“Afro-ismo”. Prefazione all’edizione italiana

di Ippolita /
25 Luglio 2020 /

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[prefazione all’edizione Italiana di Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, di Aph Ko e Syl Ko, recentemente uscito per VandA.edizioni nella traduzione di feminosk]

“Afro-ismo è un testo appassionato e militante, un dialogo serrato fra due sorelle afroamericane che nasce sul web e diventa un libro in cui teoria e prassi si intrecciano. Animalità, animalizzazione, razzismo e supremazia bianca sono alcuni dei temi su cui si articola una proposta politica radicale all’insegna del veganismo nero. Attraverso l’analisi di elementi della cultura pop – video, blog, social network – e l’utilizzo di concetti provenienti dagli animal studies e dagli studi decoloniali, Aph e Syl Ko rivendicano con forza la necessità di sovvertire il dualismo umano/animale, riarticolare la nostra relazione con gli animali e, attraverso ciò, riconsiderare il modo in cui trattiamo la vita intera, arrivando a smantellare il razzismo.

In questo quadro, l’afrofuturismo, che dà una radicale priorità all’immaginazione di chi è oppresso – in una società che si sforza perennemente di distrarci in modo da non darci il tempo di pensare e creare – è la chiave per iniziare un processo di rinnovamento, non più prigionieri dei pensieri della classe dominante.

Un libro di avanguardia rivolto alla generazione millennial. Quella che utilizza il web e i social media per far sentire la propria voce e stringere alleanze politiche significative, come antidoto all’isolamento sociale di chi vive condizioni di oppressione e marginalità, nonostante le manipolazioni delle élite economiche bianche.” (Fonte: Vanda Edizioni)

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Occorre essere grati alla casa editrice Vanda per questa pubblicazione coraggiosa e necessaria. Allo stesso modo è giusto riconoscere alla passione politica di feminoska, la traduttrice, l’aver reso possibile questa operazione culturale: da tempo cercava un marchio editoriale che si rendesse disponibile a far uscire la sua traduzione di questo libro unico e militante. Molto si potrebbe scrivere sui meriti delle traduzioni transfemministe e queer che tra i tanti pregi hanno quello, indubbio, di immettere nei discorsi e nelle narrazioni in lingua italiana contributi altri e fondamentali, a volte veri anticorpi alla sclerotizzazione dei dibattiti nella nostra cultura. E questo libro ne è un ottimo esempio.

Negli ambienti controculturali e in alcune, sparute, aule universitarie da qualche anno si parla di metodo intersezionale e di intersezionalità. Ma fuori da questi ambiti tali concetti non sono molto noti e a volte generano un po’ di confusione. Il libro delle sorelle Ko è un ottimo esempio, invece, di come questo metodo funzioni e sia in grado di fornire chiavi interpretative della realtà e delle lotte, utili ed efficaci. Con almeno due vantaggi in più, una scrittura semplice, diretta, per nulla accademica e il fatto di essere espressione di esperienze vive, a partire dal movimento di Black Lives Matter. La genesi del libro infatti ha inizio proprio nel momento di massima visibilità delle contestazioni statunitensi, e in un primo momento il medium che le sorelle Ko utilizzano è il blog, per rispondere all’urgenza di esprimere le proprie analisi, spesso controcorrente, anche all’interno di quell’ambito. Successivamente però saranno proprio loro ad accorgersi che quel tipo di comunicazione, oltre agli indubbi vantaggi, presenta anche grossi limiti.

Queste difficoltà si fanno via via più ingombranti, dal momento che i ritmi della riflessione teorica e militante mal si adattano a quelli veloci e bulimici del web, soprattutto se veicolano tesi non-conformi e originali[1]. Approfondendo e in parte riscrivendo i testi migliori del blog la riflessione delle sorelle Ko si trasformerà quindi in questo libro.

Tre sono le linee di analisi e di lotta che le autrici incrociano: quella della razza, quella femminista e quella antispecista. Il loro posizionamento è esplicitato da subito, questo è un libro scritto da persone non-bianche e rivolto principalmente a persone non-bianche per contribuire a trasformare punti di vista ritenuti troppo ristretti e parziali.

Ma allora, qualcuno potrebbe chiedersi, perché e soprattutto come dovremmo leggerlo? In realtà è facile rispondere: per lo stesso effetto che la sua lettura può provocare nei lettori afroamericani, un effetto di straniamento perturbante. In più, per la rara possibilità di mettersi fuori dal centro del discorso e osservare e ascoltare chi di fianco a noi prende parola, ascoltare ciò che dice e le sue ragioni. Tutto ciò, oltre a essere un utile esercizio per imparare a fare spazio a chi non ci è immediatamente affine, ci costringe a mettere in pratica uno degli insegnamenti più sfidanti che l’antispecismo contemporaneo condivide con i femminismi e le pratiche decoloniali: deporre la presunzione di essere gli unici depositari di un qualche discorso di valore, o del Discorso e del Valore. Tale “deposizione” implica un essenziale cambiamento di postura che ci permette di scoprirci finalmente fuori dal centro del mondo, ma con la possibilità di mobilitare i nostri privilegi (resi in ultimo visibili) e di indirizzare meglio, quantomeno tatticamente, i vettori delle lotte. Mobilitare i propri privilegi ha a che fare con il renderli produttivi per la comunità e la vita militante.

Perché, come dice feminoska, «il meno indagato dei privilegi è il privilegio di specie»[2]. In questi giorni in cui assistiamo al capitolare giornaliero di centinaia di persone per la pandemia dovuta al Covid-19, è impossibile scrivere senza pensare alla morte di chi ci circonda, dei nostri affetti. La morte, queste morti, ci interrogano. Questa particolare situazione emergenziale porta con sé molte domande, tra le tante una in particolare risuona anche tra le pagine di questo libro: ci sono vite che contano più di altre? Quali sono le vite che contano? E quelle che non contano? O, per dirlo con le parole di Judith Butler, «quali vite sono degne di lutto e quali non lo sono?».

Gli animali da allevamento, soprattutto, sono generalmente considerati indegni di lutto. Vicini a questa condizione sono i migranti che muoiono durante le traversate o in qualche campo di prigionia ai confini dell’Europa. Come ci ricorda Marco Reggio: «L’“umanità” e l’“animalità” sono categorie eminentemente politiche. […] L’appartenenza alla specie umana in senso biologico non garantisce affatto il possesso dei privilegi promessi dalle varie dichiarazioni dei diritti umani»[3].

Di fatto, ciò che questa emergenza ci mostra con estrema evidenza è che le vite non sono tutte uguali e quelle che contano meno sono caratterizzate per appartenere alle linee della classe, del genere, della razzializzazione. C’è chi muore da solo e praticamente senza nome e chi in condizioni abitative difficili o precarie è esposto alla violenza, alla mancanza di servizi di base come l’acqua corrente o alla mancanza di cura. Una condizione che non a caso richiama quella degli animali negli allevamenti.

Ciò che serve è a nostro avviso un effettivo smontaggio dei meccanismi e dei presupposti che danno vita alle gabbie che tengono prigionieri milioni di animali non umani, ma anche un numero sterminato di umani: ex coloni, donne, disabili, migranti, individui variamente esulanti dal binarismo cis-gender, solo per citare alcune categorie di sfruttati/e[4]

Chi o cosa è responsabile? Attraverso quali dinamiche? A fianco delle strategie e pratiche di lotta è sempre importante porsi le domande giuste – e trovare le risposte, perché non di puro esercizio accademico si tratta. E se le autrici di Afro-ismo riescono a indicare dove guardare è pur vero che le punte più avanzate del Movimento di Liberazione Animale che abbiamo avuto modo di conoscere – seppur prevalentemente bianco – sono certamente non-liberal, bensì libertarie, intersezionali e decisamente anticapitaliste. Una prospettiva e un posizionamento quest’ultimo – ci sia permessa quest’unica osservazione – non molto approfondito da Aph Ko e Syl Ko.

Dietro alla naturalizzazione dell’assoggettamento, della violenza e dell’oppressione di vite non umane e non conformi, sullo sfondo della norma eterosessuale e di quella sacrificale[5], si muove un potere che non smette mai di informare dinamiche di dominio, attraverso relazioni tra esseri umani e non umani, viventi e non viventi. Una ragione strumentale – o norma, se si preferisce – che piega il rapporto di alterità al massimo utile e costituisce e assegna valore attraverso questa unica lente.

Particolarmente significativo è dunque il richiamo finale all’afrofuturismo. Il motivo è semplice, è una questione di prospettiva. Quando ti rendi conto che la maggior parte della tua esistenza è costruita sulla menzogna e la violenza specista, patriarcale, capitalista, razzista che ha dato forma al mondo in cui vivi; quando ti accorgi che la maggior parte delle narrazioni e delle teorie di cui ti nutri sono tossiche perché incapaci di mettere in discussione – o anche solo riconoscere – questi pesanti presupposti, allora sei nella condizione di rifiutare, rigettare una cultura e un modo di vivere che non puoi riconoscere come tuo. Una volta fatto, come ci ricordano splendidamente le autrici di questo libro, quello che rimane è moltissimo e potente.

È la chiave per trasformare il mondo, immaginarne uno, inventarlo, dargli la forma che vogliamo partendo dai nostri valori e desideri. Dargli spazio e farlo.

Note

[1] Si veda a questo proposito la parte finale del capitolo “I social sono i defibrillatori digitali del sogno americano”, sul quale, in quanto attivisti digitali, non possiamo che convenire: «È celebre la frase di Audre Lorde: “Gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone”. Bisogna dunque chiedersi: esiste un modo migliore di impegnarsi in pratiche di attivismo senza utilizzare le piattaforme capitalistiche dei social media? In alternativa, è possibile usare queste piattaforme mentre si cerca di smantellarle? Sebbene gli spazi sui social abbiano sicuramente aiutato alcuni afroamericani a spostarsi dai margini al centro a livello di rappresentazione, è davvero il centro il luogo in cui vogliamo collocarci quando rischiamo di essere mercificati e inseriti in un sistema problematico?

Nel suo testo Feminist Theory: From Margin to Center, bell hooks scrive: “Essere al margine significa appartenere al corpo principale pur essendone fuori”. Per anni, le femministe hanno presupposto che nel centro si trovi la liberazione, senza rendersi conto che il centro potrebbe rivelarsi disastroso per i nostri movimenti. […] Forse la rivoluzione è sempre stata al di fuori del corpo principale. Non è giunto il tempo per noi di tornare ai margini, ma alle nostre condizioni, e rilanciare il nucleo radicale dei nostri progetti? Voglio dire: il fatto che vogliamo smantellare la supremazia bianca ma molti di noi non riescono nemmeno a immaginare di eliminare i profili di Facebook e gli account di Twitter suggerisce che potremmo esservi più legati di quanto avessimo immaginato».

[2] feminoska, “Intersezionalità. Di oppressioni e privilegi”, in Sarat Colling, Animali in rivolta, Mimesis, 2017.

[3] Marco Reggio, “Per un antispecismo decoloniale”, in Sarat Colling, Animali in rivolta, Mimesis, 2017, p. 14.

[4] Niccolò Bertuzzi e Marco Reggio, “Introduzione”, in Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale, Mimesis, 2019, p. 9.

[5] Federico Zappino, “Norma sacrificale / Norma eterosessuale”, in Massimo Filippi e Marco Reggio (a cura di), Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, Mimesis, 2015, p. 82.

Questo articolo è stato pubblicato su Effimera il 17 luglio 2020

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