di Amina Crisma
Da tredici anni insegno come prof. a contratto Filosofie dell’Asia orientale al Dipartimento LILEC, corso di Laurea LMCA; la riflessione che tento di proporvi in queste brevi righe non ha l’ambizione di offrire risposte, ma intende semplicemente porre all’attenzione di tutti alcuni problemi e alcune domande. Credo sia importante – più importante che mai – il pubblico e condiviso interrogarsi, come irrinunciabile esercizio di democrazia, in un momento in cui la tragica emergenza in cui stiamo vivendo ci costringe tutti quanti in un inevitabile stato di eccezione che sospende molte delle nostre prerogative costituzionali. Quando e come ne usciremo, non è già scritto, ma determinate tendenze generali che in varie e diverse sedi si esprimono mi appaiono piuttosto inquietanti; mi preoccupa molto, ad esempio, assistere sui media a enfatiche celebrazioni della presunta efficacia di un modello autoritario di gestione della pandemia, quando invece, mi sembra, gli esempi migliori in tal senso ci vengono da alcuni paesi di democrazia rappresentativa (la Corea del Sud, Taiwan, la Germania) fra i quali appare particolarmente interessante, per la sua valorizzazione della medicina territoriale e di base, l’esempio tedesco. Noto en passant che agli apologeti del “dispotismo asiatico” andrebbe ricordato che sono meccanismi autoritari quelli che hanno ritardato di ben due mesi un’adeguata cognizione della natura dell’epidemia, che un medico eroico di Wuhan che ne restò vittima quale Li Wenliang fu il primo a denunciare.
È questo drammatico contesto lo sfondo in cui avviene la radicale riconfigurazione del nostro lavoro in termini di didattica online. Una riconfigurazione dettata dall’emergenza, appunto, dallo stato d’eccezione; ma siccome si tratta di uno stato d’eccezione di cui ignoriamo la durata, e che potrebbe perfino diventare per un periodo indeterminato una sorta di “anomala normalità”, credo convenga farne oggetto di una considerazione adeguata e di un dibattito condiviso.
Questo mio discorso si basa sull’esperienza personale di didattica online che sto facendo, su confronti e conversazioni con colleghi e interlocutori, e attinge inoltre agli spunti contenuti in un articolo di Renata Pepicelli “L’Università senza corpi” apparso su Il lavoro culturale del 14 aprile, di cui consiglio a tutti vivamente la lettura.
A mio parere, è un testo esemplare, che tematizza in modo articolato la questione della didattica a distanza: ne riconosce determinati pregi (è indiscutibile che essa ci ha permesso di proseguire l’insegnamento in una situazione di eccezionale difficoltà), ma ne sottolinea al contempo le molteplici e non irrilevanti implicazioni problematiche. A cominciare dal fatto che essa accentua le differenziazioni e le disparità: fra gli studenti (non tutti hanno accesso a connessioni affidabili) e fra i docenti (ad esempio, come sono stata resa edotta da personale esperienza, i docenti a contratto non hanno l’accesso free a risorse quali Office 365 di cui liberamente fruiscono tutti i docenti strutturati: una discriminazione davvero incomprensibile, soprattutto in questa temperie di emergenza nazionale e sovranazionale). Ulteriori versanti controversi, che rivestono anche implicazioni giuridiche non irrilevanti, riguardano l’uso dei dati e il controllo dei medesimi, la privacy, la proprietà intellettuale, la libertà di insegnamento e molto altro ancora (non appare in tal senso questione di poco conto il fatto che per effettuare la didattica online dobbiamo servirci di piattaforme di proprietà di una grande corporation). Tutti questi aspetti sono rilevanti e meritano attenta considerazione, ma risultano in qualche modo accessori rispetto al problema cruciale che riassumerei così:
in quale misura e in quali modalità la didattica online ristruttura e riconfigura il nostro ruolo di insegnanti, e la natura della nostra interazione dialogica con gli studenti?
Non si tratta di un passaggio irrilevante, scontato e per così dire “ovvio e normale”. Si tratta di un transito dalle dense implicazioni problematiche, di cui credo occorra essere pienamente consapevoli. Nelle parole di Renata Pepicelli, che sottoscrivo toto corde:
è estremamente pericoloso pensare a una dematerializzazione dell’insegnamento e dell’apprendimento. La tecnologia è un mezzo che può essere potente e molto utile, ma non può sostituire i corpi, la forza dell’alleanza dei corpi, per dirla con Judith Butler. La didattica, anche quella universitaria – non solo quella scolastica -, è fatta di corpi, di sguardi, di interazioni comportamentali. Una buona didattica la si fa insieme docenti e studenti mettendo in campo non solo i cervelli, ma anche i corpi. I corpi parlano e sostengono la circolarità dei saperi e il loro apprendimento. Non ci può essere un’università senza corpi, dove il sapere è dematerializzato e il suo apprendimento decontestualizzato, trasportato in luoghi falsamente neutri. L’università è contatto, contaminazione, trasmissione di conoscenze, emozioni e passioni.
Ricordare tutto questo non equivale a demonizzare la didattica online; significa soltanto dichiararne i limiti, non farne un’acritica celebrazione, non ideologizzarla quale presunta onnipotente e onnipresente soluzione a ogni problema; significa usarla laicamente, e non dogmaticamente. C’è un bel motto di un celebre classico cinese, il Zhuangzi, che ben si presta a riassumere quanto intendo dire: “dobbiamo usare le cose, e non farci trasformare a nostra volta in cose da esse”. In base a quella che è finora la mia esperienza, intravedo una strutturale ambivalenza di potenzialità nella didattica online: da una parte, un suo uso attentamente contestualizzato che valorizzi la soggettività dei docenti e degli studenti può offrire fertili possibilità dialogiche, di reciproca interazione, di creativa esplorazione di percorsi di lettura e di ricerca; dall’altra, una sua utilizzazione reificata e reificante potrebbe ridurre il nostro ruolo a mera erogazione meccanica di schemi decontestualizzati, semplificati e standardizzati, da cui sarebbe cancellata ogni percezione della problematica complessità del mondo: una percezione forse oggi più che mai necessaria, a fronte degli scenari distopici in cui oggi ci troviamo a vivere.