Il Perù vive giorni agitati e incerti. La deposizione del presidente Vizcarra ha consegnato il governo nelle mani di settori ancor più reazionari. Ma la risposta popolare nelle strade non si è fatta attendere
La prima cosa che salta agli occhi nella crisi deflagrata in Perù è la questione del cambio di mano nella Presidenza – con un procedimento messo in discussione per forma e sostanza – e le conseguenze più immediate che ne derivano per l’equilibrio del potere nel paese. La mozione per destituire il Presidente Vizcarra è stata approvata con un’ampia maggioranza, ossia col voto di 105 deputati, quando la soglia minima di sbarramento è 86. Il meccanismo utilizzato solleva forti dibattiti sul piano costituzionale, perché è stato utilizzato il principio della «destituzione per incapacità morale», un principio che non è pienamente giustificato dalla Costituzione. Non è la prima volta che si utilizza questa vaga formula. In realtà si è fatto ricorso già due volte a questo principio proprio contro Vizcarra, un attore politico debole, privo di alleanze e di un partito, che si affidava alla propria popolarità, sempre più minata da accuse di corruzione a cui non ha saputo rispondere con chiarezza e persuasione.
In ogni caso l’uscita di scena di Vizcarra ha implicato l’immediata occupazione del governo del Perù da forze eminentemente retrograde e conservatrici. Di sicuro la rimozione di Vizcarra e il passaggio di consegne a Marino [che ha a sua volta rassegnato le dimissioni, sostituito in queste ore da Francisco Sagasti, ndt] segna il passaggio di consegne da una destra a un’altra. Tuttavia bisogna evidenziare che la fazione politica che sta prendendo le redini del potere è formata da quadri che finora non erano rilevanti nella politica istituzionale, persone provenienti da settori ultraconservatori, contrari ai più elementari progressi nel campo dei diritti del lavoro e dell’agenda politica delle donne, rappresentati nel gabinetto ministeriale da nemici dei diritti umani pronti ad assumere pose maccartiste. Si tratta di uno scenario da tenere d’occhio con estrema cautela.
Una crisi che si sovrappone a strati
In questo momento in Perù si sovrappongono molteplici crisi. In primo luogo c’è una crisi della politica istituzionale, che si riflette nello scontro tra diversi attori politici, con interessi evidenti in gioco, che si contendono il potere dello stato. È quel che è successo dall’elezione di Kuczynski nel 2016 fino all’arrivo al potere di Vizcarra. Tuttavia c’è un’altra crisi più profonda, di largo respiro, che ha a che fare con le dinamiche della democrazia peruviana. In teoria, dopo la dittatura di Fujiimori, in Perù siamo tornati in un periodo di democrazia. Una democrazia che doveva impegnarsi a ricostruire i vincoli tra società e politica e le relazioni di lavoro, che doveva riaffermare il ruolo dello stato e dell’imprenditoria e ricucire le ferite del conflitto armato, oltre a impegnarsi su tutta una serie di situazioni che si erano deteriorate nel corso della dittatura. Ma né i governi degli anni di transizione né quelli successivi si sono impegnati in questo senso. Quello a cui oggi assistiamo è la messa in discussione della democrazia costruita a partire dalla transizione post-fujiimorista.
Questa democrazia postfujimorista è un progetto che non è mai riuscito a realizzarsi compiutamente. Non solo perché non è riuscita a generare maggior benessere e stabilità per le persone comuni, ma anche perché non è riuscita neanche a consolidare un sistema politico affidabile. Ad esempio, in Perù non abbiamo un sistema consolidato di partiti, non esiste un sistema di attori politici su cui la gente possa proiettare interessi e richieste, o che possa individuare come propri referenti. Ci sono personaggi, questo sì, che all’improvviso acquistano una certa popolarità, o persone che finiscono al governo per logiche come quella del «male minore», vale a dire che si vota per evitare di affidare il governo a un determinato candidato, invece di votare un candidato che rappresenti i propri interessi.
Quel che è in crisi, insomma, è molto più dell’istituzione della Presidenza. Non si tratta solo di una profonda decadenza della figura del capo del governo, che è già abbastanza grave. C’è un’insofferenza più profonda. C’è una messa in discussione complessiva della base stessa della democrazia peruviana, dove i risultati delle urne servono a poco e la rappresentanza popolare è cooptata da chi ha il capitale e controlla il mercato delle registrazioni elettorali, con la conseguenza che il Congresso diventa una mera ferramenta di interessi e vendette personali. La prima incognita da risolvere è quella di articolare una risposta univoca, in un contesto che sembra imprevedibile.
La goccia che fa traboccare il vaso
A tutto questo si aggiungono le conseguenze della pandemia. Il Perù è uno dei paesi più colpiti al mondo in termini di mortalità e di impatto economico, dato che il suo stato è tra quelli che hanno mostrato meno capacità di risposta sia sul piano sanitario che sociale. Gli effetti più palpabili della pandemia – morte, fame, disoccupazione, collasso del sistema sanitario – hanno spinto sempre più settori della cittadinanza a rimettere in discussione cose che fino a poco tempo fa erano considerate verità. Tra queste, l’idea che nell’economia o nei servizi pubblici l’ideale era che lo stato assumesse un ruolo secondario e che fosse il mercato a gestire il sistema. O che il capitale privato, grande o piccolo, dovesse gestire le condizioni del lavoro, della previdenza e i termini della redistribuzione della ricchezza, senza «interventismo» o «populismo», ossia senza la mediazione del pubblico. Queste premesse erano continuamente sostenute e rinforzate dai mezzi di comunicazione e dal coro della classe politica, finché la pandemia non ne ha messo in evidenza tutti i limiti, aprendo la strada a sospetti di falsità agli occhi di chi è più esposto alla crisi: i pazienti del sistema pubblico e privato, i lavoratori dei settori formali, licenziati col pretesto della «suspensión perfecta» [una disposizione che permette di licenziare i lavoratori nell’ipotetico rischio di fallimento dell’azienda, ndt], i lavoratori dell’economia informale, abbandonati alla loro sorte. Da questo punto di vista, il conflitto attorno alla gestione del potere delle ultime settimane ha rappresentato solo la goccia che fa traboccare il vaso.
Che cosa pensa la gente? La maggioranza fa sforzi enormi per sopravvivere in una situazione economica estremamente precaria, senza possibilità di esprimere la propria sofferenza e con bassi standard di protezione dal virus, considerando le tipologie di lavoro e la situazione del trasporto pubblico nel paese. Nel frattempo la classe politica, bloccata in dispute interminabili, si contende il potere senza offrire vie di uscita davanti a quel che non si può nascondere: un’economia a rotoli e un sistema sanitario che non offre alcuna garanzia di vita nel caso di una seconda ondata pandemica o di una nuova epidemia.
L’opinione pubblica sta rifiutando di sostenere la decisione del Congresso non solo perché questa sembra una manovra illegittima, ma anche perché appare come una manifestazione di indolenza in un momento critico. Oltre il consenso istituzionale, si sentono sempre più voci critiche che non si limitano a denunciare la rottura dell’ordine costituzionale. La questione di fondo è se vogliamo limitarci a tornare alla democrazia così come la conosciamo. In tal senso, la recente esperienza del Cile ci fornisce lezioni importanti. Il cammino di un’Assemblea Costituente appare come l’orizzonte in cui discutere questioni fondamentali: verso quali settori lo stato deve porsi a servizio, ad esempio, o in che forma deve far fronte alle domande della cittadinanza.
Per chi, come noi, aspira a cambiamenti profondi, la prima questione da tenere in conto è quella di non sottostimare l’importanza della strada. È certo che nelle mobilitazioni ancora non si vede una presenza maggioritaria dei lavoratori organizzati o dei lavoratori disoccupati, privi di lavoro e salario. A manifestare sono gruppi di giovani di classe media, con molti universitari, soprattutto di Lima. Ma non per questo bisogna sottostimare l’indignazione, perché quel che si percepisce, innanzitutto, è un risveglio politico rispetto alla crisi che attraversa il paese. Molta gente, al contrario di quel che faceva prima, ha cominciato a interrogarsi sul ruolo dello stato e sul funzionamento dell’economia peruviana (che ci veniva venduta come un «miracolo» dell’economia neoliberista in America Latina). Poche settimane fa sono stati resi noti i risultati di un’inchiesta che indagava quali aspetti dell’attuale Costituzione (elaborata all’inizio della dittatura di Fujimori) la gente vorrebbe modificare. La maggior parte delle risposte indicavano proprio quegli aspetti che hanno a che fare con la partecipazione dello stato nelle attività economiche.
Dobbiamo capire adesso quale filo tirare per avvolgere il rotolo: è un lavoro pedagogico necessario a legare l’occasionale indignazione delle persone con processi di dimensioni più vaste. Per le sinistre del nostro paese, questo lavoro rappresenta la più grande opportunità e la principale sfida dei nostri giorni.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 17 novembre 2020