«Gli anni amari» o della fine dell’innocenza

di Silvia Napoli /
8 Agosto 2020 /

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Andrea Adriatico, cineasta, uomo di teatro, architetto, ma anche polemista, giornalista, documentarista e attivista, nonché drammaturgo e regista residente di Teatri di Vita, con una felice inclinazione pop che lo rende connesso alla realtà anche nei suoi linguaggi più giovani, è certamente personalità da non lasciarsi sgomentare dalle sfide più impervie.

L’elenco dei suoi lavori e delle “genialate” che nel tempo hanno suscitato stupore, scandalo, dibattito o si sono semplicemente rivelati molto avanti rispetto al mainstream potrebbe essere lungo e occupare tutto l’articolo.

Venendo a parlare qui della sua ultima fatica cinematografica, Gli anni amari – un biopic impegnativo e che vanta la produzione Cinemare con Rai Cinema e Pavarotti International 23srl, il sostegno della Direzione generale cinema e il contributo di Emilia Romagna film commission e Apulia Film commission – più che la spigolosità dell’ispirazione narrativa, cioè l’affascinante, controversa e in parte incompresa figura dell’intellettuale e attivista queer, prima che il termine esistesse proprio in virtù del suo teorizzatore, Mario Mieli, sento però la necessità di sottolineare ulteriori aspetti, di una sorta di strutturazione o disegno che l’operare di Adriatico sta assumendo.

Mi sto riferendo alla straordinaria capacità di aver costituito negli anni una sorta di factory informale di attori, professionisti e collaboratori, che fanno squadra e che squadra, come nel film in questione, accettando in modo divertito e perciò efficace di uscire dalle loro stesse modalità espressive abituali, dalla loro stessa formazione per mettersi in gioco e regalarci preziosi cameo interpretativi, perfetti per creare un vivace contesto ambientale alla triangolazione familiare, padre, madre, figliol prodigo che costituisce il simbolico archetipico della vicenda narrata e plausibilmente della tragica vita effettiva del ragazzo Mieli.

Già perché, come numerose interviste rilasciate dal regista ci raccontano il film è anche la storia di un ragazzo, per quanto eccezionale, o larger than life, potremmo dire, inserito e nello stesso tempo, oltre l lo spirito dei suoi tempi.

Quegli anni ’70, tanto frettolosamente prima etichettati come anni di piombo, poi seppelliti quasi con damnatio memoriae nell’inconscio collettivo italiano e che in realtà tanto ci hanno dato e continuano a darci nel bene e nel male, sorta di ferita insanabile, nella quale Adriatico ha iniziato con coraggio, curiosità, umana sintonia, una ricognizione preziosa presumibilmente destinata in parte, a rendere giustizia a figure sottovalutate o rimosse dal discorso pubblico, vittime della Storia o meglio della narrazione che di quella storia si è voluto fare e in parte a trasmettere qualcosa di quella temperie ai più giovani, che in qualche modo non hanno ricevuto per tanti motivi trasmissione d’esperienza. Non ultimo dei quali quella intricata questione della dialettica tra giustizia sociale (proletaria) e sogni bisogni individualistici, forse borghesi, certamente edipici, che spiega tanti dolorosi fallimenti anche personali.

In questo senso, Gli anni amari, che è anche un titolo molto felice a contrasto del cognome Mieli e del vezzo tutto italico di sorbire amari in società, dentro una Milano che se non è ancora da bere, è comunque la più borghese ed europea delle città italiane, colta in esterni notturni che la illanguidiscono come Roma e soprattutto in interni, non aspira ad essere un trattato critica omosessuale appunto, ma piuttosto si rivela un affresco composito sociale in senso lato e molto generazionale in cui tutto trova il suo posto e il suo momento di senso.

Potremmo anche definire il film un documentario narrativo, una docufiction alla anglosassone, insomma, che prende le mosse dai banchi del liceo Parini e ricostruisce filologicamente facce, sguardi, pettinature, per dare un peso corporeo alla curiosità, alla apertura, alle interrogazioni che furono trasversalmente di tutta una generazione, pronta anche a commettere errori, a trascurare il principio di efficienza cosi ben rappresentato dalla famiglia stessa dei tessili Mieli, da cui forse il nostro Mario/Maria non riesce a recidere fino alla fine il cordone ombelicale in un crescendo prima di provocazioni, poi di fasi di disorientamento depressivo e paranoia fino al desiderio di ritorno al grembo materno che solo la Morte può realizzare.

Dicevamo degli interni, ovattati ed eleganti, ma potremmo anche parlare a lungo delle carrozzerie d’auto,o degli apparecchi televisivi del resto, grandi oggetti feticcio dei gloriosi anni del benessere, che impreziosiscono il film e ne sono quasi parte narrativa: interni, un po’ Bergman, un po’ Antonioni,o potremmo dire persino Visconti, in una versione elitaria “gaia”e del tutto rovesciata del proletario Rocco con fratelli, un po’ soprattutto Pasolini di Teorema, con l’Angelo misterioso e svolazzante che è parte integrante del nucleo familiare pur nella sua alterità sfrontata e divertita. La fotografia di Rossetti ammorbidisce in senso pop, pastellato, cogliendo benissimo l’air du temp e rende iconica come un’attrice di Wes Anderson, una Sandra Ceccarelli vibrante di quell’amore materno traboccante ma che spesso, lo possiamo dire?, rasenta l’inutilità e l’incomprensibilità, quando si confonde con la proiezione identitaria.

Il film con puntiglio e intelligenza affronta la mission quasi impossible di render conto di una ricchezza e sfaccettatura di contenuti che teneva tutte insieme pur tra contrasti, fatiche e fraintendimenti, le varie componenti di movimento e di cui Mieli era appassionato e ironico assertore, mettendosi in gioco completamente, gettando insomma il corpo oltre l’ostacolo con tutti i mezzi espressivi disponibili, arte, saggistica, trasmissione televisiva, articolo, poesia, performance teatrale, incursioni flash mob antelitteram. Finché c’è movimento, c’è vita, avrebbe potuto essere il suo motto e sembra di capire che questa percezione di movimento agisse da elisir salvifico rispetto alla percezione di essere forse molto ammirato, discusso, forse anche amato, ma raramente compreso.

Bisogna render onore ad Andrea Adriatico perché con altrettanto puntiglio pedagogico, ma senza alcuna pedanteria, riesce a familiarizzare anche lo spettatore più sprovveduto con una fitta rete concettuale che oggi in parte, è diventata nella sua banalizzazione, anche strumento di lavoro delle rubriche specializzate da rotocalco, sto pensando per esempio al discorso della compresenza di maschile e femminile nella personalità di ognuno di noi. Viene giustamente disvelata quella che fu in effetti l’ossatura di ogni scommessa intellettuale di quell’epoca, un metissage sempre tentato tra marxismo e psicanalisi che avrebbe dovuto sciogliere i nodi di cui sopra.

Possiamo dire che questa partita non è stata certo vinta, ma sicuramente neppure chiusa. Che ha avuto nel suo svolgersi moltissime vittime e martiri, che se la fossero andata o meno a cercare, come sicuramente avrebbe detto il buon Andreotti del nostro Mario Mieli. Cosi avido di vita, come tanti tra i settanta e gli ottanta, magari in seguito falcidiati dalla pandemia AIDS, da rimanerne schiacciato.

Il film di Adriatico riesce anche a sfumare senza occultare gli aspetti più scabrosi estremi e controversi della sessualità perversa e polimorfa, noto cardine del corpus teorico mieliano e a rendere delicatissime più che trasgressive le storie d’amore omoerotico raccontate, enfatizzando anche i possibili aspetti di unitarietà tra lotte per i diritti del movimento delle donne e movimento lgbtqi. Sappiamo anche questo aspetto, che è nella realtà delle cose della teoria, a parer di chi scrive, essere continuamente oggetto di revisioni e distinguo, anche recentemente da più parti. A questo punto bisogna dire che l’intelligenza della regia e della sceneggiatura, firmata da Adriatico con Stefano Casi e Grazia Verasani che compaiono anche in veste attoriale, la bellezza del decor e dei costumi che contribuiscono a chiarire il modo personalissimo di intendere il vestirsi da donna di Mieli al di fuori del travestitismo classico,sottolineando quindi la sua imprendibilità dentro i cliches, non riuscirebbero a rendere tuttavia il film cosi accessibile, accattivante e convincente se non fosse per lui, il protagonista, uno straordinario Nicola Di Benedetto, carismatico attore teatrale e disegnatore di graphic novel al suo debutto cinematografico. Per avere una vaga idea del grandissimo lavoro di costruzione del personaggio,affrontato dal nostro, è sufficiente pescare su youtube qualche videointervista alla neo stella, che nella realtà, da giovane caloroso romano di aspetto mediterraneo, pur molto fascinoso, sembra avere pochissimo in comune con l’autentico Mieli, efebico esponente di famiglia ebraica (e discendente a suo dire di faraoni, non bastasse l’eccentricità complessiva nel suo insieme), nonché cittadino del mondo e poliglotta. Eppure il miracolo riesce e Di benedetto si cala nella sfinitezza fisica, nella dolcezza svagata del soggetto, in quel suo savoir faire come regola di vita che gli permette di attraversare in stato di grazia, con totale pacifismo assertivo qualsiasi provocazione e minaccia fisica o bullismo da destra e da sinistra. Cosi, il nostro Mario Maria fuori dall’osticità di certe tematiche, dalla provocatorietà degli atteggiamenti, se non proprio uno di noi, può diventare comunque una figura cui rivolgere grande empatia e rispetto, non solo intellettuali. Il film distribuito da I wonder pictures, avrebbe dovuto uscire il 12 marzo, in concomitanza con l’anniversario del suicidio di Mieli avvenuto il 12 marzo dell’83, giusto prima di vedere tante brutture milanesi e non solo a venire, ma le note vicende pandemiche hanno fatto annullare il già programmato debutto bolognese in sala. Uscito un po’ in tutta Italia il 2 luglio il film sta andando alla grande. A Bologna, che evidentemente non ha mai portato fortuna al nostro compianto, dalle contestazioni del convegno sulla repressione in poi, il film si è visto nella cornice peraltro splendida dell’Arena Orfeonica, dopo che c’erano state parecchie inopinate difficoltà a trovare adesso una sala e molti episodi di vandalismo contro i manifesti pubblicitari. Si spera in un ulteriore nuovo lancio più avanti.

E si auspicherebbe, ad avere un po’ di coraggio in più una proiezione dedicata agli studenti.

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