David Graeber, antropologo del futuro

di Enzo Rossi /
17 Settembre 2020 /

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Il metodo d’analisi di Graeber ha cambiato la nostra comprensione del passato remoto, e con essa la possibilità di futuro

Circa 1800 anni fa la città mesoamericana di Teotihuacan si trasformò profondamente. Nel giro di non molti anni questo centro urbano all’epoca tra i più grandi al mondo (circa 120.000 abitanti) abbandonò i maestosi templi-piramide e i sacrifici umani, e divenne un vasto agglomerato di comode ville in pietra, tutte più o meno delle stesse dimensioni. Una transizione dalla gerarchia all’eguaglianza tutt’altro che effimera: le nuove strutture – di pietra e di potere – durarono per circa quattro secoli. 

E non si tratta di un caso isolato. Ben più tardi, quando i conquistadores spagnoli avevano già iniziato a seviziare il continente americano, città come Tlaxcala erano governate da una giunta elettiva i cui membri venivano regolarmente e ritualmente frustati dai cittadini, giusto per ricordargli chi comandasse veramente. 

Queste vignette storiche sono tratte da un recente articolo di David Graeber (scritto con l’archeologo inglese David Wengrow), l’antropologo, intellettuale pubblico e attivista anarchico morto a Venezia il due settembre scorso all’età di 59 anni. Chiunque conosca la narrativa convenzionale sulle origini delle civiltà le troverà sorprendenti, perché in base a questa narrativa la storia della nostra specie è la storia di un’evoluzione più o meno lineare, e una volta arrivati alle città ineguaglianze radicali e rigide gerarchie dovrebbero essere ormai inevitabili. 

A grandi linee, la narrativa standard è questa: gli umani anatomicamente moderni appaiono circa duecentomila anni fa, e fino alla fine dell’ultima era glaciale (diecimila anni fa) vivono in piccole bande nomadi di cacciatori e raccoglitori, senza strutture di autorità né ineguaglianze significative. Poi arriva l’agricoltura, e con essa le prime divisioni fra classi, le prime città, i primi stati. La complessità rende la gerarchia inevitabile. L’idea sembra essere questa: l’eguaglianza appartiene a un passato remoto ormai perso per sempre, a meno che non si voglia tornare a vivere in piccole bande nomadi, e ridurre la popolazione mondiale a una piccolissima frazione di quella attuale. 

C’è chi prende proprio questa strada e propone posizioni anarco-primitiviste. L’approccio di David Graeber è ben diverso, e parte da un rigoroso smantellamento della narrativa standard, a colpi di evidenza empirica. Grazie a una sintesi tanto meticolosa quanto di largo respiro, Graeber mostra come i risultati archeologici e antropologici più recenti possono trasformare la nostra comprensione del passato remoto, e con essa le possibilità per il futuro. 

Per Graeber (e Wengrow) non esiste questo lungo passato idilliaco e privo di mutamenti politici e sociali – una sorta di infanzia dell’umanità. Non esiste l’egalitarismo primordiale, e non esistono le fasi rigide dell’evoluzione sociale – bande, tribù, chiefdoms, stati, in un ordine progressivo che associa crescente complessità a crescente gerarchia. Da un lato, gerarchie e ineguaglianze profonde esistono già nelle società meno complesse, da quelle di genere a varie forme di asservimento e perfino schiavitù. Dall’altro, non c’è una progressione lineare verso l’ineguaglianza e la gerarchia. Ad esempio, molte società di cacciatori e raccoglitori mutavano drasticamente le loro forme di organizzazione sociale in base alle stagioni: i Lakota e Cheyenne dei Great Plains nordamericani avevano un’organizzazione gerarchica con tanto di forza di polizia, ma soltanto per il periodo dell’anno legato alla caccia del bisonte, mentre per il resto dell’anno prevalevano strutture molto più egalitarie. Allo stesso modo, ma in maniera rovesciata, gli Inuit avevano un sistema patriarcale gerarchico per buona parte dell’anno, ma durante la stagione della caccia a foche e leoni marini creavano nuove strutture sociali e fisiche – grandi case comuni dove prevalevano valori mutualistici ed egalitari. 

Ciò che conta qui è che le società usavano sperimentare continuamente con nuove forme sociali, senza dare per scontato che un certo ordine fosse necessario a mantenere la loro forma di vita. Quindi, come osservano Graeber e Wengrow, «la vera domanda non è ‘quali sono le origini dell’ineguaglianza sociale?’, ma, dato che abbiamo vissuto per gran parte della nostra storia facendo avanti e indietro tra sistemi politici diversi, ‘come mai ora siamo così bloccati?’».

In questo modo, e non con fantasie politiche che cercano di emulare l’egalitarismo «primitivo», Graeber utilizza l’evidenza antropologica e archeologica per mettere in discussione il fatalismo in stile «There is no alternative». E il suo contributo va ben oltre l’indicare le possibilità di cambiamento. Nel libro Debt: The First 5,000 Years, uscito nel 2011 e già un classico moderno, Graeber mostra come tre forme di relazioni sociali alternative – gerarchia, comunismo, e mercato – addirittura coesistano in tutte le società conosciute, seppure in proporzioni relative ed equilibri molto variabili. Le relazioni gerarchiche sono quelle imperniate su valori quali l’onore e l’anzianità. Il «comunismo quotidiano», come lo chiama Graeber, è un tipo di relazione sociale basata sulla sola soddisfazione reciproca dei bisogni, e si trova ovunque, dai rapporti personali finanche ad alcuni aspetti del lavoro cooperativo all’interno di organizzazioni capitaliste. Infine abbiamo le relazioni di mercato, che forse non hanno bisogno di presentazioni al giorno d’oggi. Eppure il punto di Graeber è proprio questo: gli scambi di mercato sono un universale culturale, ma la loro preponderanza sugli altri tipi di relazione sociale è uno sviluppo recente (e quindi reversibile), legato al successo del capitalismo. 

L’altra faccia di questa medaglia è che, come il capitalismo ha avuto successo nello sbilanciare le relazioni sociali a favore degli scambi di mercato, allo stesso modo si possono creare opportunità per movimenti sociali alternativi. Quindi, ad esempio, l’ethos antiautoritario e anticapitalista dei campi di Occupy – un movimento nel quale Graeber ha giocato un ruolo di primo piano, fino a coniarne lo slogan «we are the 99%» – non è soltanto una breccia temporanea nell’egemonia capitalista, ma anche l’espressione del comunismo quotidiano, ossia di un universale culturale. Sta ai movimenti sociali aprire queste brecce, e cercare di trasformarle in qualcosa di più ampio e duraturo. È proprio questo che hanno fatto i mercanti e i colonialisti del sedicesimo secolo, così come i proprietari terrieri e i primi industriali nei tre secoli successivi: il lento successo del capitalismo – ciò che Gramsci avrebbe chiamato una rivoluzione passiva – è, in un certo senso, il successo di un movimento sociale. 

Forse il contributo più dirompente e duraturo del lavoro intellettuale di Graeber è proprio questo: una originale sintesi tra un approccio storico di lunga durata (Debt e The Dawn of Everything, un volume appena completato con David Wengrow e non ancora pubblicato) e lo studio etnografico dei movimenti sociali, dalle controculture antiautoritarie dei discendenti di schiavi in Madagascar (Lost People, 2007) al movimento per la giustizia globale (Direct Action, 2008), fino ad Occupy stesso (The Democracy Project, 2013). Questa sintesi mostra come ciò che chiamiamo culture o cultura sia il prodotto di antichi movimenti sociali di grande successo  – un successo a volte così completo da diventare quasi invisibile, come appunto nel caso del capitalismo. Ma uno scavo genealogico e archeologico – metaforico e reale – può rivelare come ciò che un tempo sembrava bizzarro, blasfemo o utopico possa trasformarsi nel nuovo normale. Questa conoscenza storica e antropologica, in altre parole, ci ricorda ciò che aveva già osservato Marx: «tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria», proprio come le grandi case comuni stagionali degli Inuit. 

Negli ultimi anni Graeber dirige questa attitudine critica verso i mondi del lavoro e della burocrazia. I libri The Utopia of Rules (2015) e Bullshit Jobs (2018) dipingono un quadro caustico: la necessità del lavoro e la rigidità delle regole burocratiche che lo accompagnano sono tentativi piuttosto disperati di puntellare un capitalismo all’ultima spiaggia: «è come se qualcuno là fuori si fosse inventato lavori senza senso solo per fare in modo che tutti continuino a lavorare», si legge su un poster con una citazione da quest’ultimo libro irreverentemente affisso nella metropolitana di Londra, l’ultima città in cui Graeber ha vissuto, e dove aveva una cattedra di antropologia alla London School of Economics and Political Science.

Eppure Graeber ci ricorda anche che il collasso imminente del capitalismo, o almeno del capitalismo che conosciamo, non è necessariamente uno sviluppo da accogliere a braccia aperte: «Tra cinquant’anni avremo senz’altro un sistema che non sarà capitalista», dice in un’intervista del 2018, e «potrebbe trattarsi di qualcosa di ancora peggiore. Quindi è imperativo rompere il tabù che circonda ogni tentativo di creare qualcosa di migliore».  

Sarà più difficile seguire questa esortazione senza la guida di David Graeber. Al mondo non mancano gli intellettuali attivisti e gli attivisti intellettuali, accademici o meno. Graeber era molto di più di entrambe queste permutazioni. Non era soltanto un professore che scrive di attivismo, né un attivista con una cattedra universitaria. Era una figura ben più rara: uno studioso che è riuscito a mettere lo studio rigoroso di questioni tra le più difficili e fondamentali del suo campo al servizio di un impegno sincero e reale per le cause della sinistra antiautoritaria, senza cadere nei dissidi settari che affliggono questa parte politica. David non è più con noi, ma noi abbiamo ancora molto da imparare da lui.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 15 settembre 2020

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