Osservando le tristi immagini dei numerosi arrivi a Lampedusa, vengono alla mente almeno diversi livelli di riflessione. Il primo è legato alla tragedia umanitaria, che sempre accompagna i “viaggi della speranza” di chi affronta il Mediterraneo con imbarcazioni di fortuna e troppo spesso in quelle acque lascia la vita.
Da un punto di vista mediatico sembra quasi che ci siamo assuefatti a questi eventi, tranne scuoterci un po’ quando a morire è un bambino. Certo, si tratta di una vita interrotta sul nascere, ma non è molto diverso per chi muore a vent’anni. E il pensiero va subito al muro costruito sul mare da un’Europa indegna, un muro non fisico, ma giuridico, normativo, che permette a noi privilegiati di attraversarlo da nord a sud quando vogliamo. Con poche centinaia di euro possiamo raggiungere qualunque Paese da cui partono i migranti, ma lo stesso muro non consente a questi ultimi il viaggio in direzione opposta.
Un’Europa indegna non della sua storia, come si sente spesso dire, forse degna proprio di quella storia, fatta di colonizzazioni, tratte di schiavi, guerre e conquiste in ogni angolo del mondo. A ben guardare abbiamo esportato più violenza che democrazia. Un’Europa ipocrita e falsa, che da un lato stipula finti accordi, molto remunerativi per le controparti, fingendo che queste non siano rappresentate da feroci dittatori, che non esitano a violare qualunque diritto fondamentale in cambio di soldi.
Esternalizzando i confini, si lascia fare il lavoro sporco ai libici, ai turchi, agli egiziani, i quali, simili al Wolf di Pulp Fiction, risolvono i problemi. Un’Europa che sembra essere unita solo sul piano finanziario, tra banchieri e burocrati, ma che in ogni momento critico non è capace di esprimere il benché minimo dei valori che va sbandierando: dov’è la democrazia? Dove i diritti? E la solidarietà, l’uguaglianza, l’umanità? Persi dietro le consunte e maleodoranti bandiere dei diversi nazionalismi, usati per raccattare qualche voto in più.
È questo che ci dicono quei volti stremati che vediamo prosciugarsi al sole torrido di Lampedusa. Quegli sguardi ci interrogano, ci stanno chiedendo: ci riconoscete come umani o no? E soprattutto ci raccontano storie che nessuno vuole ascoltare. E questo è un altro punto in cui mostriamo i nostri limiti o meglio la nostra cattiva volontà. Continuiamo a guardare in basso, ai nostri piedi, a considerare il fenomeno migratorio solo guardando il nostro bagnasciuga.
Cerchiamo di fermare l’onda, ma quante volte abbiamo alzato gli occhi per cercare di capire cosa accade al di là del mare? A chiederci perché così tanti giovani rischiano la vita, pur di fuggire dalla terra in cui sono nati? Se non capiamo questo, tutto sarà inutile, vano, continueremo a rinchiuderci fintamente nella nostra fortezza, ma la gente arriverà, perché non può fare altro che arrivare. Quali scelte ha?
“Il nostro pensare in piccolo non serve al mondo” ha detto Nelson Mandela. Aveva ragione, ma di Mandela non se ne vedono molti all’orizzonte, di persone capaci di comprendere la situazione nel suo insieme, di capire che il nostro presente è lo stesso loro presente, siamo in una storia unica, non in due mondi diversi.
Un ultimo pensiero va al governo italiano: non si possono certo imputare a Giorgia Meloni e ai suoi l’aumento degli arrivi. Sarebbe scorretto e vile. Fare però presente che l’arroganza con cui la destra asseriva di voler bloccare i porti, di impedire alle ONG di salvare vite umane, di inseguire gli scafisti per tutto il globo terracqueo altro non è che vuota propaganda elettorale e per di più ignobile, perché giocata sulla pelle della gente.
L’impotenza dei paladini dell’identità, dei paventatori di sostituzione etnica dovrebbe fare comprendere che per gestire un fenomeno epocale ci voglio persone all’altezza di un compito estremamente difficile e che non ci sono soluzioni pronte. Forse non ci sono soluzioni, ma solo tentativi di gestire la cosa, provando a individuare soluzioni condivise. Sarebbe consolatorio se l’assordante silenzio di chi voleva schierare la marina militare e affondare i barconi fosse il segno di un’ammissione di errore, di una consapevolezza nuova, che non bastano e non servono gli slogan. Ho paura, però, che non sia così. Che quel silenzio sia solo ipocrita.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 14 settembre 2023