Ue/Mediterraneo . Se il “recovery fund” segna un salto di qualità nel processo di integrazione europea (in direzioni che rimangono tutte da indagare, naturalmente), nel Mediterraneo si giocano partite essenziali per la definizione dei confini di quell’Europa che si intende riqualificare.
C’è la tendenza, da parte dei media e del sistema politico, a trattare quanto avviene nel Mediterraneo, e più in generale la questione delle migrazioni, come un tema a sé, di solito rubricandolo come un’emergenza (securitaria o umanitaria, poco cambia rispetto alla logica del discorso). A nessuno viene in mente, ad esempio, di collegare questo tema con il “recovery fund”, di cui si discute con tutt’altro linguaggio e tono.
A me pare, tuttavia, che questo atteggiamento sia profondamente fuorviante. Se il “recovery fund” segna un salto di qualità nel processo di integrazione europea (in direzioni che rimangono tutte da indagare, naturalmente), nel Mediterraneo si giocano partite essenziali per la definizione dei confini di quell’Europa che si intende riqualificare – e dunque sia per la qualità della sua cittadinanza sia per i suoi rapporti con l’esterno, in primo luogo con i Paesi della sponda sud, con il grande Medio Oriente e con la stessa Africa subsahariana nel suo complesso.
La vergogna del campo di Moria e quella dei campi di detenzione in Libia sono i vertici maggiormente visibili di un regime di controllo del confine marittimo che è a tutti gli effetti un regime europeo (senza, sia chiaro, che questo esoneri dalle loro responsabilità i singoli governi nazionali, a partire da quello italiano).
Ma certo, quello che è accaduto alla petroliera Etienne, di proprietà del colosso danese Maersk, è un altro tassello emblematico dell’intreccio di responsabilità nazionali ed europee in un mare che è da tempo attraversato dal confine più letale al mondo. Indifferenza, cinismo, spregio per l’elementare dovere di salvare vite in mare, corpi lasciati per settimane in disfacimento, senza alcuna assistenza: è questa l’Europa che intende riqualificarsi con il “recovery fund” dopo lo shock della pandemia? Sembrerebbe di sì, tanto più se teniamo presente che ad agire nel Mediterraneo non sono oggi i «sovranisti», ma governi come quello italiano e la Commissione di Ursula von der Leyen.
Da questo punto di vista, acquisisce un significato particolarmente importante l’intervento di venerdì della nave Mare Jonio, della piattaforma Mediterranea. Molto semplicemente, i volontari di Mediterranea hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare le autorità maltesi ed europee: sono saliti a bordo, hanno prestato una prima assistenza medica ai ventisette profughi e migranti soccorsi dalla nave danese e hanno immediatamente constatato una situazione insostenibile. Di qui la decisione di trasferire i ventisette sulla Mare Jonio.
Ma non può sfuggire, più in generale, che l’intervento di Mediterranea ha prefigurato una diversa modalità di gestire il confine marittimo nel Mediterraneo, aprendo dal basso un «corridoio umanitario» e alludendo potentemente alla costruzione di un’altra Europa attraverso l’attivismo in mare e sui confini.
Questo attivismo si è del resto consolidato negli ultimi mesi e si è al tempo stesso almeno parzialmente trasformato. La costruzione di una vera e propria «flotta civile», che ha in Alarm Phone il suo centro di coordinamento per i soccorsi (verso la costruzione di un vero «civil MRCC» – Marittime Rescue
Coordination Centre), ha determinato un approfondimento della dimensione immediatamente europea delle operazioni in mare, mentre in particolare in Germania – lo raccontava venerdì Sebastiano Canetta su queste pagine – è cresciuto un movimento che accompagna quelle operazioni in terra, coinvolgendo attori profondamente eterogenei (dalle Chiese ai Comuni come quello di Berlino e ad alcuni Länder).
In gioco è sempre più chiaramente oggi, per l’attivismo in mare, la lotta per un’Europa diversa da quella della vergogna di Moria, della Libia e della Etienne, a partire da una nuova maniera di raccontare le migrazioni e di collegarle alle mobilitazioni sociali che si stanno producendo nel contesto della pandemia. Anche per via della grande impressione determinata dalle iniziative di Black Lives Matter negli Usa, che stanno cambiando anche in Europa la grammatica dell’antirazzismo, i linguaggi tradizionali dell’umanitarismo sono spiazzati o comunque largamente modificati. Il riconoscimento del protagonismo e delle lotte di profughi e migranti, anche in condizioni durissime come quelle dell’attraversamento del confine marittimo nel Mediterraneo, è in particolare sempre più un tratto che caratterizza l’attivismo in mare.
La maturità della cooperazione tra diversi attori all’interno della «flotta civile» costituisce uno straordinario esempio di azione sul terreno immediatamente europeo che altri movimenti potrebbero riprendere e sviluppare. Le risonanze tra l’attivismo nel Mediterraneo e le mobilitazioni negli Stati Uniti sono un ulteriore aspetto che varrebbe senz’altro la pena di approfondire.
Più in generale, l’attivismo in mare ci propone oggi in termini parzialmente nuovi l’attualità di una politica radicale dei confini e della migrazione senza la quale è davvero difficile riprendere la riflessione e l’iniziativa sulla questione europea. Mediterranea, con l’operazione di venerdì, ha dato una buona esemplificazione di questa politica radicale, a partire dalla necessità elementare di prestare assistenza a ventisette profughi e migranti abbandonati dall’Europa.
Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto il 13 settembre 2020