Biosfera, l’ambiente che abitiamo. Crisi climatica e neoliberismo

20 Marzo 2020 /

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di Matteo Lupoli 
Nel mezzo della diffusione dell’epidemia e del dibattito scientifico attorno alle sue cause, la lettura del volume “Biosfera, l’ambiente che abitiamo. Crisi climatica e neoliberismo” di Enzo Scandurra, Ilaria Agostini e Giovanni Attili è uno strumento utile per tornare sulla crisi ecologica con uno sguardo critico e consapevole.
Ricevo il nuovo lavoro di Enzo Scandurra, Ilaria Agostini e Giovanni Attili sul finire di febbraio, nei giorni in cui venivano accertati i primi casi di contagio da coronavirus in Italia. Lunedì 24 gran parte del centro-nord, compresa la zona in cui vivo, si è risvegliata paralizzata dalle ordinanze regionali e comunali che vietavano assembramenti, chiudevano scuole, palestre, bar e università al fine di contenere la diffusione del virus. Essendo rimandato ogni impegno che avevo programmato per i giorni seguenti, ho avuto tempo di studiare con attenzione le pagine di questo libro.
Nel frattempo radio, tv e giornali continuavano a dare aggiornamenti riguardo ai contagi, i decessi, le cure e gli sviluppi di un dibattito ancora non sopito sulla gravità dell’emergenza epidemiologica e sulla conseguente legittimità degli interventi istituzionali. Da un lato, ci sono i posizionamenti scettici di chi, come Agamben o il collettivo Wu Ming, sostiene che il generale allarmismo scatenatosi non sia fondato su un reale pericolo infettivo ma possa semmai rispondere alla naturale tendenza capitalistica a sperimentare nuove pratiche di controllo dei corpi e della popolazione (Wu Ming), o altrimenti possa essere la dimostrazione della «tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo» (G. Agamben). Dall’altro, le voci, sicuramente molto amplificate dai mass media nella prima fase, di chi individua nella massima allerta e nella prevenzione forzata l’unico strumento per affrontare quella che è ritenuta essere una grave emergenza sanitaria. Alla base del contendere c’è ovviamente la definizione, o sarebbe meglio dire l’interpretazione, del virus Covid-19 ed entrambe le parti avvallano la propria tesi attraverso il ricorso a pareri e analisi scientifiche. La formazione che propende per lo slogan è solo una normale influenza cita per esempio le dichiarazioni del CNR (risalienti a dire il vero al giorno 22 febbraio, quando i casi accertati erano meno di venti), mentre dall’altra parte sono gli allarmi lanciati a giorni alterni da Burioni e le immagini di Wuhan a tenere banco.
Una recente ricerca pubblicata dalla rivista PNAS evidenzia le correlazioni tra i processi di devastazione ambientale e la diffusione di fenomeni epidemiologici di origine zoonotica, ovvero le infezioni trasmesse all’uomo da animali selvatici, come il Coronavirus e come furono anche la Sars, l’Ebola o il virus Zica. L’analisi che ne deriva indica la possibilità di un approccio preventivo rispetto al verificarsi di questi fenomeni, fondato sull’attenzione all’ambiente e il rispetto della biodiversità. Eppure anche a fronte dell’ennesima pandemia, nessuno si pone interrogativi rispetto alla nocività di un modello di sviluppo fondato su un continuo processo di inurbamento, sfruttamento incontrollato delle risorse, deforestazione e produzione alimentare intensiva e industriale. Come pure per altri fenomeni connessi alla devastazione ecologica, anche questa volta è più semplice pensare a parziali e mai risolutori argini e rimedi.
Fridays for Future Bologna, nel commentare l’ordinanza regionale emanata lunedì 24 febbraio, scrive:
 

«La città si mobilita con urgenza per l’emergenza corona virus, panico dilagante, chiusa l’università e probabilmente annullato ogni tipo di evento in settimana. Eppure a Bologna il limite giornaliero delle polveri sottili solo a gennaio é stato superato più di 11 volte, il limite giornaliero del particolato più pericoloso per la salute umana (PM 2.5), di 25 µg/m³, più di 17 volte. Ogni anno sono oltre 30.000 i nuovi casi di tumore in Emilia Romagna, circa 87 al giorno. Si stimano in media 35-40 decessi per tumore ogni giorno in regione. [..] Perché si tace quando si tratta di crisi climatica? Perché ci sono troppi interessi in ballo».

In questo scenario, Biosfera, l’ambiente che abitiamo. Crisi climatica e neoliberismo è un vero e proprio manuale per leggere la crisi ecologica con uno sguardo critico e consapevole. Nello stesso volume sono contenute analisi sociologiche e dissertazioni di urbanistica, descrizioni di agenti chimici e valutazioni fondate su leggi fisiche; ne emerge un approccio multidisciplinare particolarmente interessante. È probabilmente la dimostrazione più chiara di quella ricchezza propria delle Environmental Humanities che Marco Armiero ha di recente definito indisciplina: «l’allontanamento dai modi consueti di produrre conoscenza e dai limiti delle discipline».
La prima parte del libro sembra muovere dalla prospettiva tipica delle cosiddette scienze naturali. A fronte di quella che molti interpretano come un’apocalisse ambientale, Scandurra dapprima chiarisce la definizione di alcuni fondamentali costrutti teorici come quello di biosfera – elemento centrale sin dal titolo del libro, viene descritta come «buccia dell’arancia blu… luogo singolare dove si è sviluppata la vita…prodotto del sole e produttore di specie viventi» (p. 17) – o di ecosistema; poi spiega le funzioni degli elementi chimici che compongono l’atmosfera e il ruolo dei processi fotosintetici.
In un momento in cui la crisi climatica è sulla bocca di tutti, ma la carenza di spazi di informazione approfondita accessibili a un pubblico ampio facilita letture fuorvianti e compatibili con la crescita capitalistica, fare chiarezza è un’azione importantissima per un’ecologia del discorso pubblico. Uno dei passaggi che in questa sezione ho trovato più interessanti è la spiegazione del processo di degradazione ambientale attraverso il ricorso ai primi due principi della termodinamica. Con l’aiuto delle leggi della fisica, l’autore spiega come l’aumento progressivo dell’inquinamento atmosferico e della quantità di rifiuti, così come l’esaurimento delle risorse, siano processi inevitabili e incontrovertibili se la produzione e la crescita restano obiettivi da perseguire. Contrariamente a quanto vorrebbe affermare la narrazione capitalista, focalizzata oggi sulle proprietà benefiche del riciclo e dell’efficienza, «esiste un limite teorico, indipendentemente dal livello tecnologico, che non può mai essere raggiunto» (p. 51) e questo è rappresentato dalla legge dell’entropia secondo cui un sistema chiuso, ma non isolato, come la biosfera tende naturalmente al disordine. L’entropia, sinonimo tra gli altri anche della diminuzione di energia disponibile, non può che aumentare ogni volta che ci si trova in presenza di lavoro (vivo o macchinico che sia) e dell’energia viene trasformata.
I capitoli due e tre, ancora a firma di Enzo Scandurra, pur cambiando prospettiva insistono su una dimensione scientifica della questione ambientale. Il secondo entra nel merito di un «dibattito sulla scienza (che) rischia di diventare sempre più confuso, contaminato da scientismo e segnato da un ritorno a pratiche che di scientifico hanno ben poco». La critica centrale in queste pagine è rivolta al mito della scienza neutrale e universale, dietro cui si nasconderebbe in realtà il portato di secoli di sviluppo coloniale e patriarcale. Una riflessione oggi molto importante se si considera che lo sviluppo e il successo di movimenti ambientalisti come Fridays for Future ed Extinction Rebellion è stato fortemente connesso a una fiducia assoluta nelle verità scientifiche tatticamente efficace quanto politicamente problematica. Con una efficace operazione di disvelamento vengono poi criticate una per una le “fake news” verdi più dibattute negli ultimi anni: dalla smart city ai termovalorizzatori, dalle olimpiadi sostenibili alle auto elettriche, dall’utilizzo di biomasse come carburante all’ideologia delle grandi opere. Conclude questa sezione un capitolo in cui l’autore ripercorre le tappe dell’evoluzione della cosiddetta questione ambientale all’interno della comunità scientifica e nei contesti istituzionali internazionali. Partendo dalle prime intuizioni scritte negli anni Sessanta giunge fino alla recente COP 24 di Katowice, passando per Kyoto ma anche per l’Enciclica Laudato Si’ di papa Francesco. Nel mezzo sono elencati una lunga lista di rapporti, protocolli e trattati a dimostrare che «la gara sui cambiamenti climatici è tutta politica e sono occorsi 47 anni per decidere dell’esistenza di una questione ambientale» (p. 114).
La seconda parte del libro ospita gli interventi di Ilaria Agostini e Giovani Attili. La prima indaga i modelli di insediamento abitativo contrapponendo critica al modello industrialista e gigantista le possibilità che un paradigma ecologista potrebbe offrire. A partire dalle prime esperienze di rifiuto della vita metropolitana e di esercizio del diritto alla campagna negli anni Settanta, vengono discusse alcune delle principali esperienze concrete e ipotesi teoriche di modelli alternativi a quello delle megalopoli e delle macroregioni. Queste sono accomunate dall’aspirazione all’autogoverno e all’autorganizzazione oltre che dalla volontà di «sovvertire e annullare il rapporto di predominio capitalistico e culturale della città sul suo territorio rurale e, anzi, produrre un’alleanza città-campagna» (p. 135). Il modello insediativo che si è consolidato in questi ultimi decenni si fonda sullo sviluppo e sulla capacità attrattiva dei grandi centri urbani a scapito delle aree rurali interne e delle municipalità minori, favorisce economie estrattive e distruzione ambientale nel Sud globale attivando così flussi migratori verso le maggiori e più ricche città. L’indicazione che l’autrice fornisce, pur non descrivendo traiettorie specifiche e passaggi progressivi per contrastare il paradigma gigantista, è comunque chiara: «fuori e oltre la Megalopoli ogni possibile compromesso, ogni alternativa dissidente, microterritoriale, policentrica e neomunicipalista nel vero senso del termine penso debba essere attivata» (p. 164).
Anche il contributo di Attili ha in qualche modo al suo interno un focus sui centri urbani, ma la prospettiva da cui muove è quella di una serrata critica al turismo di massa. L’autore riprende alcune recenti riflessioni sul tema (M. D’Eramo, S. Gainsforth) per descrivere quella che a tutti gli effetti possiamo considerare un’industria pesante e in piena espansione. A sostengo di questa tesi, sotto un profilo prettamente ambientale, vengono elencati gli impatti ecologici generati dal settore dei trasporti, dall’aumentato consumo di risorse e dalla sovrapproduzione di rifiuti che il fenomeno dell’overtourism genera e alimenta. Segue un’analisi dell’impatto sociale ed economico dell’ipersfruttamento turistico dei territori, «attività estremamente redditizia solo nel breve periodo ma totalmente rischiosa e insostenibile nel lungo periodo» (p. 182). Alla museificazione e mercificazione prodotta corrisponde l’espulsione di una larga fetta di popolazione residente e l’erosione dello spazio pubblico, oltre che un processo di continua omologazione dei contesti urbani. I tentativi di azione messi in campo dalle amministrazioni locali e nazionali in diversi Paesi per mitigare gli effetti devastanti di questo fenomeno conservano delle ambiguità fondamentali, quando non si rivelano del tutto inefficaci, lasciando presagire una futura colonizzazione di nuovi spazi piuttosto che una gestione ecologica del problema.
Una riflessione sull’inadeguatezza dei provvedimenti settoriali e dei rimedi temporanei alla crisi ecologica attraversa tutto il libro e i tre autori sono concordi nell’affermare la necessità di un radicale cambio di paradigma. Le conclusioni a cui giungono sono convergenti e complementari: se Attili chiude il capitolo affermando che «la gestione dell’esistente è sempre un gioco di resa che non lascia spazio ad alternative» (p. 185), Scandurra insiste sulla necessità di una riappropriazione e riterritorializzazione dei processi produttivi, mentre Ilaria Agostini sottolinea la necessità di sperimentare alternative di esistenza.
Queste intuizioni da sole probabilmente non sono sufficienti a costruire un’alternativa al modello economico e sociale che questa crisi ha prodotto e continua a gestire, ma il libro potrebbe essere un utile strumento nella cassetta degli attrezzi delle migliaia di militanti ed attivisti che in tutto il mondo si preparano a costruire il quinto sciopero per il clima il prossimo 24 aprile.
Questo articolo è stato pubblicato su dinamopress il 18 marzo 2020

 

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