di Silvia Napoli
Un festival filosofico? Un festival di riflessione? Un festival che, a tutta prima, in questa edizione sembra non prendere di petto i grandi conflitti e le grandi transizioni che ci attraversano, per dare spazio invece ad un discorso sui codici e i modi cui attingere dalla storia artistica novecentesca in poi, per dare forma espressiva a quel pensiero critico oggi rara avis. Quantomeno confuso abbondantemente con una licenza di parola e condivisione sghemba, liquidatoria, tutt’altro che dialettica e che, nutrendosi solo di polemiche superficiali, di fatto nega la possibilità di rappresentare ed elaborare il conflitto.
Siamo infatti arrivati velocemente, trascinati da una stagione fin qui intensa e vorticosa tra i vari teatri targati ERT e in qualche modo anche travolti da tutti gli avvenimenti che ci stanno intorno fra cronaca e storia, ad uno dei must della intera programmazione culturale complessiva nella nostra Regione, ben oltre l’ambito abituale dei palcoscenici, che è le Vie festival. Banalizzando, potrebbe essere definita come una vetrina internazionale del meglio della scena teatrale, ma questo sarebbe per l’appunto fuorviante.
Possiamo intanto provare a definire il perimetro, anche se il termine è appunto paradossale in questo contesto, della articoltata manifestazione. Dieci giorni di programmazione dal 21 di febbraio al primo di marzo con il coinvolgimento territoriale di cinque sedi(Modena, Bologna, Cesena, Carpi, Spilamberto) che sono rappresentative del modo tendenzialmente paritario in cui viene declinata la dialettica centro-periferia, macro e microarea. Una dialettica che rispetta le differenze oggettive dei luoghi e dei formati degli eventi senza metterli in competizione o in alternativa.
Una serata inaugurale allo Storchi di Modena del tutto inusuale, caratterizzata da un dibattito estremamente “caldo” sulla relazione e lo stato di salute della medesima tra Democrazia ed Europa, che vede protagonisti due grandi intellettuali novecenteschi quali lo storico britannico Donald Sasoon, il filosofo spagnolo Fernando Savater, intercalati dalle letture dell’ottimo Lino Guanciale. Questa serata ad ingresso libero, la dice lunga sul fatto che da queste parti si abbia voglia di intervenire in qualche modo sui…
Sintomi morbosi(dal titolo dell’ultimo saggio di Sasoon), che affliggono le nostre società, un tempo culla di civiltà, oggi incapaci di esprimere una egemonia culturale se non quella della paura e della sfiducia. E come, se non con strumenti culturali?Vocazione ambiziosa e coraggiosa ribadita dal maxi convegno che fa riferimento a EASTAP, l’associazione europea per lo studio del teatro e della Performance e che si terrà dopo le edizioni di Parigi e Lisbona qui a Bologna dal 27 febbraio al primo marzo, dividendosi tra Arena del Sole e Damslab. Il tema sarà quello di pratiche e teorie a confronto a riguardo del comporre per la scena e altri spazi e prevederà una impostazione da sessione di lavoro dato il dialogo implicito con alcuni degli spettacoli nel palinsesto del festival stesso e lil diretto coinvolgimento del gruppo FC Bergman, presente con una prima assoluta italiana, dall’ostico titoloHet land nod. uno spettacolo che si annuncia particolarissimo esempio di invasione di campo tra ambiti diversi, proponendosi di raccontare per immagini e senza testo, la Galleria Rubens del Museo reale di belle arti di Anversa.
Proprio per questo, non possiamo chiedere al Direttore di ERT, Claudio Longhi, come si usa d’abitudine, che cosa sia imperdibile, quali i momenti clou e le sedi principali dell’oggetto Vie. Raggiunto telefonicamente tra un impegno e l’altro di un momento certamente densissimomi dice infatti:-Se ci pensi bene, il tipo di programmazione decentrata di Ert, arricchita da molteplici aspetti produttivi e didattici assomiglia già di per se ad un Festival permanente. Pertanto non ha senso dire che questo appuntamento si ponga come fiore all’occhiello oppure che ci sia da trovargli una collocazione tematica all’interno di un discorso preconfezionato. Non si può dire Vie quest’anno tratti questo o quell’argomento per diverse ragioni.
La programmazione di Vie si pone in assoluta contiguità con il contesto, ma è la punta d’iceberg, l’emersione più alta di questa esigenza dettata dallo spirito dei tempi che è, appunto quella di affinare, rendere più efficaci, puntuali e sistemici gli strumenti per incidere in questa fase liquida non certo per la fluidità delle idee o l’abolizione di differenze, ma per la mancanza di certezze. Per questo emergono con forza due caratteristiche. La pluralità dei linguaggi e la rielaborazione dei maestri senza voglia programmatica di scandalizzare i borghesi, ma anche senza soggezioni.
La politica, nel senso alto, di ciò che attiene alla comunità, conseguentemente l’Europa, come “scena” ideale della politica e delle rappresentazioni, essendo appunto da sempre un insieme di crocevia e di pellegrinaggi e nomadismi, data la sua natura geografica profondamente plantare, come osservava il compianto Steiner:se ci pensiamo, infatti il territorio è tutto umanamente percorribile e i confini, i limiti sono tutti attraversabili. Noi attraversiamo l’Europa e l’Europa attraversa noi, questo è già nel senso del nome Vie e ogni volta sviluppiamo e decliniamo questa prerogativa anche in forma di rispecchiamento rispetto ad altri mondi, altri continenti, che noi abbiamo voluto modellare e dominare.
Per questo ospitiamo lavori come Dragon di Guillermo Calderon, drammaturgo e regista cileno di fama che rimette in discussione con sense of homour i parametri del teatro militante :si potrà vedere a Carpi il 27 di febbraio e in contemporanea all’auditorium di Mast si assisterà all’esibizione del gruppo musicale di artisti dell’Africa occidentale condotto da Bassekou kouyatè e Ngoni Ba. Sono messe in discussione implicite, da altri punti di vista geopolitici e valoriali, ma stranamente fanno pendant con la sempre più ravvicinata sequenza delle nostre crisi metabolizzate dall’interno, come si può intuire da lavori come The metamorphosis, ovvero il Kafka riletto dal regista scozzese Lenton, come pure dall’Antigone riletta per le scene dal filosofo neomarxista Zizek a finale aperto, o dalla produzione ERT, questo pattern di tecniche performative e nuove tecnologie, che si vedrà tra il 25 e il 27 febbraio alle mitiche Passioni, dal significativo titolo: Get your shit together, una esortazione a mettere metaforicamente insieme cocci, frammenti e fallimenti per non dargliela su, consapevoli di quanto le nostre identità siano sempre approssimative.
Il senso complessivo della manifestazione sta dunque racchiuso tra lo spettacolo mondo di Pascal Rambert, Architecture, grande affresco di trent’anni di storia europea che inaugura il festival per Arena del Sole il 22 e 23 febbraio e il conclusivo Bajazet di Castorf allo Storchi:il mitico ex direttore di Volksbuhne rivisita con la grinta e la spregiudicatezza che lo contraddistinguono un classico di Racine inforcando gli occhiali di Artaud e della sua concezione legata all’assoluto del sacro.
Tutto dunque è doppio e sensibile all’accostamento dei punti di vista, emblematico in questo senso e imprescindibile l’unico appuntamento con un accoppiata d’eccezione, quella formata da Mimmo Cuticchio, recentemente insignito di un premio UBU, e Virgilio Sieni, danzatore, pedagogo, narratore delle età dell’uomo e in perenne attitudine di ricerca. S i fronteggiano cosi il corpo e il pupo, in una estrema essenzialità, esplicitata dal titolo prescelto:Nudità. In conclusione, chiosa Longhi, l’incessante spinta euristica è il fil rouge di formati, stili, codici tanto diversificati ed è anche per coerenza con questa impostazione che ognuno deve sentirsi libero di muoversi tra le proposte fabbricandosi un percorso in itinere. Impossibile non trovare una propria chiave d’accesso, ma ricordatevi di prenotarvi perché gli affezionati sono tanti ed ogni anno cresce la quota dei neofiti.