adottato protocolli che mirano a mettere in sicurezza le aziende, per cui è ben possibile che un luogo di lavoro si di per sé sicuro, anche a prescindere dalla vaccinazione dei lavoratori che vi sono impiegati.
Come spiega in modo chiaro e sintetico il legale milanese in un recente intervento su Linkedin “ il vaccino può certamente essere una misura consigliata per ridurre il rischio dei contagi nel luogo di lavoro, ma non è l’unica. L’art. 20 del TU Sicurezza impone anche al lavoratore, responsabilizzandolo, un obbligo di cooperazione all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro: ma neanche tale norma può trasformare una possibilità in un obbligo. Dunque il tema è se il vaccino, pur non obbligatorio, debba considerarsi una misura di sicurezza indispensabile tale da rendere il lavoratore che si opponga inidoneo all’ambiente di lavoro, e perciò licenziabile. Così espressa (e così sembra intenderla la posizione più articolata di Guariniello), la tesi non convince. […] è fortemente raccomandabile una campagna che sostenga l’adesione convinta dei lavoratori che per primi sono interessati alla salute propria e dei colleghi. Ove il singolo non accetti il vaccino, a maggior ragione se adduca motivazioni relative alla propria salute, il datore di lavoro dovrebbe dimostrare che, in quella determinata situazione e per quelle determinate mansioni, il vaccino di ogni dipendente configura una misura indispensabile per la tutela della salute sua, dei colleghi ed eventualmente del pubblico e degli utenti, e che non vi sono misure alternative adeguate e ragionevolmente sufficienti, come quelle fino ad oggi adottate ed altre progressivamente attuabili (dispositivi di sicurezza, metodi di disinfezione, smart-working, ecc.), le quali consentano di mantenere il dipendente su quelle mansioni. In questo caso, poi, andrebbe valutata la collocabilità del dipendente su altri incarichi con minore rischio di contagio passivo e attivo (ad esempio non a diretto contatto col pubblico), o in forma di lavoro a distanza. Solo alla fine di questo iter si potrebbe forse considerare inidoneo il lavoratore: anche qui, tuttavia, si porrebbe il quesito se si tratta di una inidoneità definitiva o temporanea, che è tema collegato all’andamento e alle caratteristiche della pandemia (essendo evidente che più saremo prossimi alla c.d. immunità di gregge e meno facilmente potrà affermarsi la natura indispensabile della misura vaccinale, se sarà ancora non obbligatoria). In tal caso, il lavoratore potrebbe dunque e legittimamente invocare una misura temporanea di sospensione del rapporto di lavoro, quali le aspettative previste dalla generalità dei contratti collettivi: e il datore dovrebbe a mio parere concederla, in una prospettiva di correttezza e buona fede, salvo che ne dimostri l’incompatibilità organizzativa.”
Dunque come si vede il dibattito è ufficialmente aperto (mentre scrivo vedo che sui social altri giudici ed avvocati si confrontano sul tema), e già sono molti i temi in campo; ne sorgerà di certo un importante confronto giuridico (con inevitabili riflessi sociali e politici), non meno di quanto è già successo per l’argomento del divieto di licenziamenti, sulla disciplina della cassa integrazione in deroga, sullo smart working, sul lavoro agile, e su tanti altri temi del diritto del lavoro per forza di cose sempre all’ordine del giorno a causa degli sconvolgimenti economici e sociali che l’anno 2020 ci ha riservato.