Il 4 agosto 2020 la Corte suprema di giustizia colombiana ha ordinato gli arresti domiciliari preventivi per l’ex presidente della Repubblica Álvaro Uribe Vélez, imputato per i suoi legami con il paramilitarismo e indagato per corruzione di testimoni e frode.
Una notizia sorprendente in virtù della storica protezione politica di cui gode Uribe, del potere e del controllo ormai decennale che detiene sugli apparati statali ed economici e per quello che ha rappresentato e rappresenta per la società colombiana.
Qualche giorno dopo, il Consiglio nazionale elettorale colombiano ha aperto un fascicolo contro il presidente della Repubblica Ivan Duque – leader del Centro Democratico, il partito fondato proprio dal suo padrino politico Alvaro Velez Uribe – indagato insieme al direttore della sua campagna elettorale Luis Guillermo Echeverri, per presunto finanziamento illecito e relazioni con alcune figure di spicco del narcotraffico internazionale e dell’imprenditoria venezuelana. Un agosto caldo per l’élite al potere.
In Colombia non si era infatti mai assistito al tentativo, attraverso gli organismi dello Stato, di smascherare e mettere nero su bianco in termini legali i vincoli diretti della classe dirigente del paese con i gruppi paramilitari, con il narcotraffico e con gli interessi delle imprese transnazionali. «I crimini di Uribe sono ben noti e li conoscono tutti ma il sistema giudiziario non può giudicarlo serenamente – commenta Manuel Rozental, attivista di Pueblos en Camino – perché Uribe riesce a controllarlo con la forza, attraverso minacce, massacri, ostacolando le indagini e comprando i giudici».
Gli arresti domiciliari contro l’ex presidente e l’indagine contro l’attuale presidente della Repubblica hanno aperto spiragli di speranza nella società colombiana. «Uribe ormai da anni controlla il potere esecutivo e quello legislativo» continua Rozental, l’aumento della tensione e dei massacri è il prodotto di una reazione al tentativo di mettere in discussione «la struttura narcoparamilitare che Uribe personifica».
Il 10 ottobre, dopo poco più di 60 giorni di detenzione domiciliare nella sua tenuta di 1500 ettari di terra conosciuta come El Uberrimo, la giudice Clara Ximena Salcedo Duarte del Tribunale di Bogotà ha accolto la domanda della difesa, sostenuta dalla Fiscalía General de la Nación e dal Ministerio Público, di annullare le misure di detenzione domiciliare imposte a Uribe dalla Corte Suprema di Giustizia.
Secondo la giudice, infatti, tali misure possono essere adottate solo dopo un’udienza in cui si informa l’imputato di essere accusato di aver commesso un reato. Tale udienza non è stata ancora realizzata e nel frattempo la legge è cambiata, la giudice ha quindi ribadito la necessità di separare la fase delle indagini dalla fase della formulazione delle accuse.
La reazione del governo alla notizia è stata di giubilo. Per Die go Molano Aponte, direttore del Dipartimento della Presidenza della Repubblica «è un bel messaggio per il paese, per lui e per la sua famiglia». Ivan Cepeda, senatore e attivista per i diritti umani, denuncia «l’evidente parzialità del Fiscal Gabriel James» e sostiene che per questa ragione «non esiste nessuna garanzia per la tutela dei diritti delle vittime di questo processo». Dichiara inoltre che la sua strategia «è assolutamente chiara: cancellare le principali prove di presunta illegalità, cercare di evitare di arrivare alla fase dell’imputazione e meno ancora alla fase accusatoria» e che la sua figura si è convertita «nel guardiano dell’impunità dell’ex senatore Uribe».
Dagli Stati uniti Donald Trump ha subito fatto le sue «congratulazioni all’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, un eroe che ha ricevuto la Presidential Medal of Freedom, alleato della nostra patria nella lotta contro il CASTRO-CHAVISMO! Starò sempre accanto ai nostri amici colombiani!».
Nel frattempo nella Valle del Cauca è iniziata la Minga Indigena, la mobilitazione dei popoli originari che chiedono di negoziare direttamente con il presidente Duque per esigere che si rispettino i loro diritti costituzionali, gli accordi internazionali di salvaguardia dell’ambiente e le sentenze della Corte che impongono al governo di rispettare il diritto alla protesta pacifica. Le comunità indigene in Colombia sono infatti accerchiate dalla violenza dei vari gruppi armati, dalla repressione dello Stato e dalle imprese estrattive. Se Duque non accoglierà le loro richieste i popoli originari marceranno pacificamente fino alla capitale Bogotà.
Questo articolo è stato pubblicato su l’America Latina il 22 ottobre 2020