#Apruebo. Se vince il Cile che “approva” la democrazia

di Maurizio Matteuzzi /
23 Ottobre 2020 /

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Solo qualche giorno prima il presidente Sebastián Piñera, miliardario ex-pinochettista, era apparso in tv per dire che al contrario degli altri paesi della regione in preda alle convulsioni sociali, politiche, economiche, “ il Cile, è un’oasi”. Tempo un paio di settimane ritornò in tv per annunciare che “siamo in guerra, una guerra contro un nemico poderoso e implacabile”. Il nemico era il popolo cileno.

Proclamò lo stato di eccezione e il coprifuoco, diede mano libera agli odiatissimi “carabineros” per ristabilire l’ordine e dato che non ci riuscivano mandò nelle strade e nelle piazze i militari e i tank come durante la dittatura di Pinochet. “Carabineros” e “milicos” in questo anno ne hanno fatte di tutti i colori: decine di morti, centinaia di manifestanti permanentemente accecati dai pallini di gomma o asfissiati dai gas, migliaia di arresti indiscriminati, torture e stupri di donne. Ogni genere di barbarie, come ai bei tempi. Secondo gli ultimi dati diffusi dalla procura 5000 persone sono state processate finora con l’accusa di saccheggio, incendi, disordini pubblici, etc. a fronte di 75 agenti accusati di “violenza istituzionale” di cui 25 in detenzione preventiva e uno (uno) condannato, e a fronte di 8.800 denunce di abusi commessi dai corpi di sicurezza e 4700 cause aperte.

Ma non è bastata la violenza indiscriminata del governo per far ridiscendere l’inverno sulla “primavera cilena” né per vincere “la guerra”. Come non è bastata la pandemia che ha imperversato (mezzo milione di contagi e 13.635 morti finora) nonostante all’inizio Pinera abbia cercato di minimizzarne la portata alla moda di Trump e Bolsonaro. Oltretutto non sempre i virus vengono per nuocere. Anche in Cile il Covid-19 “ha arricchito i miliardari latino-americani” come ha segnalato un recente studio di Oxfam: da marzo a luglio i super-ricchi hanno aumentato il loro patrimonio del 27% mentre il PIL crollava (-7.9% su base annua), la povertà aumentava (+5.7% secondo le stime della CEPAL) e si allargava la forbice già scandalosa delle diseguaglianze, una delle molle più poderose della rivolta sociale (il Cile è il più diseguale fra i paesi dell’OCSE; con il peggior indice GINI, 46% ; e con 543 famiglie che detengono il 10.1% della ricchezza totale e il 26% del PIL in mano all’1%).

Né la violenza di Piñera né la pandemia del covid hanno potuto vincere la guerra che ogni venerdì ha spinto decine, centinaia di migliaia di cileni a radunarsi nella Plaza Italia, nel cuore di Santiago, uno dei luoghi simbolo delle lotte contro Pinochet, per rivendicare la fine del Cile pinochettista e l’avvento di un altro Cile.

Anche domenica 18 ottobre, un anno dopo l’inizio della rivolta, è stato così: in decine di migliaia si sono ritrovati a Plaza Italia ormai ribattezzata Plaza Dignidad (con l’abituale coda finale di incidenti che tanto piace al governo).

La strada è lunga ma il primo obiettivo è stato raggiunto e ormai a portata di mano: una nuova costituzione che cancelli l’obbrobrio della costituzione del 1980 imposta da Pinochet, che in 40 anni non è mai stata abrogata (guarda caso) ma solo “ritoccata” dai governi di destra ma anche di centro-sinistra.

Domenica 25 si vota per un referendum con due domande: volete o no una nuova costituzione? Volete che a redigerla sia una costituente formata da semplici cittadini eletti dal popolo o da un mix fra cittadini e parlamentari? La risposta alla prima domanda è scontata, alla seconda molto meno. Anche in Cile la rappresentanza è in crisi e i partiti politici, sinistra compresa, sono screditati per cui l’esito è incerto e anche rischioso. Se l’estrema destra dirà ovviamente no, l’establishment nel suo complesso non starà con le mani in mano e il pericolo che si fagociti il referendum o la successiva assemblea costituente è reale.

La strada è lunga e accidentata ma il Cile, dopo 30 anni, si è risvegliato. Una nuova costituzione. Che parli di dignità, di salute, istruzione, pensioni, beni comuni, dei Mapuche e degli altri 9 popoli originari (il 13% della popolazione) sempre bistrattati, delle donne in primissima linea di fuoco. Non più come ghiotte occasioni di privatizzazioni, opportunità di profitti, oggetti di mercato.

Il referendum è una prima battaglia vinta. La guerra continua.

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