Lungo un vago confine tra Iraq e Iran un uomo in barca caccia anatre di notte. Altrove un ragazzo sâapposta con il fucile pronto a sparare a creature in volo nel cielo grigio. Sulla strada di campagna uomini in cerca di prede guidano in unâalba di nebbie. Figure di cacciatori abitano le immagini di Gianfranco Rosi, da Notturno a Fuocoammare. Nel film ambientato a Lampedusa un uomo in tuta da sub sâimmerge con un fucile a tracolla, marinai pescano seppie quando il mare è mosso e il giovane Samuele imita per gioco i gesti di caricare lâarma e fare fuoco. Samuele, ancora, è un abile tiratore di fionda, ma ha un occhio pigro: alla visita oculistica egli ammette di serrare la palpebra sinistra per mirare lâobiettivo. Questa connessione tra visione e caccia predatoria mi ha ricordato il saggio sulla fotografia di Susan Sontag: âLa macchina fotografica â scrive Sontag â è lâarma ideale di una consapevolezza di tipo acquisitivo [âŚ], la macchina fotografica viene venduta come arma predatrice, automatizzata il piĂš possibile e pronta a scattareâ; e per questo âlâatto di fare una fotografia ha qualcosa di predatorioâ, dove âinvece di guardare in un mirino telescopico per puntare il fucile, [si guarda] in un mirino fotografico per inquadrare unâimmagineâ. Se estendo lâanalogia alla macchina da presa, i cacciatori incontrati nei film sono proiezioni dellâattivitĂ del regista.
Il cacciatore dâanatre in terre paludose conosce la pazienza. Sâacquatta mentre sullo sfondo bruciano le fiamme emesse da torri petrolifere e attende il momento giusto per colpire. Anche il regista pazienta in attesa e torna a casa con il paniere ricco dâimmagini in movimento: corpi di migranti tremanti di convulsioni dopo un lungo viaggio (Fuocoammare); il balbettio di un bambino traumatizzato dalla visione di crimini di guerra (Notturno); un morto dissepolto durante lavori cimiteriali (Sacro GRA); i movimenti sgraziati di sofferenti psichici rinchiusi nel cupo corridoio dâun sanatorio (Notturno); i morti su un barcone alla deriva (Fuocoammare); un uomo appena ferito in un incidente sul raccordo anulare (Sacro GRA); detenuti in un carcere opprimente disposti in fila sotto gli occhi delle guardie (Notturno). Il cinismo venatorio di Rosi offre un cinema della crudeltĂ sotto i vasti cieli di una natura indifferente.
In Fuocoammare lâoculista spiega a Samuele la cura: ÂŤAllora, gioia, abbiamo un problema con questâocchio, è un occhio pigro. Sai cosâè un occhio pigro? Ă un occhio che non lavora. Quindi il tuo cervello non recepisce le immagini dellâocchio sinistro. Allora noi dobbiamo costringerlo a usare lâocchio sinistro. Quindi per un breve periodo porteremo una benda sullâocchio buono, cosĂŹ costringiamo il tuo cervello a usare lâocchio pigro e a farlo lavorare. Piano piano lo dobbiamo abituareÂť. Secondo lâoculista lâabitudine è allenamento alla visione corretta. Ancora Sontag: âVale per il male la stessa legge che si applica alla pornografia. Il trauma delle atrocitĂ fotografate svanisce vedendole ripetutamente, come la sorpresa e lo sconcerto che proviamo assistendo per la prima volta a un film pornografico si attenuano sino a sparire se se ne vanno a vedere altri. [âŚ] Lâenorme catalogo fotografico della miseria e dellâingiustizia nel mondo ha dato a tutti una certa consuetudine con lâatrocitĂ , facendo apparire piĂš normale lâorribile, rendendolo familiare [âŚ], inevitabileâ. In un mondo carico dâorrore il cinema di Rosi aiuta ad abituare lo sguardo dinanzi allâosceno.
Che lâimmagine sia pregna di un senso morale è forse unâillusione, questo penso quando vedo i film di Rosi. Lâimmagine, infatti, non suggerisce alcun senso, non ha profonditĂ , non allude ad alcunchĂŠ di celato: lâimmagine non è altro che sĂŠ stessa e mostra solo sĂŠ stessa. Per questo non colgo alcuno stimolo di conoscenza, ma solo infecondo disorientamento: Sacro GRA non fornisce una mappa critica della terra desolata attorno alla tangenziale, Fuocoammare non aiuta a comprendere il meccanismo dellâaccoglienza e del controllo lungo la frontiera marittima, Notturno è una generica commistione di visioni raccolte nelle terre a oriente del Mediterraneo.
âContrariamente a quanto ci dicono le tesi umanistiche proposte per la fotografia â sostiene Sontag â, la capacitĂ della macchina fotografica di trasformare la realtĂ in qualcosa di bello proviene dalla sua relativa debolezza come mezzo per trasmettere la veritĂ â. Il pensiero critico è digiuno di conoscenza, ma può almeno definire il rapporto genetico tra lâimmagine in movimento e il potere, ovvero la relazione tra le ombre sullo schermo e le forze che hanno acconsentito alla loro esistenza. Nei titoli di coda di Fuocoammare il regista ringrazia, tra gli altri, il Ministero dellâInterno, la prefettura di Agrigento, la Marina Militare, la Guardia Costiera, la Guardia di Finanza, lâArma dei Carabinieri. In Notturno i titoli conclusivi scorrono accompagnati dallâinno nazionale iracheno e menzionano il Ministero dellâInterno e quello della Cultura iracheni, la Direzione di informazioni militari irachena e quella libanese, le forze Zeravani, corpo militare peshmerga addestrato dallâesercito italiano.
Nel nostro tempo lâimmagine è cinica e predatoria, effetto ed espressione di crudeltĂ ; lâimmagine è apparenza di superficie senza veritĂ , un esercizio dâabitudine allâorrore; lâimmagine è secrezione del potere e dei suoi rapporti di forza. Rosi potrebbe essere un autore della demistificazione, il maestro dâun cinema negativo che, spregiudicato, svela le astuzie dâuna prevalente ipocrisia. Eppure questo non accade. Rosi si presenta â ed è presentato â come cantore dâun cinema umanitario.
Leggendo le recensioni a Fuocoammare e Notturno dei giornali piĂš autorevoli, ho costruito un archivio di citazioni. Il cinema di Rosi âha sempre evidente la volontĂ di ricercare lâumanoâ e compone âun organismo unico: quello dellâUmanitĂ con la U maiuscolaâ. Infatti Fuocoammare evidenzia âlâemergenza profughi che lâEuropa stenta ancora ad affrontare in modo veramente unitario e umanitarioâ. Questo cinema umanitario non è dunque crudele, ma delicato: opera di âesistenze illuminate con delicatezzaâ. Rosi non è cinico, ma empatico perchĂŠ âsembra dire, infatti, che esistono le tragedie ma lâumanitĂ , la pietĂ e la compassione continueranno a salvare il mondoâ. E lâimmagine non sâarresta alla superficie, anzi âRosi ha saputo spingere sempre piĂš a fondo la propria riflessioneâ ed è âproblematico dietro unâevidenza che ne cela la complessitĂ â. La sovraesposizione del dolore non allena allâabitudine, al contrario âil regista crea una magia spirituale di comunanza e affratellamentoâ. Notturno, ancora, è un film apportatore di conoscenza perchĂŠ è ricco di âuna sensibilitĂ che cerca dâinterpretareâ. E lo stesso autore dichiara in una intervista che ÂŤa Berlino qualcuno mi ha detto: le parole chiave di questo film [Fuocoammare] sono tre: lâamore, la passione e la compassione. La compassione del medico, lâamore di Maria per il marito â quando fa il letto, prepara il pranzo â e la passione di SamueleÂť.
Credo che le interpretazioni citate non siano abbagli. I critici, sebbene poco acuti, hanno ragione e lo stesso regista sostiene le loro tesi. Allora Rosi mâappare come un cacciatore di teste amato negli oratori, un predatore apprezzato dalle giurie dei festival del cinema. Ora vorrei comprendere come questo possa accadere. Forse la valenza etica dellâimmagine è unâattribuzione del nostro sguardo? In Fuocoammare, per esempio, i pescatori catturano delle seppie, una donna le squarta e i personaggi, nella scena successiva, masticano e risucchiano i molluschi in un banchetto spietato. Poco dopo lâoperatore cattura le immagini di migranti adagiati sul ponte della nave, tremanti creature indifese disposte a nutrire la compassione degli spettatori. Forse sono insensibile alla vista delle seppie e compatisco gli uomini a causa di codici culturali ben appresi: la coloritura etica di unâimmagine afferrata sarebbe unâelaborazione del mio sguardo. Eppure questa è una spiegazione troppo semplice: la conversione umanitaria mi sembra interna alla forma del cinema di Rosi. La magia che trasforma e camuffa la crudeltà è unâaffezione del meccanismo filmico.
In Fuocoammare il medico Bartolo siede di fronte a uno schermo dove appare la foto di un barcone. Egli commenta: ÂŤOttocento quaranta erano in questa barca. Câerano quelli della prima classe, erano fuori e avevano pagato mille e cinquecento dollari. Poi câerano quelli della seconda classe che erano qua in mezzo e avevano pagato mille. E poi, non sapevo, giĂš nella stiva ce nâerano tantissimi: avevano pagato ottocento dollari, la terza classe. Quando li ho fatti scendere praticamente non finivano mai, mai. Centinaia di donne e bambini che stavano male, soprattutto quelli nella stiva. [âŚ] Erano disidratati, erano affamati ed erano stanchiÂť. Il medico spiega lâimmagine, la inscrive in un contesto di relazioni: la sua voce â in posizione strategica, centrale â traduce tutte le immagini che precedono e seguono. Poi sullo schermo posto dinanzi a Bartolo compaiono un altro barcone e il corpo di un bambino migrante coperto di ustioni. Ora avverte il medico: ÂŤĂ dovere di ogni uomo che sia un uomo aiutare queste personeÂť. Questa sequenza è lâincantesimo che trasfigura il freddo cinismo dellâoperatore in sguardo commosso dello spettatore.
Il richiamo etico allâintervento del medico Bartolo â oggi parlamentare europeo â mi ricorda un altro passo di Sontag: âFotografare è di fatto un atto di non intervento. Lâorrore di certi âcolpiâ memorabili del fotogiornalismo contemporaneo, come le immagini del bonzo vietnamita che tende la mano verso la lattina di benzina o del guerrigliero bengalese che sta baionettando un collaborazionista legato, deriva in parte dalla plausibilitĂ che ha assunto, nelle situazioni in cui il fotografo può scegliere tra una fotografia e una vita, la scelta della fotografia. Chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenireâ. Imputare a Rosi di non essere intervenuto durante lâincidente di Sacro GRA o sulla nave dei sommersi e salvati in Fuocoammare, sarebbe un atto dâinsopportabile moralismo. La questione è piĂš sottile: lâautore nasconde il suo mancato intervento, non vuole che esso costituisca lâoggetto di una riflessione problematica. Questo è il paradigma primo del cinema di Rosi: la cancellazione della presenza dellâoperatore implicato nella scena.
Nel cinema di Rosi non ci sono movimenti di macchina o, se ci sono, sono quasi impercettibili. Dominano le immagini fisse, quasi fossero fotografie increspate da movenze interne. Se lâinquadratura si sposta, se repentina segue un volto o un gesto, essa denuncia la presenza dâun soggetto sulla scena, ovvero dâun mobile osservatore coinvolto. Rosi, invece, manipola lâimmagine in modo che scompaia lâuomo con la macchina da presa. Allora sembra che la registrazione sia operazione asettica, neutra, elaborata da occhi meccanici e senza vita, posizionati in un luogo prescelto da unâintelligenza dotata di notevole gusto pittorico (la scena finale di Sacro GRA, non a caso, è un mosaico di visioni del raccordo anulare emesse da telecamere a circuito chiuso). Se lâoperatore cinico e predatore scompare dalla scena, restiamo noi scrutatori di immagini di sofferenza â siamo soli di fronte al dolore degli altri, e non possiamo che essere empatici, restare umani. Rosi nasconde la sua arma e mostra alla nostra intelligenza compassionevole la preda ansimante dagli occhi spalancati.
Vorrei leggere una storia del cinema dedicata ai movimenti della macchina da presa e del corpo che la regge, ma non so se esiste. Penso a Dziga Vertov e al suo cinematico occhio instabile; penso alle scene finali del Vangelo secondo Matteodi Pasolini dove la passione è osservata da occhi mobili di apostoli che scrutano tra le nuche di altri osservatori. Ora sono reduce dalla visione di Notturno etorno ancora al mondo martoriato che si trova a oriente rispetto a me. PiĂš di un anno fa ho visto un film siriano cosĂŹ tremendo da lasciarmi quasi silente: Still recording di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub. Un gruppo di giovani operatori e cinefili di Damasco sono dâimprovviso immersi nel conflitto e decidono di parteggiare per le fazioni ribelli che combattono contro Assad. Le loro armi sono le macchine da presa e cosĂŹ documentano i bombardamenti, la giocosa vita privata, le vittime, i gesti di amicizia, gli scontri a fuoco, le bombe assordanti che esplodono nel soggiorno. Ho visto lâorrore seduto al cinema, ma percepivo costante la presenza di un corpo che stringe una camera. Quel corpo è mediazione viva, storica, tra me e la cruda immagine. Alla fine un operatore è colpito da un cecchino e la macchina continua a riprendere: lâimmagine che giunge a me non è la secrezione di un occhio automatico, ma lâestensione percettiva di un corpo caduto.
Questo articolo è stato pubblicato su Napoli Monitor il 29 settembre 2020