Black in Italy

25 Giugno 2020 /

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di Djarah Kan, Espérance Hakuzwimana e Oiza Q. Obasuyi

Tre giovani afroitaliane discutono di Black Lives Matter e di come praticare un antirazzismo che arrivi al cuore delle contraddizioni e della specificità italiane.

Djarah Kan, Espérance Hakuzwimana Ripanti e Oiza Q. Obasuyi sono giovani attiviste antirazziste afroitaliane e working-class. Hanno deciso di far sentire la propria voce sulla mobilitazione antirazzista internazionale, che ha preso piede anche in Italia, in seguito all’omicidio di George Floyd. Da una prospettiva situata, ovvero a partire dall’esperienza vissuta del razzismo, eppure da contesti culturali e sociali diversi tra loro (rispettivamente Napoli, Torino e Ancona), le tre attiviste raccolgono l’attuale interesse generale verso il tema del razzismo, per proporre i concetti e le critiche necessarie a un antirazzismo sostanziale, in grado di leggere le specificità del contesto italiano. Una versione più ampia di questo dialogo è andata in diretta fb dalla pagina di Djarah Kan il 15 giugno 2020. La trascrizione è di Marie Moïse.

Djarah. Oiza, ci fai un riassunto di quello che è accaduto in queste ultime settimane?

Oiza. Le vicende negli Stati uniti hanno avuto rilevanza globale e prodotto un risveglio del dibattito internazionale sul razzismo. Allo stesso tempo abbiamo visto un trattamento del caso di George Floyd come se si fosse trattato della prima vicenda di questo tipo, eppure episodi di violenza basati sul racial profiling in realtà avvengono di continuo. La risposta che si è generata in seguito alla morte di George Floyd è sicuramente positiva in termini di risveglio delle coscienze, ma allo stesso tempo è arrivata un po’ in ritardo e ci ha sorpreso per l’ampiezza dell’interesse che ha sollevato qui in Italia e la portata delle manifestazioni che ci sono state: occorre un omicidio di una persona nera negli Stati uniti per renderci conto di cosa accade in italia? Le piazze allo stesso tempo sono state definite dai giornali come «piazze per George Floyd» e ridotte nella loro complessità che faceva emergere le connessioni tra quanto accaduto e i problemi del razzismo in Italia: la cittadinanza, lo ius soli, lo sfruttamento dei migranti, il microrazzismo quotidiano. Ad ogni modo, quello che è successo ha aperto uno spazio di ascolto. Sarà solo un momento?

Djarah. Tu come la vedi, Espérance?

Espérance. La quarantena mi ha reso probabilmente più cinica e ho vissuto queste settimane con diffidenza. La mia sensazione è che ne siamo usciti più ipocriti di prima. Quando sono scesa in piazza a Torino la scorsa settimana, una piazza pienissima con più di duemila persone, mi sono interrogata. Io due anni fa in quella stessa piazza ero lì con la paura nel cuore: il 3 febbraio 2018 Traini aveva  fatto l’attentato a Macerata, e per me quello era stato un punto di non ritorno. Ho pensato: io non posso vivere con la paura in un paese in cui devo affrontare ogni giorno qualcosa di così grande che non posso cambiare. Allora mi sono rivolta alla piazza e ho domandato: dove siete stati tutto questo tempo? Anche io da piccola non avevo gli strumenti per comprendere, me li sono costruiti nel tempo, ma a partire dal 2018 ho deciso di iniziare a lottare. Non penso che si debba lottare necessariamente con cartelli e megafoni, ma l’onestà intellettuale per me è imprescindibile. Tra qualche mese saremo ancora in piazza? Io sto dalla parte delle piazze, ma la battaglia per me va avanti per tutta la vita. Quando ho le forze scendo in piazza, quando mi mancano devo dedicare le poche che mi restano a proteggermi. Chiedo allora a chi è sceso in piazza in questi giorni di esserci anche quando io non avrò le forze. Nel prossimo weekend ci saranno altre piazze, e sto ascoltando anche tantissime voci di afrodiscendenti. Che effetto uscire nel centro di Torino e trovarmi in mezzo a così tanti neri!

Oiza. Sì, per la prima volta abbiamo preso parola senza il filtro del maschio bianco. Ogni volta che si parla di razzismo o donne nere, tendenzialmente i dibattiti li fanno persone che nere non sono, e che prendono il loro posto; è quello che chiamiamo antirazzismo wannabe. Persone che si sentono «arrivate», eppure hanno tanto da imparare: imparare ad avere a che fare con delle storie molto diverse tra loro. Noi tre stesse abbiamo storie molto diverse l’una dalle altre.

Djarah. La pluralità delle esperienze nere italiane è un punto fondamentale, prendiamo atto che il ventaglio è molto variegato, le radici comuni nel razzismo e nel sessimo ci sono ma prendete ad esempio la realtà di una nera a Torino e una nera a Napoli o Ancona: vivono situazioni diversissime.

Espérance. Persino all’interno dello stesso territorio emergono differenze. Nella stessa provincia di Brescia dove sono arrivata io, i neri di quel territorio non hanno affatto una stessa visione. Quando avevo 16 anni, io mi sentivo uguale agli altri neri, ma loro provavano a ricoprire lo stereotipo di quello che ci si aspetta da un Nero, e per fuggire da questa cosa ho dovuto prenderne le distanze. E ancora oggi anche tra gli adulti vedo ripetersi certi schemi, e mi capita di sentirmi isolata per questo.

Djarah. Si perché oltre alla questione razziale, c’è anche una questione di classe. Tra me che sono figlia di proletari e una nera piena di soldi, o tra me comunista con una nera liberal c’è poco in comune…

Oiza. L’antirazzismo come il razzismo è legato alle questioni sociali. C’è chi dice: io ce l’ho fatta, sono self-made, perché dovrei occuparmi della condizione dei braccianti? Per esempio, abbiamo un senatore nero in uno dei partiti più improbabili che ci siano. Per me è sbagliato ridurre la questione al fatto che è anche lui è nero. Perché il problema va smontato sul piano sociale. Il colore della pelle non è un colore politico. I neri sono esseri pensanti con visioni politiche. Per quanto il colore della pelle è stato associato a determinate condizioni sociali, in una società diversificata può succedere che una persona nera voti a destra. Io sono di sinistra perché mi riconosco in certe idee non perché sono nera, e dare per scontata questa associazione significa ancora una volta spersonalizzare i neri.

Djarah. Espérance, il modo in cui le vicende sono narrate conta molto, perché crea immaginario. Tu sei una scrittrice. Come hanno parlato secondo te i media delle vicende di questi giorni?

Espérance. Per me le parole sono la vita, io ho scelto di dare la mia vita alle parole. Ma quello che ho visto è stato spesso un ridurre tutto sempre al colore. Una giornalista mi ha intervistato e nel desiderio di pubblicare qualcosa rapidamente, oltre a sbagliare il nome dell’organizzazione che aveva convocato la manifestazione, nell’articolo mi ha definito «scrittrice sopravvissuta al genocidio del Rwanda». Ecco, quando mi descrivono come una sopravvissuta e non si fermano all’essere scrittrice è avvilente, perché loro continuano a metterci in questo riquadro e noi non possiamo uscirne. C’è sempre un trafiletto che spezza il tuo operato, la persona che sei, e limita la tua identità. Io sono tante altre cose oltre che nera, ma qui ti chiamano a fare le interviste solo perché hai quel colore della pelle. Non gli interessa se hai delle cose da dire. Mi chiedono sempre di scrivere la stessa cosa – cosa significa essere neri. Non posso pensare che tra dieci anni sarò ancora lì a scrivere di questo. Noi comunque andiamo avanti a prendere parola, abbiamo spesso alzato la voce nei modi che ci erano possibili. Nei modi e con le risorse che avevamo a disposizione che, va detto, sono pochi. Eppure lo facciamo perché è una battaglia imprescindibile. Per me è stato importante prendere parola in quella piazza e parlare con gli altri, condividere. A partire dalla premessa che non ho risposte, ma ho un’esperienza. Non sono laureata, ma la mia esperienza può aiutare a far venire dubbi. Ma questo non significa che io ti debba dare risposte. Non voglio imboccare nessuno, non ho tempo né voglia e non è il mio ruolo. Ma tu che mi poni il quesito, prendila come una fortuna che siamo qui disponibili a parlare, siamo tra le prime che lo stanno facendo in italiano, in maniera accessibile, perché un anno fa parlare di white privilege generava disorientamento…

Djarah. La white fragility! Ogni volta che tentavamo di usare un termine specifico, la reazione era sempre: è razzismo al contrario. Che poi, a proposito: cosa vuol dire razzismo al contrario?

Oiza. La storia del razzismo al contrario viene fuori come risposta ogni volta che si parla di razzismo. Allora per forza ci deve essere una reazione: anche a me un nero una volta mi ha guardato male… La differenza è che quando parliamo di razzismo come problema stiamo parlando di razzismo sistemico, strutturale, sociale, che una maggioranza agisce su una minoranza. Il razzismo che subisce chi è sottoposto a leggi come la Bossi-Fini, le leggi sulla cittadinanza… E queste leggi non funzionano al contrario. Il fatto che uno non se ne accorga è già sintomatico del problema: vuol dire che hai la fortuna di non accorgertene.

Espérance. O il privilegio di negare.

Djarah. Io sono italo-ghanese del Sud Italia e anche la questione del razzismo qui ha radici nella questione meridionale: le carenze nel sistema scolastico e sanitario per esempio, territori dove si muore per tutto, sono alla base di una condizione di vita, ben diversa da chi vive al Nord.

Oiza. A Milano invece abbiamo visto in piazza noti influencer, che non avevano mai parlato di razzismo prima d’ora. Ci sono persone che hanno sfruttato il momento per farsi belli e ottenere più follower. E questo mi fa capire il distacco dalla realtà che c’è. Persone che hanno partecipato e voluto farsi vedere nelle vesti di partecipanti, senza aver mai toccato l’argomento. Ma penso anche a chi lavora con i brand: sarà una lotta continua, o è un trend passeggero? È interesse reale quello che vediamo o esterofilia perché la cultura afroamericana vende? Ma la questione afroamericana sono anche le persone costrette a prendere casa solo nei luoghi dove c’è inquinamento, secondo una logica di razzializzazione dei quartieri. Il modo in cui la stampa ha trattato l’argomento è stato molto superficiale, senza problematizzare la cornice capitalista che fa soccombere le minoranze. E senza comprendere che se c’è un dipartimento di polizia in fiamme non è vandalismo, è un atto politico.

Djarah. Per non parlare di Martin Luther king, decontestualizzato, fatto passare per pacifico, nonostante sia morto ammazzato. Ad ogni modo oltre a Luther King va letto Malcolm X e le Pantere nere per capire come contestualizzare. Il problema è anche a sinistra, spesso c’è un atteggiamento che sembra volerci riempire della loro conoscenza su come si fa una lotta di classe per battere il razzismo, per esempio… Forse anziché pontificare sulla violenza delle proteste se ne dovrebbero comprendere le ragioni in secoli di diritti negati e nei morti di Covid-19, in grande maggioranza neri perché impiegati nei lavori essenziali e senza tutele, senza scelta. Il Corriere della sera è arrivato a pubblicare un articolo sul perché in Italia ci fossero pochi neri in terapia intensiva, dando adito a ipotesi su presunti «super geni» dei neri ignorando il fatto che la maggior parte delle persone nere in italia ha difficoltà ad accedere al Sistema sanitario nazionale. È stato davvero il colmo perché pur di costruire supposizioni si è sfociato nel razzismo scientifico.

Espérance. Ho riflettuto attorno all’estetica e allo sguardo. Il giornalismo si è buttato molto sull’impatto delle immagini: ad esempio tutto il dibattito che c’è stato attorno all’immagine del dipartimento di polizia in fiamme è stato esemplare. Anche la morte di George Floyd è arrivata in maniera violenta, per via «estetica»: l’impatto delle immagini. Io non sono riuscita a guardare le immagini della sua morte, la vita che faccio mi basta, però l’impatto che ha avuto lo sguardo in quel caso mi ha fatto ragionare sul distacco che ho capito di avere io stessa nei confronti degli altri neri, più poveri, appena sbarcati. Ho raccontato nel mio libro della mia esperienza in un mondo tutto bianco convinta di fare del bene. Una volta, fuori dal supermercato del paese c’erano i venditori di accendini ambulanti e mia madre adottiva mi disse di non parlare con loro «perchè sono neri». A undici anni vi potete immaginare cosa può avere innescato una frase del genere in me che cercavo risposte a mille domande. Da lì ho iniziato a notare le differenze e le immagini sui giornali. Ma non riuscivo a riconoscerli. Eppure in quel mio disconoscimento c’era sofferenza, e c’è stato bisogno di un percorso per riuscire ad avvicinarmi, a comunicarci. Essere antirazzisti per me è un percorso costante e continuo. E non smetterò mai di imparare, perché non basta essere neri per essere antirazzisti.

Djarah. Si perchè non è facile crescere in Europa, senza che ti cresca dentro quel demone, il demone del contesto razzista in cui sei cresciuto. Il lavoro che facciamo è volto a ricucire identità e allo stesso tempo una lotta continua con noi stesse.

Oiza. Non c’è dubbio che noi siamo più privilegiate dei neri che si trovano nei centri di accoglienza. E va riconosciuto. Anche io prima ero schierata solo nella lotta per lo ius soli, senza curarmi di ciò che faceva l’allora ministro Marco Minniti e della legge Bossi-Fini. Ma poi mi sono resa conto che la cittadinanza non mi sarebbe bastata. Non accetto che leggi obsolete e razzializzanti creino asimmetrie in base al passaporto che hai in tasca e ci sono leggi sul piano europeo e italiano che devono cambiare. Perché uccidono. Ci sono persone che devono rischiare di morire per arrivare in Europa. Io cittadina italiana sono sicuramente privilegiata rispetto a chi parte da una costa per arrivare qui con il rischio di morire. Noi siamo anche più «apprezzate» perché parliamo bene italiano, a dispetto di migranti arrivati da meno tempo. E ci dicono «tu sei diversa», mentre schifano loro.

*Djarah Kan, nata nella provincia di Caserta, vive a Napoli è una scrittrice e cantante italo-ghanese. Attivista culturale, è coautrice dell’antologia Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (Effequ 2019). Espérance Hakuzwimana Ripanti è nata in Ruanda e cresciuta in provincia di Brescia, oggi vive a Torino dove frequenta la Scuola Holden. Attivista culturale, conduttrice radiofonica, fa parte del comitato Razzismo brutta storia. Co-autrice di Future (Effequ 2019) e autrice di E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana (People 2019). Oiza Q. Obasuyi, nata e cresciuta ad Ancona, è di origine nigeriana. Laureanda in Global Politics all’Università degli Studi di Macerata. Collabora con The Vision e si occupa di relazioni internazionali, migrazioni e diritti umani. 

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 19 giugno 2020

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