Spillover e storicizzazione

19 Aprile 2020 /

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di Silvia Napoli

Non chiedete alla sottoscritta di tracciare una cronaca diaristica della impropriamente definita quarantena da Covid-19 e non già perché non sappia come ostentano alcuni, che giorno sia oggi mentre sto scrivendo, ma semplicemente perché in realtà nella ridda di chiusure, provvedimenti, lockdown hard e soft, parziali riaperture, correzioni di tiro e contraddizioni, si stenta persino a definire, a seconda di dove si sia ubicati, la data d’inizio di tutto questo.

Abbiamo avuta la definizione ufficiale di tutto questo e l’abbiamo denominata “pandemia”, con un’idea neanche tanto sottintesa di globalità fenomenica che però come spesso succede, non coincide affatto con una omogeneità né delle manifestazioni patologiche, né della diffusione per consistenza, o tipologia di popolazione, né tanto meno per i cordoni o corridoi sanitari messi in campo, per scelte di parrocchia infettivologa, per provvedimenti di ordine pubblico, o contenimento a seconda dei punti di vista, per tempistica dei fenomeni stessi e soprattutto tasso di mortalità. Già, perché questa sorta di influenza del pipistrello o del complotto o del laboratorio, questa tempesta perfetta nella coppa del Mercato planetario, uccide, come un serial killer ad inclinazione ferocemente darwiniana e, sin da subito, nell’incrocio di reciproci sospetti, meschinità e recriminazioni tra Stati anche neanche tanto velatamente in modalità sciovinista.

Questo virus cosi sconosciuto nella sua genesi ed evoluzione, tanto da venir definito “nuovo” è in realtà quanto di più umano troppo umano, si possa concepire, un virus realmente di contesto, che in qualche modo smentisce in parte le retoriche pauperiste e terzomondiste delle genesi epidemiche. Quel tocco selvaggio, che sembra sempre in agguato quando si parla di trasmissione virale: ricordate gli scimpanzé responsabili della trasmissione dell’hiv, malattia sessualmente trasmissibile, che non solo ha provocato milioni di decessi nel mondo, ma che tuttora rimane, pur mitigata da opportune terapie, priva di copertura di vaccino?

Abbiamo trascorso l’anno alle spalle in qualche modo a prepararci psicologicamente al peggio, quel peggio come hanno osservato in tanti, enfaticamente riproposto, coccolato, addomesticato da tanto immaginario degli ultimi decenni.

Abbiamo in tanti trascorso l’anno alle nostre spalle in mobilitazioni ambientali di portata locale, sto pensando alla vicenda dei prati di Caprara ad esempio (per rimanere sul nostro territorio), abbiamo seguito bonariamente le perorazioni in giro per i consessi internazionali da parte della piccola Greta, abbiamo flirtato con l’idea di iscriverci a Extinction Rebellion e soprattutto, anche a seguito di una fortunatissima mostra di caratura egualmente internazionale presso un prestigioso spazio cittadino, abbiamo familiarizzato con il concetto di Antropocene.

Alzi la mano, rara avis, chi di noi non è andato almeno una volta ad ammirare in foto di inquietante magnificenza, l’orrore persino seducente dell’impatto umano su tutte le forme possibili di habitat e di flora e fauna, ormai inscindibilmente connesse al dominio delle materie plastiche e di scarichi e liquami di ogni fatta. Di volta in volta, stupiti, ammutoliti, galvanizzati e spaventati ci siamo confrontati con i sottili distinguo proposti da illustri esperti e conferenzieri tra panorama e paesaggio, abbiamo amaramente riflettuto e dibattuto al buffet sul fatto incontrovertibile che pure l’agricoltura, attività cui forse bisognerebbe tornare in adeguate modalità, se non altro per decongestionare le megalopoli e sopperire a drammatiche carenze alimentari, insidiata tuttavia dalla eugenetica dei semi, sottraendo spazio all’ambiente boschivo, altera delicati equilibri coabitativi tra specie diverse.  

Novelli san Girolamo con un metaforico teschio in mano, abbiamo fatto meditazione su distruzione e autodistruzione e, nel contemplare epocali scenari di annientamento di massa da territori di guerra perenne siamo arrivati al massimo a paventare offensive batteriologiche in abbinamento a missili coreani, sentendoci buoni se aiutati a confutare teorie di ritorno ai distinguo razziali.

Eppure, mentre son qui a piangere la scomparsa del grande Sepulveda, mentre sono qui a tentare con tanti altri di difendere in tutto la nostra linea Maginot della Cultura, che certo non può fermarsi come capacità produttiva di comparto e tantomeno come collante comunitario, sento anche il suono leggermente ridondante di questi mantra e slogan che non fanno che acuire la sensazione di una società intera lanciata a folle velocità verso o contro qualcosa e che se non ha bisogno di drammatici lockdown, avrebbe però necessità sicuramente di uno spazio di riflessione sul suo senso più profondo come umanità.

La favola distopica si è abbattuta sui territori della produzione, dell’opulenza, dell’apice di civilizzazione: come una nuvola nera l’abbiamo anche vista arrivare da lontano e siamo rimasti inerti, come spettatori di un gigantesco drive in, inscatolati nelle nostre visioni e convinzioni, per quanto buone potessero essere, mentre ciò che il momento richiede è una capacità di lettura priva di pregiudiziali e scudi difensivi.

Questa è un’epoca in cui anche l’impensabile si verifica e l’impensato si fa realtà. Ciò a mio avviso, per l’azione combinata di due fattori :l’incapacità di inquadrare gli epifenomeni come prodotti di sistema, forse per la banalizzazione passata inerente le facili formulette sulle colpe del sistema e l’uso distorto della Storia come grande contenitore di storie in odore di funzione pedagogica. In realtà, la Storia andrebbe considerata come una valigetta degli attrezzi che permette di mettere in diverse prospettive una concatenazione di eventi altrimenti inintellegibili . 

Di tutta questa vicenda covid 19, colpisce infatti soprattutto il suo porsi come imprevedibile e incomprensibile, quando a mio avviso, essa si presenta più come una sorta di gigantesco occhio di bue a illuminare ed evidenziare aporie, contraddizioni, falle in tutti i gangli del pervasivo sistema universale capitalistico. Descrivendo come tragica la condizione di un sistema moloch che in qualche modo divora i suoi figli, ponendo come all’ordine del giorno la questione politica della governance non solo delle emergenze, ma di tutti i corpi sociali, evidenziando, con la questione dei corpi infetti, dei corpi abbandonati, quasi non riconosciuti, onorati e abbandonati fuori dalla polis, il punto più acuto della disparità, della disuguaglianza, dell’ingiustizia come fondamento di civilizzazione. 

“Il re è nudo” si leva come un sol grido da tutti i 5 continenti, inscenando la grande rappresentazione di una globalità che non elimina tuttavia divergenze e differenze, a partire non solo dai diversi stadi di diffusione e virulenza del morbo, ma dalla differente morfologia e densità abitativa dei territori, dal grado di sviluppo tecnologico, dalla inevitabile messa in scacco di tutti i sistemi socio-assistenziali universalisti che devono fare i conti con una gran massa di casistiche similari ma che sono in definitiva numeri singoli, come singolarmente isolate si presentano le masse in quarantena, quasi in una folle parodia dell’individualismo coatto di sistema. Al centro su tutte la grande questione rimossa dello Stato, l’utilità della democrazia, quando vengano a mancare corpi intermedi, cinghie di trasmissione tra alto e basso. Stato come efficienza, efficacia, stato come padre, stato-nazione, arroccato o costretto a ridefinirsi secondo variabili antropologiche demografiche e culturali appiattite non già da un presunto egalitarismo ma dalle leggi del consumo. Logiche di produzione stravolte da nuove priorità di consumo. La mitica mascherina come nuovo oscuro oggetto del desiderio, vista la poco comprensibile irreperibilità del presidio in questione nonostante aiuti, sbarchi internazionali di volontari, donazioni supergenerose. Il paradosso nella disgrazia che accomuna divenuta in breve, massima arena di differenza di approccio, di cura, di epistemologia. 

In italia si colgono amari frutti di un federalismo male inteso e mal gestito, che provoca per rinculo editti generalisti di difficile accettazione. Si assiste ad una sorta di nuovo sfacelo cella capitale morale d’italia e di tutta la regione che le va dietro, che non è semplicemente questione di malgoverno, malaffare, arroganza efficientista, ma è la punta dell’iceberg di una crisi di modello produttivo ambientale che generò mostri già ben prima di Tangentopoli e che è riuscito a mettere in soffitta quel concetto di epidemiologia dipartimentale come medicina di contesto di cui si sentirebbe oggi una urgenza lacerante. Vale forse rammentare che Giulio Maccacaro, il padre di Medicina Democratica, ebbe i suoi natali proprio a Codogno, già nota patria del presunto paziente uno? Varrebbe forse la pena riflettere su come, in assenza di strumenti di governance pubblica, accessibili e comprensibili, all’emergenza che fungessero anche da presidi salvavita, si è preferito demandare il percorso contenitivo e preventivo quasi unicamente alla tenuta delle robuste spalle del cittadino responsabile? Possiamo dirci che abbiamo assistito impotenti ad una universale ripresa storica della logica da rupe del Taigete di spartana memoria messa in atto nei confronti dei più vulnerabili? 

Sarebbe anche in parte limitante e fuorviante, attribuire il massacro in corso ai famosi tagli e alla scarsa tenuta dei nosocomi:quello che si riscontra, spesso anche nelle forze critiche, se non antagonista, nei sinceri democratici, se non paladini della sinistra è una cancellazione dei territori dagli orizzonti programmatici, l’assenza di una capacità di politica organizzativa che vada oltre il pur fondamentale apporto volontaristico, l’incapacità di creare un reale rapporto pubblico-privato sulla base di beni ed esigenze comuni perché non tutti i tipi di cosa pubblica ed entità privata sono uguali e sarebbe ora di tornare ad operare distinzioni e discrimen su questo. Sembreranno certo banalità, ma sono le macroscopiche carenze di un sistema paese che sembra condannato, sulle spalle di chi continua a lavorare sotto ogni cielo e in qualunque condizione, a barcamenarsi tra una calamità, un’emergenza, una sciagura pubblica di grande o piccola o media entità, una vigliacca attribuzione di ipotetiche colpe a qualche centinaia di migranti sul barcone, al massimo portatori di scabbia, quando un virus letale a prova di confinamenti viaggiava indisturbato su aerei di linea e navi da crociera.

In tutto questo dominano la spocchia vagamente razzista e l’impreparazione, salvo furiose retromarce di tutti i paesi occidentali di fronte ad evenienze non tanto prevedibili o meno nella loro specifica manifestazione, quanto semplicemente rifiutate e rimosse da un orizzonte in cui l’altro da sé, il competitor da ex terzo mondo sarà sempre portatore di autoctoni malanni da degrado.

Il capitalismo si è fatto dominante assicurando maggiore benessere e diritti civili i a larga parte della popolazione mondiale, questo anche grazie alla sua capacità di intercettare idee innovative e farle diventare oltreché prodotti, patrimonio di senso comune. Oggi che si discute tanto del cosiddetto spill over, o salto di specie epidemico, dobbiamo constatare, quanto il vero salto lo stia facendo il Capitale stesso, ormai non più bisognoso almeno apparentemente di consenso e che per assoggettare la babele delle differenze e delle spesso contrapposte esigenze, sia direttamente e proteiformemente incistato nei corpi e nel bios del quotidiano. Continueremo a mio parere a compiere falsi movimenti, se inseguiremo la logica del chi si ferma è perduto, uno sviluppo sganciato dai bisogni della comunità ci appare ora in tutta evidenza utopico quante teorie palingenetiche o escapiste. Falsa anche l’alternativa chiudere-riaprire. Basterebbe forse ripensare e modificare, partendo dai corpi, dalle vite, dalle biografie, dal Lavoro. Sarà sempre fortunato il popolo che non ha bisogno di eroi, ma anche quello che non ha bisogno di miti da giardino o terrazzino, di angeli, di martiri o vittime designate. Forse abbiamo frettolosamente buttato bambino e acqua sporca, per accorgerci anche drammaticamente che abbiamo bisogno di nuove generazioni, adatte ai mutamenti e fuori dalle retoriche ottimistiche di scrittori come Baricco, credo che dovremo anche mettere al centro il tema di un accesso e di una relazione realmente democratiche alle tecnologie. E non quando la buriana sarà passata, ma subito. Come subito sarà importante coltivare una narrazione di questa vicenda epocale quando fino a poco fa si vivacchiava ai bordi di una storia sociale suppostamente in liquidazione. Ci attende una estate anomala, sacrificata, difficilissima per tutti, ma per le cosiddette classi subalterne, molto di più. 

In questo momento di doverosa accettazione della finitezza del nostro habitat, dei limiti delle noste risorse e conoscenze, sarebbe bello poter tornare a una nozione di popolo scevra da demagogie e sovranismi e accettare la sfida di mettere al centro la formazione dei nostri giovani, investendo su di loro, anche se per ora i segnali non sono incoraggianti in questo senso. Buon 25 aprile dunque, che si canti o stia in silenzio, che ci si sporga dai balconi o si faccia una corsetta: la distanza sociale, ben prima del famigerato distanziamento, era già molto alta da queste parti, come mai dal dopoguerra. Dedicheremo questo 25 aprile a tutte le vittime solitarie del male, a tutti i dimenticati di cui non ci si ricorda men che meno ora che si deve spasmodicamente aprire esattamente come prima serrare, senza un vero come predisposto e a tutte le donne che aspettano un cambio di paradigma che veda la loro acclarata duttilità trasversale protagonista nel discorso pubblico. 

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