La generazione di Rossanda, ragazza del secolo scorso, aveva di fronte un intero paese distrutto, dentro e fuori, da ricostruire, e ceti deboli da difendere. Lei avrebbe voluto scrivere di arte, sulle orme del suo caro maestro Matteo Marangoni. Ma non si poteva più. Altre le urgenze. Serietà totale. Sindacato, infrastrutture, “maccartismo”, scontro con l’apparato ideologico dello stato… Troppo colta per mettere bavagli alla cultura. Immaginatevi però il gap esistenziale con i sessantottini del sex drugs and rock’n roll. Sarà dura nel 1977-1978 convincerla della importanza pulsionale di Grease e Guerre stellari, e solo grazie a Susan Sontag esegeta della cultura camp evitai l’espulsione (non le occhiatacce) da critico del “Manifesto”, che proprio Rossanda aveva imposto, stupita che a scrivere bene di una certa New Hollywood e dintorni dell’epoca fosse nello stesso tempo un simpatizzante di potop fanatico di C.L.R. James nonché esercente di cineclub, “Il Politecnico”.
Rossana adorava parlare, in corridoio, scontrandoci per caso, di noir e commedie Usa che ripescava con Karol in uno dei 28 film-club parigini attorno alla sua casa sulla Senna. Scriveva di rado di cinema, e preferiva in quelle occasioni nascondersi dietro lo pseudonimo di Rufo (il nome del suo gatto) e anche se «i film del New Deal diventano con il passare degli anni sempre più belli mentre molti capolavori europei si affievoliscono con il passare del tempo», furono folgoranti le sue note su Bergman, Panfilov, la tomba dimenticata di Maria Callas, il Dottor Korczak («tutto Cronenberg non eguaglia l’insostenibilità horror di Wajda»), Reds («sembra un film di Mikhalkov Konchalovskij, un sentimentale e malinconico addio al comunismo antico»), Fellini sì-Antonioni meno e Sokurov (che non amava affatto), e addirittura è già “Black Lives Matter” quando definisce Via col vento «un favolone senza fascino».
Al di là del “contenuto e della forma” Rossanda, amica e studiosa di Foucault, ci spintonava sempre fuori dai bordi e dai dogmi: «Mettere il reale in parole e concetti è un modo per esorcizzarlo, autorizzarsi a non essere che il tassello di una teoria». Le immagini, il “guardare guardarsi” non chiariscono di più i misteri della storia? Un altro comunista, «paradossale come Mao», Pietro Ingrao, aveva lasciato il cinema. Nel 1998 mi telefona al giornale, questo ex allievo del Csc epoca Alida Valli, tramutato in leader prestigioso della sinistra estrema, e mi commuove la sua recensione a braccio di La sottile linea rossa di Terrence Malick: «Non è un film di guerra, è proprio la guerra! E sembra Spielberg inebriato da Platoon».
Rossanda solo molti anni dopo riuscirà a realizzare un documentario per la Rai su Rauschenberg e la Pop Art newyorchese. Ma di «verdi elettrici, rossi profondi o grandi neri, come un frammento ma come un significato» già scriveva nelle pagine culturali, a proposito di «arte di quel 900 irrequieto e scintillante, oggi maledetto dai più che non ne sanno niente e non hanno avuto la fortuna di incontrarne, oltre il buio, le luci». Scrive su Titina Maselli, ma il dettaglio potrebbe essere l’adorato rosso pre-umano di Rothko o quel “nero su nero” di Malevič che Ejzenštejn sbandiera nel 1935 di fronte agli allibiti artisti comunisti che vogliono farlo fuori, non metaforicamente, e ai quali il regista impone lo studio di un realismo non antropomorfico che non sarà mai “socialista” senza una potenza di fuoco sineddochica. Attenzione alla parte per il tutto, nell’arte, che è combattimento con il nostro passato preistorico riaffiorante.
La generazione di Rossanda diffidava anche un po’ degli “artisti professionisti”, non artigiani, non “falegnami dell’immaginario” come Gabriel Garcia Marquez, ma in perenne egocentrismo e a caccia di mecenati. Peggio ancora degli “artisti della politica”, gli scalatori di partito. L’estetica delle macerie, ovvero “estetizzare la politica invece di politicizzare l’arte”, era da mascalzoni, proprio come aveva compreso, studiando Ejzenštejn, Rossellini. «Qualunque fascista può girare un film realista, socialista o neorealista, se conviene». Lei chiude le commissioni di scrittori, pittori, cineasti, scienziati, no ai propagandisti del Partito. Libertà. Pasolini plaude, ma poi chiamerà «stalinisti beat» gli intellettuali e artisti del Psiup che si inebriano di musica ex machina, arte concettuale esoterica e poesia “novissima”. Rossellini invece chiude con il cinema-spettacolo, con il cinema-rappresentazione, e inventa un’altra cosa. Il cinema moderno. Come coniugare il rispetto assoluto per l’individualità, per la «soggettività desiderante», come la chiamava Naghisa Oshima, senza essere ciechi come un pipistrello (era l’animale che piaceva di più a Rossanda), con il mondo che soffre e pretende diritti?
“Se non avesse fatto politica – le chiede Nino Gnoli – cosa avrebbe voluto fare?”. “Ho una certa invidia per Margarethe von Trotta, che ha fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano, il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso quando si fa una cosa, non se ne fa un’altra”. Ma per noi fu una “cineasta pugnace”, il suo lavoro resta e incide. Era una diva, unica. Il movimento del 68, agli albori, prima ancora dei gruppuscoli, poteva andarne fiero. Le più belle, intelligenti e affascinanti parlamentari del Pci, Rossana Rossanda e Luciana Castellina, erano dalla nostra parte. Le avrebbero espulse più tardi, ma già “Unità” e “Paese Sera” diffondevano reticenze, se non proprio falsità, su lotte universitarie e operaie che non capivano e che temevano.
Rossana Rossanda, la “biancona” (l’amica pittrice Titina Maselli così la chiamava affettuosamente), metteva soggezione a tutti, ma attratta dall’energia radiante e dalla passione fou degli studenti del marxismo creativo reinventato da Tronti e Panzieri, organizzava indimenticabili gruppi di studio e aizzava zuffe teoriche nella piazzetta romana del Grillo, dove “Il manifesto” rivista era stato concepito. E dove il quotidiano comunista stava miracolosamente nascendo, forse anche grazie ai soldi di tanti “cinematografari”, compagni facoltosi ma incapaci di istituzionalizzarsi: Yves Montand, Simone Signoret, Mario Monicelli, Sergio Corbucci, Ugo Pirro, Elio Petri… Chissà forse anche Jane Fonda, amica di Luciana, che venne poi a trovarci nella redazione di via Tomacelli.
Già. L’impossibile come programma minimo. Voglia di lotta, conflitti, battaglie, scontri, e non solo indignazione. Per il Vietnam, per il caso Braibanti e per i morti di Avola. Niente sviluppo, crescita zero senza guerra, fronti, baruffe e avanguardie.
In ogni scritto di Rossana si aggirerà un braveheart ferito e coraggioso. Immaginatevi come il giovane Veltroni (e il suo capo) fosse turbato da quel barocco inseguirsi di parole cruente, poco democratiche: mischia, scaramuccia, tafferuglio, parapiglia, fischi, addirittura lotta di classe. Eppure bastava rileggere neanche Marx ma F.D. Roosevelt che mandava la guardia nazionale contro il padrone Ford o godersi i thriller a budget zero prodotti da Roger Corman: umorismo, esplosioni, azione, sorprese, personaggi femminili forti, un nemico chiaro, per capire le arringhe vincenti di Rossana sul 7 aprile, Sofri, Sussurri e grida, i processi alle Br, gli scheletri negli armadi.
A proposito di comunismo critico. Tutta questa incandescente ideografia accadeva nello stesso palazzo, proprio a un passo, misteri della geografia emozionale, dalla redazione di “Filmcritica”, di fronte al Foro. La grande rivoluzione culturale proletaria e il “fuoco sul quartier generale”, a così grande distanza e senza facebook, contagiavano anche il mondo delle forme, delle luci e delle ombre e anticipavano la globalizzazione, ma quella dal basso. Edoardo Bruno, combattente “nouvelle vague” e che ci aveva addestrati alla Mostra di Pesaro, in polemica con i dogmi di Aristarco, a coniugare soggettivamente etica e erotica, estetica e ricezione acratica (cioè estranea alle forme storiche del potere), era perennemente e masochisticamente all’attacco e sotto attacco.
Fu la lettura di “Filmcritica”, Godard e Grifi ben raccontati, a farmi diventare maoista visionario. Le espulsioni sono una specialità non solo di Stalin e Berlinguer, ma anche di Breton e Debord. E così Bruno “espelleva” dalla rivista fondata 28 anni prima con Barbaro, Della Volpe e Rossellini. I litigi sul “nuovo cinema” erano fecondi. Adriano Aprà e Enzo Ungari fondavano “Cinema&Film”, rimproverando al direttore, con Maurizio Ponzi e altri, rapporti molto poco chiari e troppo accademici con il traditore Armando Plebe. E scodellavano nel paese emarginato per troppi decenni dalla cultura viva, i formalisti russi, gli strutturalisti, i situazionisti, il decostruzionismo. E immaginavano nuovi modi di produzione della critica oltre che recensire: girare film, fondare i Filmstudi, moltiplicare i convegni di Abruzzese, creare festival come Salsomaggiore o le Estati Romane…Ellis Donda, Michele Mancini, Ciriaco Tiso e Alessandro Cappabianca fonderanno “Fiction” per addentrarsi in sentieri lacaniani più sconosciuti e sperimentare pericolosi procedimenti non logocentrici.
Gli “anni di piombo”, non come si pensa oggi, erano alle spalle, non davanti a noi. La grandezza di “Filmcritica” era quella di attrarre solo chi, in dialettica zen, era poi capace di sbarazzarsi del padre, di bastonare il Maestro. Sarebbe successo fino al numero 700 e alla nascita di “Film parlato”. Sarebbe successo anche al manifesto quando si dimenticava, periodicamente, di essere un giornale del conflitto e nel conflitto. «Necessari e irriducibili l’uno all’altro è il paradosso del comunicare. Non è vero che solo l’altro può raccontare la figura che disegni nel percorso dei tuoi giorni», scriveva.
Rossana Rossanda, Pola 1924 – Roma 2020.
Questo articolo è stato pubblicato su Fata Morgana web il 21 settembre 2020