La vita, con altri mezzi. Per Bernard Stiegler

di Paolo Vignola /
25 Agosto 2020 /

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«Quello che dico, siete voi a dirlo». Con quest’espressione, quasi un ritornello, si potrebbero riassumere le scuole estive che Bernard Stiegler, assieme a sua moglie Caroline, organizzava a Epineuil-le-Fleuriel, nel mezzo della Francia. Quattro giorni di conferenze, pranzi e cene che radunavano dai quaranta agli ottanta iscritti di tutte le età, nella campagna in agosto, culmine e celebrazione annuale del seminario internazionale on line che Stiegler aveva cominciato a offrire dieci anni fa. Ho avuto l’opportunità di prendervi parte sin dalla seconda edizione, ed era tutto quello che avrei potuto desiderare nel fare filosofia contemporanea: da un lato partecipare al concetto, alla sua revisione o costruzione per vedere l’effetto che può fare nella critica politica, dall’altro lato godersi i dialoghi, le amicizie, le risate, il monumento del presente. E nel frattempo, giorno dopo giorno, prendeva forma il tessuto collettivo, con-geniale, del discorso: noi dicevamo quello che (si) diceva.

Gilbert Simondon, con cui Bernard aveva contratto un debito teorico importante, riteneva impossibile separare il processo di crescita di un individuo da quello del collettivo a cui appartiene. Detta così, «l’individuazione psichica e collettiva» sembra qualcosa di molto semplice e forse anche banale, almeno se non la si assume fino in fondo, nel pensiero e nella vita. Almeno se non si prova a creare una realtà del pensiero vivo basata su tale principio, e rivolta a diagnosticarne lo stato nella società contemporanea. Almeno se non si ha l’umiltà di farsi esempio concreto di questa individuazione, partorendo un pensiero plurale, poliedrico e polivoco, bergsonianamente aperto. Aperto come restano aperte le serie dei suoi libri (più di trenta pubblicati, dal ’94): La téchnique et le temps, tra tutte, di cui il quarto tomo (su sette progettati) era in processo di pubblicazione. Ma aperta è anche la stessa individuazione simondoniana, e di questo si trattava nelle sue scuole estive: vivere l’esperienza dell’individuazione collettiva nel pensiero, quindi della diacronia, della differenza, della critica, del conflitto, dell’affetto – appunto, vivere – o ciò che fa sì che la vita filosofica valga la pena di essere vissuta.

La tecnica e il tempo. Ricevuta per telefono la notizia della morte di Bernard, la prima cosa che ho fatto, dopo alcuni infiniti minuti di apnea, è stata digitare “Bernard Stiegler est mort” su Google, come spinto da un automatismo. Al momento era ancora troppo presto perché potesse comparire come notizia pubblica, così la prima e unica voce che impiegava quelle parole era il titolo di un articolo di Stéphane Vial, pubblicato qualche anno fa – si trattava di un attacco critico, feroce e bizzarro a Stiegler, originato da un diverbio in cui si dice che lo stesso Bernard fosse stato piuttosto veemente. Scherzo della traccia, della filosofia della traccia, e del (falso) morto che acchiappa il vivente (che non è più). Il ritardo epimeteico della sua morte anticipato dalla scrittura, o anche il «doppio raddoppiamento epocale», ossia il rovesciamento delle condizioni dell’esperienza, con cui firmava la sua dipartita… insomma, avevo l’impressione che tutto stesse cominciando a funzionare secondo i concetti e le funzioni della farmacologia. E del resto, quello che stavo facendo era cercare disperatamente un testo che testimoniasse, che parlasse al suo posto, una traccia della sua scomparsa, una scrittura, (di) una pura morte. Mancava la «ritenzione terziaria», ossia la dimensione pubblica, poiché scritta, del vissuto, di quel momento particolare del vissuto in cui il suo participio passato è definitivo. L’articolo di Vial, funzionava invece, ai miei occhi e suo malgrado, come simulacro sterile, moneta falsa, ripetizione che se in qualche modo anticipa, lo fa come un orologio fermo, in attesa che il cadavere passi nuovamente per il fiume.

Ho chiuso Google, e ho ripensato a quella frase che Bernard mi aveva detto durante un’intervista e che suonava all’incirca così: «il problema non è solo che non sappiamo criticare Google, il problema è che è Google a criticarci», ossia ad analizzarci tracciando i nostri profili digitali, alimentando così lo sfruttamento del capitalismo digitale e la proletarizzazione, che Bernard intendeva come perdita dei saperi – saper fare, saper vivere e i saperi teorici -, la quale condurrebbe alla miseria simbolica in cui viviamo.

Passare allatto. Il pensiero deve passare all’atto, di questo è sempre stato convinto, lui che di questo motto ha sempre fatto la propria “filosofia”: è passato all’atto quando, sul filo della necessità, ha fatto alcune rapine in banca, a mano armata (con un solo colpo in canna, alla bisogna, per lui stesso); all’atto è quindi passato nei cinque anni di prigione, dove ha cominciato a pensare (con) la filosofia; dopodiché il passaggio è diventato e poi ha continuato ad essere esponenziale: una filosofia della tecnica rigorosa, traslucida, pungente e immediatamente politica, ma anche il sogno slanciato, coraggioso, irrimediabilmente ibrido e leggero di fare comunità, di stendere reti, di produrre discorsi che incidano nella «società automatica», per disautomatizzarla. Il primo passaggio all’atto, però, aveva funzionato epimeteicamente, scordando qualcosa, ossia dimenticando che l’atto non può essere individuale, bensì sempre collettivo. Così, nel momento in cui la sua filosofia della tecnica decide di passare all’atto politico, incominciano a germogliare nuclei collettivi di senso: l’associazione Ars Industrialis, la scuola di filosofia Pharmakon, e poi i vari progetti territoriali coordinati dall’Institut de Recherche et Innovation (l’IRI del Centre Pompidou) di cui è stato fondatore e presidente. Fino a coinvolgere un’ottantina tra scienziati, filosofi, ricercatori di scienze sociali nel progetto dell’Internation, programma di portata mondiale, rivolto all’ONU come interlocutore, per ripensare l’ecologia, l’economia, la produzione di sapere e le relazioni territoriali alla luce delle immense sfide poste dall’Antropocene e dall’algoritmizzazione della società.

Bernard non è stato solo così grande da incarnare l’individuazione simondoniana, ha avuto anche l’intelligenza di pensare la tecnica attraverso il non pensato dei suoi intercessori (Marx, Husserl, Heidegger, lo stesso Simondon, Foucault, Deleuze e Guattari, Lyotard), e il coraggio di materializzare, economicamente e politicamente, la différance, la traccia e il pharmakon del suo maestro, Jacques Derrida. Pensare la tecnica come «la prosecuzione della vita con altri mezzi che la vita», dove tale prosecuzione è sempre farmacologica, dunque rimedio e veleno per l’individuazione psichica e collettiva, concepire la coscienza come risultato paradossale di un’esteriorizzazione tecnica (il concetto insuperabile di “ritenzione terziaria”), fare dell’inorganico la leva dell’intelligenza e del sapere, diagnosticare il nichilismo e la proletarizzazione generalizzata del capitalismo algoritmico, entropico e demente, per individuarne, non solo una resistenza, bensì una possibile fuga critica e creatrice in avanti, neghentropica, sono solo alcuni dei doni che ci ha lasciato. A noi resta lo sforzo di comprenderli, in profondità, e di farli funzionare, sulla superficie delle nostre esistenze, con l’attenzione con cui, appunto, si maneggia un pharmakon. Insomma, Bernard, perché sia davvero «la prosecuzione della vita con altri mezzi».

Questo articolo è stato pubblicato su Effimera il 10 agosto 2020

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