Su «La Stampa» Mattia Feltri si scaglia contro chi non si attiene all’uso del maschile come neutro. Ma perché questa pratica linguistica proposta dai movimenti transfemministi dà così fastidio? Perché sono soggettività escluse che prendono parola
Nel 1971 il Dipartimento di Linguistica dell’Università di Harvard, in risposta al nascente concetto di lingua sessista, affermò che l’uso del maschile come neutro (in realtà più che neutro è sovraesteso) è un fatto linguistico e non sociale, cioè pertiene alla grammatica e non alla politica. Le critiche a quest’uso del linguaggio da parte della linguistica femminista, e più in generale da parte dei movimenti femministi di allora, sarebbero dovute secondo gli studiosi di Harvard all’«invidia del pronome».
Alcune studenti di linguistica risposero allora in modo molto astuto, non ricorrendo a spiegazioni logiche o teoriche ma attraverso un esperimento: sostituirono l’uso dei pronomi basati sul genere con l’uso dei pronomi basati sulla razza. In questo caso il pronome generico sarebbe quello usato per i bianchi, che è anche casualmente il gruppo sociale dominante. In questo caso la critica proveniente dagli altri gruppi sarebbe legittima? Et voilà, potremmo chiudere qui.
Invece, cinquant’anni dopo, ci troviamo ancora davanti all’articolo di Mattia Feltri «Allarme siam Fascistə».
Riassumo brevemente la genesi di questo articolo: la linguista Manuela Manera pubblica uno screenshot di una nota del testo PostPorno. Corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli immaginari sessuali di Valentine aka Fluida Wolf in cui si spiega la scelta dell’utilizzo dell’asterisco all’interno del suo testo, e, in un caso, l’utilizzo del suffisso non binario U. La scelta dell’autrice e il sostegno della linguista si inseriscono all’interno di teorie e pratiche che da anni vengono portate avanti nel mondo femminista e lgbtqi da chi scrive, parla e traduce.
Senza entrare troppo nel dettaglio poiché ormai la polemica è piuttosto nota, e francamente sfuggita di mano, quello che sostiene ironicamente Feltri nell’articolo è che l’asterisco e la schwa (un simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale che corrisponde circa a una vocale media-centrale), siano di difficile applicazione e siano, in fin dei conti, delle proposte che ha fatto «un’accademica della Crusca» che, come suggerisce il titolo, vorrebbe imporre una dittatura del politicamente corretto. Aggiungo, per completare il quadro, che la persona che nemmeno nomina è Vera Gheno, sociolinguista e autrice di diversi testi sul tema, e che la Crusca ha scritto una lettera a La Stampa per specificare che non è un’accademica ma è stata collaboratrice dell’Accademia e che la Crusca non concorda con l’uso dell’asterisco e della schwa.
Ora, da tutti questi elementi vorrei fare un discorso che pertiene più alla politica che alla linguistica, nella convinzione tuttavia che le due cose non si possano separare. E, più che inserirmi in questo dibattito in via di esaurimento, mi piacerebbe semplicemente utilizzare questa storia come una sorta di paradigma politico.
Molt* prima di me hanno spiegato in modo semplice e chiaro come l’utilizzo dell’asterisco sia un tentativo di rendere il linguaggio più inclusivo, poiché l’uso sovraesteso del maschile (che ricordiamo non è un neutro ma è quel meccanismo per cui se arriviamo a una cena e ci sono sette ragazze e un ragazzo diciamo: ciao a tutti!), è un tipo di linguaggio che esclude alcuni soggetti non rappresentandoli. Se crediamo infatti che il linguaggio, come sosteneva John Austin, sia performativo, ovvero si facciano cose con le parole, non solo si descrivano, e se, come ci mostra Judith Butler, questo è ancor più vero in una prospettiva di riconoscimento e di costruzione dei generi, allora capiamo perché non sentirsi nominat* corrisponda a non avere rappresentazione e al non essere riconosciut* come soggetti.
Non è nemmeno il caso che entri nei principi base della sociolinguistica per cui la lingua non è un oggetto statico a cui ci si deve adeguare ma è un sistema che cambia nel tempo a seconda di quante persone utilizzano una parola e quanto a lungo. La domanda che sta al centro di queste brevi pagine allora è: perché dà così fastidio l’uso dell’asterisco e a chi è che da fastidio?
Partiamo dalla seconda domanda che poi ci porta più facilmente a rispondere alla prima. Dà fastidio a Feltri, che in questa storia/paradigma politico rappresenta il maschio bianco eterosessuale, ovvero chi da sempre detiene il potere di diversi dispositivi tra cui quello del linguaggio. E dà fastidio all’Accademia della Crusca, rappresentante culturalmente legittimata sempre dello stesso potere di cui sopra. Intuiamo allora facilmente perché dà fastidio, perché mettere in discussione l’uso del linguaggio è mettere in discussione l’ordine eteropatriarcale.
Ne L’ordine del discorso, lezione inaugurale che Michel Foucault tiene il 2 dicembre 1970 al Collège de France, la relazione tra linguaggio e potere viene spiegata così: «In ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità». Ovvero: il controllo del linguaggio come dispositivo di potere ha lo scopo di definire chi può parlare e chi no, chi è riconosciuto come soggetto che può parlare e di conseguenza definisce una gerarchia tra i soggetti.
La più evidente di queste procedure di controllo è quella dell’interdetto, ovvero: non può parlare chiunque e non si può parlare in qualsiasi contesto. Secondo principio, ci dice Foucault, è quello dell’esclusione che va ad agire come una partizione (partage) e un rigetto. L’esempio che porta è quello del folle nel Medioevo: certamente può parlare ma alle sue parole non è riconosciuto alcun valore, la sua parola viene considerata nulla perché non è riconosciuto come un soggetto di diritto.
Nella nostra storia/paradigma allora è chiaro che chi governa questi dispositivi cerca di interdire chi vuole parlare in modo diverso, e attraverso queste parole mettere in discussione la norma. I soggetti interdetti sono tutte le donne che non possono essere chiamate architetta, avvocata o tranviera (i cosiddetti nomina agentis, nomi professionali declinati al femminile), chi non si riconosce nel genere maschile o femminile, le sette ragazze alla cena di prima.
Il principio dell’esclusione colpisce chi di queste soggettività si fa portavoce: la mai nominata collaboratrice della Crusca, l’autrice della nota in questione e chi quella nota l’ha postata. Sì certo possono parlare, finchè rimangono nella loro nicchia e parlano tra femministe di questioni di forma che possono interessare solo le addette ai lavori. Peccato però che di nicchia tanto non si tratti e che la questione dell’asterisco non sia portata avanti solo e in prima battuta dalle studiose ma anzi sia una delle soluzioni che negli anni i movimenti hanno proposto, messo in pratica e diffuso. Lo hanno fatto, e lo fanno, parlando nello spazio pubblico, scrivendo testi, traducendo libri.
Tutt’altro che nuova, e tutt’altro che circoscritta al contesto italiano, la questione infatti è messa a tema dai movimenti transfemministi e queer da più di vent’anni, ovvero da quando si è cominciato a ragionare sul binarismo sessuale, sulla sua decostruzione e da quando i primi testi di teorie queer sono arrivati in Italia e necessitavano di una traduzione. Come spiega in modo efficace Laura Fontanella ne Il corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer, la traduzione in questo contesto è stata uno strumento politico messo in atto con approcci collettivi, autogestiti e indipendenti.
Mi piacerebbe allora che non si parlasse tanto di linguaggio inclusivo, perché non c’è nessun club in cui entrare, mi piacerebbe che invece si cominciasse a ragionare in termini di soggettività che che hanno preso parola, che creano un nuovo spazio linguistico non cercando di entrare in quello precedentemente strutturato che ma che lo modificano radicalmente, perché si parte dai corpi e dalle soggettività e non dalla grammatica.
Questo articolo è stato pubblicato au Jacobin il 18 agosto 2020