Questi mesi di distanziamento sociale hanno reso evidenti e aggravato molte delle contraddizioni relative alle grandi corporation del web e all’uso e agli effetti delle tecnologie digitali nelle nostre esistenze quotidiane, su cui voi avete scritto in maniera molto lucida negli ultimi anni. Un primo tema su cui vi chiediamo un commento riguarda il ruolo politico, economico, sociale, che hanno giocato e stanno giocando corporation come Amazon, Google, Microsoft, Facebook, Apple, nel periodo del distanziamento sociale e nella gestione sanitaria e sociale della pandemia.
Mentre scriviamo i quotidiani ci dicono che circa 500mila persone hanno scaricato la app Immuni. Interessante notare che a distribuire questa app non sia un sito del Governo che ha finanziato l’operazione, ma gli store di Apple e Google, che sono società private con un fatturato che supera il Pil di molti stati nazione e che hanno delle regole interne spesso in conflitto con quelle delle democrazie occidentali presso le quali nella maggior parte dei casi non pagano le tasse.
Apple e Google, due Big tech, collaborano per la prima volta imponendo delle scelte di decentralizzazione privata sulla distribuzione di un software di Stato dedicato alla salute pubblica. Cosa diranno di ciò i fedayn della decentralizzazione? Per noi questa è la dimostrazione che la decentralizzazione di per sé non è un valore, cioè non è una garanzia di orizzontalità democratica e si sposa benissimo con il liberismo senza regole delle corporation tecnologiche.
I giornali ci dicono 500mila download, ma non lo sappiamo con sicurezza, perché nonostante Immuni sia stata descritta come una misura importante per la nostra salute – la cui percentuale d’uso è discriminante per la sua efficacia – Apple non rende noto il numero dei download. Dimostrazione che non c’è alcuna negoziazione in corso tra multinazionali e Stato, perché nonostante Covid-19 sia una pandemia globale non sussistono i rapporti di forza nemmeno per sedersi a un tavolo di trattative.
L’applicazione sullo smartphone (che deve essere rigorosamente di ultima generazione, pena l’incompatibilità) viene usata come surrogato simbolico della cura e sfrutta il desiderio dei cittadini di entrare in un circuito di assistenza dal quale si sono sentiti abbandonati. Lo stesso nome, “immuni”, di fronte alle migliaia di morti avute nella nostra regione, la Lombardia, risulta di cattivo gusto e rivela l’atteggiamento fideistico con il quale siamo chiamati a rivolgerci alla tecnologia.
In un vostro contributo avete giustamente notato che serve a poco tracciare i malati se poi non si investe in un sistema sanitario pubblico che possa curarli. Più in generale, quali problemi queste App di tracciamento della mobilità pongono alla privacy e alla tenuta stessa della democrazia?
Non è un problema di privacy. O meglio, nell’attuale scenario parlare di privacy comincia a non essere più significativo. La parola privacy ha una sua storia stratificata che prevede l’interazione tra esseri umani, ma cosa succede quando l’interazione è prevalentemente tra esseri umani e megamacchine? Ovviamente gli attori umani non scompaiono dalla scena ma non possiamo nasconderci il fatto che una stessa informazione sia registrata su più server e che di fatto coinvolga un’intera filiera di infrastrutture tecnologiche non cambi, di molto, i pesi. Per questo ridurre tutto a un problema di privacy finisce per essere un po’ fuorviante. Come abbiamo detto altrove, l’app può anche funzionare benissimo tecnicamente e rispettare tutti i parametri necessari, ma resta problematica perché suggerisce l’idea che uno strumento possa prescindere dall’organizzazione sociale, in questo caso dalla sanità pubblica e dalla sua presenza territoriale. La democrazia non è solo un insieme di norme e procedure, ma una relazione dinamica tra forze e soggettività, il problema è che questo spazio relazionale si sta progressivamente restringendo, e sempre di più al posto dei vecchi mediatori ci sono tecno-procedure “gamificate”. Molto ci sarebbe da dire su questo aspetto ma ci porterebbe molto lontano dal tema di cui stiamo parlando.
La privacy è diventata una parola d’ordine che, all’apparenza, tutela i cittadini attraverso disposizioni legislative sempre più complesse. Le grandi imprese della tecnologia digitale sono (almeno sulla carta) in linea con quanto disposto dal regolamento europeo sulla protezione dei dati personali. Questo aspetto rende evidente che privacy e libertà non sono sinonimi, non coincidono necessariamente. Quali sono le principali debolezze delle normative sulla privacy applicate alla tecnologia digitale?
Di quali normative stiamo parlando? Del Gdpr? Se sì allora va detto che il problema non è questa normativa – che di fatto per la prima volta introduce il tema e costringe chiunque abbia un sito web a interrogarsi sull’uso dei dati dei suoi utenti. Per il resto, e sulla scia di Castoriadis, preferiamo parlare di autonomia più che di libertà perché ci sembra indicare meglio il nocciolo della questione. Allora la domanda diventa: queste tecnologie commerciali in che modo sono utili per potenziare la nostra autonomia? Ecco, non sono utili affatto. E il prezzo da pagare per il loro uso è sempre meno sostenibile.
Un tema che agli Asini sta molto a cuore è quello della scuola e, quindi, ora, della didattica a distanza. Le domande urgenti che si pongono a chi lavora dentro la scuola pubblica riguardano le possibilità politiche e culturali che abbiamo per pensare assieme le scelte sui software.
Ci pare evidente che non esistano gli spazi di dibattito pubblico per discutere cosa vuol dire scegliere google o altro come piattaforma d’istituto. La maggioranza di chi lavora o frequenta la scuola non ha il linguaggio né il punto di vista per valutare il senso di una scelta. Dire che la forma di quelle piattaforme determina la forma degli scambi e notare che è necessario sapere come è gestito il flusso di informazioni e dati che ci mettiamo sembrano ideologismi.
Le poche e i pochi che sono in grado di esprimere questa prospettiva finiscono, nel dibattito scolastico, per ammettere che alternative funzionali, piattaforme che permettano di fare didattica in classe virtuale, a software libero, non esistono o se esistono funzionano peggio. Gli si dice che nessuno è in grado di mettere mano in modo cooperativo a quei prodotti migliorandoli e che sono tutte utopie. Abbiamo scoperto che non avevamo una vera cultura digitale nelle scuole e tra poco scopriremo che non esiste nessun discorso civile e politico nella scuola e attorno alla scuola riguardo la natura dei mezzi digitali.
Settembre è già qui, collegi docenti di analfabeti digitali voteranno quale piattaforma d’istituto usare e il gioco sarà fatto. Esistono antidoti? Si può pensare a un movimento di rivendicazioni nei confronti della scuola, dell’università, del ministero, per non delegare la didattica a piattaforme private proprietà di grandi corporation oligopolistiche?
Non tutti possono essere hacker o smanettoni ma ciò significa che siamo tutti passivi? Dove è la via per una alfabetizzazione politica e culturale al digitale? È già troppo tardi?
Se si vuole uscire da queste logiche non ci sono scorciatoie: occorre imparare a autogestire gli strumenti. Che non significa semplicemente scegliere le applicazioni più economiche o gratuite né diventare tutte e tutti ingegneri informatici.
Occorre immaginare, con la complicità di chi ha le competenze tecniche, delle infrastrutture comuni a partire per esempio dalla scuola e farsi delle domande come: “che tipo di dati dobbiamo conservare e quali invece sono superflui? Chi può accedere alla nostra rete e come?”. Anche in un’ottica ecologica e anche con l’aiuto delle persone studenti perché l’esperienza democratica è appunto un’esperienza di complessità dove la componente etica e tecnica si parlano in uno spazio politico.
La pedagogia ha sviluppato antidoti solidi alla riduzione della formazione a mera erogazione di contenuti. La battaglia da compiere è proprio quella di non ridurre la scuola a logistica. L’antidoto sarà di nuovo politico, nessuno strumento ci salverà come fosse una bacchetta magica.
Certo ci sono alcuni problemi materiali di cui la scuola pubblica dovrà farsi carico, per non lasciare indietro nessuno. Mettere quindi a disposizione l’hardware e la connettività laddove sarà necessario è una priorità, ma il problema non può essere ridotto solo a una questione di accesso.
Le alternative su software libero esistono e sono efficaci. Moodle è una di queste, per le videoconferenze Jitsi è una valida alternativa e diversi server in Italia hanno implementato il servizio a scopi educativi come ad esempio il Garr. Ma anche qui non sarà uno strumento a salvarci.
La questione da affrontare sarà quella dell’autonomia della scuola per tutelare i dati di studenti e docenti. Appoggiarsi a piattaforme libere e open source implica che le scuole inizino a costituire server autonomi in cui tenere le banche dati, ma anche capire quale sia il portato e la responsabilità di gestire i dati di una comunità di persone. La comunità politica degli hacker italiana ha più volte preso posizione in questo senso e per esempio il collettivo Autistici/inventati, ha una gestione dei dati di chi accede ai loro servizi che risulta ancora sorprendentemente radicale e potente se rapportata al fatto che quelle policy sono state sviluppate più di vent’anni fa. Non tutti gli operatori del mondo del digitale hanno questa consapevolezza. Iniziare a collaborare con quella parte della comunità hacker che ha saputo costruire un pensiero etico e politico potrà portare a una nuova fase, volta alla creazione di autonomia dai dispositivi panottici sui quali il capitalismo del controllo ha costruito il proprio asse portante negli ultimi quindici anni.
Creare una sinergia fra pedagogia e hacking consentirà di costruire una comunità educante a partire da esigenze e gesti che sono ormai all’ordine del giorno di tutte e tutti. Sarà terreno fertile per sviluppare riflessione, distribuire ricchezza, scambiare competenze; pedagogia e hacking hanno molto in comune e possono arricchirsi tanto a vicenda, è davvero arrivato il momento.
Anche l’hacking ha da imparare dalla pedagogia radicale. Digitalizzare la scuola fino a prima della pandemia significava introdurre tool pseudo-avanguardistici come la lavagna digitale o il registro elettronico, ma questo approccio strumentale è estremamente superficiale. Pensare l’individuo e la collettività in rete è una sfida per molti di noi e abbiamo bisogno di chi ha già posto tante domande e trovato formule antiautoritarie, decoloniali, antisessiste e queer alla formazione dell’individuo e dell’individuo nella collettività.
Per affrontare meglio la questione della didattica a distanza stiamo pensando a una Scuola estiva su pedagogia critica e tecnologie digitali, dove provare a condividere i saperi tra discipline diverse per vedere se è possibile meticciare le pratiche. Ovviamente speriamo possa avere un approccio “blended” (parola che ci stanno ripetendo a sfinimento i dirigenti nei luoghi in cui lavoriamo), che significa alternare, ove possibile, la parte in remoto con quelle in presenza. Ma miscelare naturalmente non basta, occorre saper gestire tempi e ritmi della lezione, che on line sono molto più faticosi, avere una persona che gestisca l’aula virtuale con la sua particolare cornice logistico-relazionale aiuta enormemente. La docenza deve poter essere libera dalle incombenze emotive e tecniche del contesto per concentrarsi sulla propria voce.
A ottobre di quest’anno uscirà il volume Insegnare a trasgredire di bell hooks per la nostra collana di libri dedicata alle culture radicali edita da Meltemi. Portare in Italia il lavoro pedagogico e politico della hooks rappresenta un passo decisivo per confrontarci con le giovani generazioni non bianche che affolleranno le nostre aule scolastiche.
Per noi insegnare a trasgredire significa in particolare insegnare a mettere in discussione la norma tecnologica, spogliarla della retorica progressista e delle sue promesse di ricchezza condivisa.
Dietro al falso egualitarismo delle piattaforme si nasconde una profonda discriminazione di classe le cui implicazioni cognitive dobbiamo ancora pienamente comprendere, il compito di chi è chiamato a insegnare cultura digitale è anche quello di far emergere il conflitto sopito dai dispositivi.
La scuola non sono solo gli insegnanti, sono soprattutto le ragazze e i ragazzi. Esistono luoghi e modi in cui gente dai 12 o 15 anni in su possa iniziare a pensare e capire? Magari partendo dai videogame: il lascito del virus tra i giovanissimi sembra essere un incremento di uso – se non della dipendenza – dei videogiochi. Esistono ancora quelli cooperativi che modificano e costruiscono progressivamente comunità mondiali di gamers? Quella potrebbe essere una porta?
Non siamo convinti che la porta debba essere necessariamente quella dei videogame. Il gaming non è più un fenomeno generazionale, non riguarda più solo i più giovani. Alcune fasce d’età sono più coinvolte di altre, ma in generale questo scenario è talmente variegato e composito che risulta difficile dire qualcosa di unitario e sensato. Entrare nello specifico meriterebbe un’intervista a parte. Qui vale la pena di ricordare che il videogioco è certamente intrattenimento e socialità, ma è anche un prodotto culturale a tutti gli effetti – e così andrebbe trattato. Purtroppo questo aspetto corre sempre il rischio di essere sottovalutato forse perché buona parte di chi detiene il monopolio dell’informazione mediatica non è in grado di comprendere il fenomeno, con il risultato di propagandare spesso una visione distorta dei videogiochi. D’altra parte, il fatto che esistano videogiochi cooperativi e multiplayer non significa necessariamente che siano luoghi safe o eticamente predisposti, a volte possono essere ambiti di crescita dell’alt-right o dar vita a situazioni estremamente competitive e che implicano investimenti economici consistenti. Altre volte invece, a seconda dei contesti e delle piattaforme, si possono sviluppare comunità più inclusive.
Come ci ricorda Marta Palvarini, game designer e autrice di Fuori dal Dungeon. Genere, razza e classe nel gioco di ruolo occidentale (Asterisco edizioni 2020), con cui collaboriamo: “il problema qui non è l’alt-right o infiltrazioni varie, ma il sistema alla radice di questi giochi, che si costruiscono come perfetti strumenti capitalistici, con trainer a pagamento per salire a livelli più altri (‘rankare’), vendita di oggettistica virtuale per i personaggi, pagata con soldi veri, e la ricerca spasmodica della ‘vittoria finale’, che porta a una vera forma di dipendenza non dissimile al gioco d’azzardo in alcuni casi”.
Più in generale, che spazi di azione abbiamo a livello politico? Siamo tra due distopie: quella del controllo totale del digitale e dei dati da parte dello stato (modello cinese) e quella delle poche enormi corporation private che usano i dati a fini di profitto (modello occidentale). Quale è la possibile via per i movimenti di cui facciamo parte, e per la tenuta della democrazia?
Per capire quale spazio di azione possiamo avere è bene comprendere che le due distopie che citi sono la stessa cosa, dal punto di vista della delega sociale e tecnocratica. Ci sembrano diverse perché sono differenti i regimi politici; in entrambi opera però la medesima forma di potere tecnico. La ragione strumentale che dispone le infrastrutture tecnologiche è la stessa. Inquadrandolo così, il problema acquista maggiore chiarezza.
Voi sostenete che non esistono tecnologie di controllo che possano essere anche etiche, che l’etica non può essere incorporata in alcuna tecnologia, ma solo nelle relazioni e nell’esperienza. Dobbiamo quindi rassegnarci a una tecnologia-non-etica? Oppure è immaginabile una tecnologia che nasca dalle relazioni e sia quindi più prossima alle comunità e ai loro bisogni, che sia “conviviale” nel senso che Ivan Illich ha dato a questa parola?
È il controllo in sé a non essere etico, perché esclude qualsiasi forma di rapporto di fiducia. Mi fido del controllo perché non mi fido dei miei pari. E quindi mi deresponsabilizzo. Siamo di fronte all’ennesima forma di delega: se accetto il controllo perdo la mia capacità di agire responsabilmente costruendo relazioni. Ancor più nel suo subdolo insinuarsi nella nostra emotività seguendo il solito ritornello securitario. L’etica emerge da pratiche condivise, non c’è niente di condiviso e co-costruito nella delega agli strumenti di controllo, che sia politico, commerciale, eccetera. Ed è per questo che le tecnologie digitali vanno considerate come veri e propri soggetti con cui entriamo in relazione. Proviamo a conoscerle, a capire come si relazionano a noi e quanto sono disposte a cambiare per riequilibrare la relazione. Se le immaginiamo come dei soggetti incarnati forse questo esercizio risulta più semplice e fa emergere davvero l’importanza della relazione.
Questo articolo è stato pubblicato su gli asini il 19 giugno 2020
Foto di copertina, “Travestimento 1975-1980 di Marialba Russo (particolare)