di Loris Campetti
È difficile coniugare due termini come ‘distanziamento sociale’ e ‘sindacato’. Fin dagli albori, sindacato è stato sinonimo di condivisione, fisicità, assemblee, cortei, carezze persino, strette di mano. Oggi tutto diventa virtuale… «Non tutto, gli operai costruiscono oggetti reali con le mani insieme ad altri operai in carne e ossa e i delegati che li rappresentano parlano con loro, stanno vicini fisicamente sia pure a uno o due metri di distanza con la faccia bendata. Il resto viaggia in rete, su Skype o su Whatsapp e in rete si costruiscono percorsi, protocolli, scioperi per rivendicare il rispetto delle regole su sicurezza, salute, diritti. Anche al tempo del Covid-19». Con Francesca Re David abbiamo discusso di come si fa sindacato nella pandemia.
Come vive queste condizioni la segretaria generale della Fiom?
Non avrei mai pensato di vivere e lavorare in una situazione inedita come questa. Non si tratta più solo di difendere le condizioni ma la vita stessa dei lavoratori, per ridurre al minimo i pericoli nel lavoro e nel trasferimento da casa al lavoro. Si pensi alla contraddizione di dover lottare per tener chiuse le fabbriche dove non si producono beni essenziali o dove non si può ancora lavorare in sicurezza, noi che abbiamo sempre lottato per tenerle aperte, le fabbriche. Consapevoli che è a rischio il futuro occupazionale, ma prima viene la salute, la vita dei lavoratori e dei cittadini. La distanza è un problema per chi fa sindacato, ma abbiamo imparato a utilizzare strumenti nuovi. Io faccio più riunioni di prima, sono cambiati la percezione e l’uso del tempo, non ho sabati né domeniche, a ogni giorno ne segue un altro. I problemi nel lavoro sono aumentati e le soluzioni vanno inventate di volta in volta con i delegati e i lavoratori. I delegati sono soli nel rapporto con gli operai e le imprese, è fondamentale che sentano vicini e attivi i loro gruppi dirigenti. C’è bisogno più di prima di sentirsi, ora che manca la possibilità di toccarsi.
C’è chi equipara il virus a una guerra. Quando pensate di aver vinto una battaglia e quando di averla persa?
Non mi piace la metafora della guerra perché odio la guerra. Dico solo che chi spinge per riaprire subito tutto mettendo al centro mercato e profitti non ha capito niente. Vinciamo se facciamo lavorare le persone in sicurezza. Come sindacato abbiamo fatto l’impensabile nella costruzione dei protocolli per lavorare dov’è indispensabile, frenando le pressioni talora indecenti degli imprenditori abbiamo imposto la nostra presenza in ogni trattativa con governo e controparti. Con orgoglio considero che l’Italia è l’unico paese in cui il sindacato ha imposto la chiusura di aziende non in regola con i protocolli, l’unico paese in cui a decidere aperture e chiusure non sono i soli imprenditori, costretti a seguire le direttive del governo costruite caso per caso attraverso accordi sindacali. Ci sono stati scioperi per raggiungere tale obiettivo, i lavoratori hanno restituito centralità al sindacato rifiutando di sottoscrivere passivamente una delega alle imprese. In un certo senso abbiamo aiutato il governo a gestire una situazione terribile.
Peccato che poi la palla sia passata ai prefetti che hanno subìto il pressing padronale per riaprire con la richiesta di deroghe, addirittura 70mila.
A spingere di più sono proprio le aziende della Lombardia e del Veneto dove il virus continua a fare più malati e vittime, in molti casi abbiamo arginato questa follia, questo egoismo padronale. Almeno dove siamo presenti; in tante piccole e medie aziende dove il sindacato non c’è il controllo e l’intervento sono più difficili.
Il nuovo presidente di Confindustria Carlo Bonomi è stato spinto dal capitalismo del Nord, quello che più traffica per riaprire subito tutto.
Non è nostro costume giudicare le scelte delle altre organizzazioni, siamo abituati al confronto con i governi e le controparti che ci troviamo. È vero che il nuovo presidente rappresenta le aree geografiche che più spingono per l’apertura totale, mettendo in secondo piano gli interessi dei lavoratori e della cittadinanza. Bonomi non si presenta come una controparte dialogante. Per un verso li capisco i padroni nostrani: sono incazzati perché in Europa ciascuno si muove per conto e interessi propri, in alcuni paesi le maglie sono molto più larghe e in altri il lavoro non è mai stato interrotto, così chi è più attento alla salute e ai diritti rischia di rimanere penalizzato. Però, lo ripeto, prima la salute e la vita delle persone. Questa pandemia ci impone di progettare un futuro diverso nel modo di vivere, lavorare e relazionarci a cui decenni di liberismo e dominio del mercato ci hanno abituati. Per la prima volta dopo gli anni delle grandi conquiste sociali e sindacali, la salute e il lavoro tornano centrali. Non può esserci ripartenza senza una diversa organizzazione del lavoro, dei tempi e delle relazioni sindacali.
Il cambiamento non deve riguardare anche il modello di sviluppo e di consumi?
Abbiamo maltrattato la Terra, ferito gravemente l’ambiente. Non serve uno scienziato per capire che questo virus, la sua velocità e la sua pervasività hanno molto a che fare con le ferite inferte all’ambiente: il massimo dei danni il Covid-19 l’ha provocato dove sono maggiori produzione e consumi, in Italia come ovunque. Riflettiamoci: produciamo di tutto ma ci siamo ritrovati senza mascherine e respiratori. Ci manca la merce essenziale, abbonda quella inutile. L’economia non può essere lasciata nelle mani esclusive dell’impresa privata. Lo Stato deve avere voce in capitolo, diritto e dovere di programmare il futuro e decidere le priorità.
L’industria che più tira e non si è mai fermata, neanche dopo più di 23mila morti è quella bellica. Nello stabilimento di Cameri si continua a lavorare per il caccia F35 e l’Italia che fatica a trovare le risorse fondamentali ha appena acquistato 15 elicotteri da guerra dalla Leonardo per 337 milioni di euro.
È vero, come è vero che in tutto il mondo, mentre crolla la domanda di auto o elettrodomestici, l’unica che tira è la domanda di armi. Non si è fatta distinzione tra produzione civile e militare nell’ambito delle stesse grandi aziende, come sindacato siamo riusciti a tenere intorno al 30% la produzione bellica. Questo è un problema drammatico ma non solo italiano e la risposta va costruita insieme agli altri Stati e ai sindacati degli altri paesi.
E questo è un punto debole, il capitale si è globalizzato molto più del sindacato.
Per fortuna qualche segnale positivo s’è visto. Va nella direzione giusta la richiesta che la Ig Metall ha rivolto alla Confindustria e al governo tedeschi per chiedere la salvaguardia delle imprese italiane e dei paesi più colpiti dal virus, dello stesso tenore la lettera alla presidente della Commissione Ue Von der Leyen dei sindacati italiano, spagnolo e tedesco. Questi atti incidono più del regalo di mascherine.
Intanto dovete contrastare la spinta a dichiarare chiusa la fase 1.
Mi preoccupa lo scontro fomentato da Confindustria e regioni del Nord, non è il momento di gridare tana libera tutti. I padroni seri sanno che le conseguenze della pandemia incideranno a lungo su quantità e qualità della produzione. Almeno per un an-no e mezzo. Va cambiato il regime degli orari, l’organizzazione della produzione, il sistema dei trasporti. In aggiunta, accelerazioni pericolose sarebbero ancora più stupide con una domanda crollata che resterà bassa. Il dramma odierno rappresenta anche un’opportunità: ripensiamo a cosa, come e dove produrre, per quale modello di società. Non tutto dovrà tornare com’era prima.
Questo articolo è stato pubblicato su Area il 23 aprile 2020