Femminismo e pensiero come desiderio. Intervista all’antropologa Rita Segato

7 Maggio 2020 /

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di Marta Facchini e Irupé Tentorio 
Per l’autrice di “Las estructuras elementales de la violencia” e “La guerra contra las mujeres”, in America Latina la riflessione intellettuale è intensa e d’avanguardia perché cerca di spiegare i cambiamenti storici che attraversano il continente. A partire dai movimenti delle donne.
“In America Latina la storia si dà come tragedia. È intensa e dolorosa, come il pensiero che prova a elaborarla. In Europa non succede più”. Mentre parla, l’antropologa Rita Segato passa in rassegna gli eventi che nell’ultimo anno hanno attraversato il suo continente: i movimenti delle donne e la battaglia per l’aborto legale, libero e sicuro in Argentina, dove vive; il golpe contro il governo di Evo Morales in Bolivia e le proteste contro il governo di Sebastian Piñera in Cile. Segato, ricercatrice e professoressa emerita dell’Università di Brasilia, è una delle più lucide intellettuali del continente latinoamericano. Ha riflettuto sistematicamente sulla violenza di genere, la sua origine e il suo radicamento nelle società in testi come “Las estructuras elementales de la violencia” (2003) e “La guerra contra las mujeres”  (2016). La sua analisi è iniziata negli anni Novanta con una ricerca sui detenuti condannati per stupro nel carcere di Brasilia ed è proseguita con i femminicidi a Ciudad Suarez, in Messico. È stata interpellata come esperta di genere in Guatemala nel processo che per la prima volta ha condannato i membri dell’esercito per i crimini di schiavitù sessuale e violenza domestica contro le donne maya del gruppo etnico Q’eqchi, riconoscendo la responsabilità dello Stato. Per Segato il femminicidio è espressione e strumento di una “pedagogia della crudeltà” in cui la violenza di genere riproduce simbolicamente le gerarchie di potere.
Lei ha parlato di violenza di genere come di un “sintomo della società”. In America Latina sono state approvate leggi per tutelare le donne e le minoranze sessuali eppure i femminicidi aumentano. Perché?
RS Non c’è una sola ragione, dipende dai singoli contesti. Ma una delle cause principali, a mio parere, è la precarizzazione e gli effetti che ha sulla vita e sull’idea di mascolinità. Qui si può incappare in un errore: alcune analisi suggeriscono che sia stata l’emancipazione delle donne a rendere gli uomini più fragili, che poi reagiscono con violenza, ma questa non è la mia posizione. La loro precarietà dipende dalla precarietà della vita, che a sua volta è causata da una precarietà economica. Oggi si ha un lavoro, domani non più. Quello che indebolisce gli uomini, e che li rende impotenti, è la mancanza di lavoro, la difficoltà di accedere a forme di welfare, l’indebolimento dei legami familiari. Un contesto che fa vacillare l’idea di virilità, per cui l’uomo deve essere forte e potente. Come conseguenza, la mascolinità agisce per mostrare una potenza che non possiede più e che non può più esercitare.
Parliamo di violenza contro le donne e di mezzi di comunicazione. I media come affrontano la violenza di genere?
RS
I media rendono la violenza uno spettacolo. Accade sia perché non sono in molti a cercare un’informazione approfondita sia perché il numero di lettori che un giornale riesce a ottenere dipende anche da quanto la notizia è resa attraente. Inoltre, vedo nei media la tendenza a riflettere il senso comune. Si vede, per esempio, quando si presenta la violenza di genere come un problema minore o un delitto di importanza secondaria. Succede perché è una questione che attiene a una minoranza che viene relegata a una posizione di marginalità. Ma questo è un problema. Credo poi che il sentire comune sia ripreso anche dal giudice, che non ha cambiato la prospettiva con cui si rivolge alla violenza contro le donne. Penso allo stupro de La Manada in Spagna (con La Manada, il branco in spagnolo, si fa riferimento allo stupro di gruppo subito da una ragazza di 18 anni nel 2016 a Pamplona commesso da cinque uomini tra 19 e i 29 anni, ndr). In un primo momento, i ragazzi autori della violenza sessuale sono stati condannati solo per abuso sessuale, che è un reato minore. Il verdetto dei giudici ha avuto una risonanza globale. Durante il processo, i giudici avevano chiesto alla ragazza violentata se si fosse difesa. Come avrebbe potuto farlo? La Manada è un caso di come sia interiorizzato il senso comune di una società patriarcale.
In Cile durante i mesi di protesta contro il governo di Sebastian Piñera, il collettivo di artiste Las Tesis ha scritto il testo “Un violador en tu camino” (Uno stupratore sul tuo cammino, ndr) basandosi sulle sue teorie sulla violenza contro le donne. Le prime righe della canzone affermano: “Lo stupratore è la polizia, il giudice, lo Stato, il presidente”. Il testo ha avuto una risonanza mondiale. Perché?
RS
Si tratta di un fenomeno straordinario che merita di essere studiato. Sono versi di una potenza impressionante. E si sono diffusi a modo loro senza i canali di comunicazione tradizionali. Con i loro mezzi, con il passaparola, tra le persone. Non sono nemmeno stati trasmessi sui canali tradizionali, almeno in Argentina. La loro potenza e risonanza in tutto il mondo credo sia dovuta al fatto che la parole codificano un messaggio più profondo. C’è un primo discorso di superficie e un secondo nascosto. Altrimenti non avrebbe ottenuto questo risultato. Il testo sottolinea che lo stupro è un atto politico e di potere: chi stupra è l’autorità, il giudice e lo Stato. Un atto di disciplina che vuole ricollocare le donne nella dimensione del corpo.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le manifestazioni e le proteste dei movimenti delle donne in America Latina. Il femminismo latinoamericano ricopre un ruolo d’avanguardia?
RS
Il protagonismo delle donne nelle marce in Argentina, Cile e Messico mostra che il vento della Storia sta soffiando sul nostro continente. In Europa non accade lo stesso perché c’è una perdita della pulsione intellettuale intesa come desiderio. Dopo l’affermazione della forma di produzione capitalistica, i grandi intellettuali europei che hanno pensato lo Storia come tragedia si sono fermati e hanno impoverito le categorie del loro pensiero. In America Latina non succede perché la vita è intensa e dolorosa. Ma la tragedia si capisce e si spiega solo se si inizia a pensare. Ed è necessario farlo. Ovviamente anche in Europa si soffre ma non come da noi. I pensatori del Vecchio Continente hanno smesso di riflettere sulle fratture della Storia. Non si pongono più domande perché pensano di avere già le risposte.
Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 6 maggio 2020

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