Capire la "Bestia" e poi evitarla

31 Gennaio 2020 /

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di Thierry Vedel
Le recenti elezioni in Emilia-Romagna ci offrono uno spunto di riflessione su un tema che travalica i confini regionali e nazionali: la comunicazione politica ai tempi del digitale. La forte campagna mediatica condotta a colpi di tweet e di like sui social, basti pensare all’episodio “del citofono” che ha visto coinvolto Matteo Salvini, non ha prodotto i risultati sperati.
L’esito elettorale fa riflettere rispetto a una correlazione che davamo per scontata: l’utilizzo massivo di fake news nella campagna elettorale e la vittoria delle elezioni. Ecco che la sconfitta della Lega desta sorpresa. Se è opinione generale che le ultime elezioni presidenziali americane siano state vinte da Donald Trump proprio per l’uso massiccio di informazione distorta bisogna comprendere come mai questa volta non abbia funzionato.
Prima del 2016 nessuno parlava di fake news. Il termine non esisteva: né in ambiente accademico né nei dibattiti pubblici. Questa circostanza riflette la peculiarità della situazione attuale. Nonostante ormai si parli di fake news quotidianamente e siano state spesso al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, non hanno ricevuto la medesima attenzione da parte degli specialisti. È necessario quindi riflettere sul tema per tentare di definirne la storia e le caratteristiche peculiari.
Prima della celebre coniazione di Sharyl Attkisson, giornalista d’inchiesta americana, ciò che ora ha un termine proprio veniva semplicemente chiamato nella letteratura sociologica disinformation o misinformation.
Ogni fase storica ha visto l’utilizzo frequente della propaganda, basti pensare all’uso che è stato fatto di strategie persuasive di comunicazione nel secolo scorso. Quindi che cosa è cambiato? Come mai un fenomeno tanto legato alla stampa quanto al digitale ha assunto i caratteri omnipervasivi delle fake news? L’avvento dei social coinvolge la modalità di comunicazione politica, i rapporti tra cittadini e leader, tra rappresentanti e rappresentati, tra produttori e consumatori di notizie.
La nozione di fake news non rappresenta solo il tipo di contenuto, quello “mendace”, ma coinvolge la modalità in cui il contenuto è veicolato. Se infatti la propaganda esiste “da sempre” le potenzialità del digitale ne hanno aumentato la portata. L’estensione globale dell’informazione, la velocità nella trasmissione e la mancanza di intermediari che possano fungere da garanti hanno messo in discussione la nostra stessa capacità di distinguere le bufale dalle notizie vere.
Per rispondere alla gravità di questa circostanza sono state fornite diverse soluzioni al problema: basti pensare alla controversa legge anti-fake news di Singapore o alla recente legge francese, approvata definitivamente il 20 novembre 2018, che prevede che sia un giudice, su richiesta dei candidati alle elezioni, a stabilire se una notizia sia vera o falsa, provando così a ridare allo stato il potere sulla legittimità dell’informazione. Se esistono le leggi è tuttavia quasi impossibile applicarle.
Da un lato la diffusione di notizie si estende globalmente e attraversa paesi con legislazioni differenti, dall’altro la diramazione di queste informazioni impedisce di imputare a un singolo la responsabilità dell’emissione. Stessa sorte hanno le soluzioni proposte dai gestori di piattaforme: né i moderatori né i meccanismi di riconoscimento algoritmici sono stati in grado di impedire la diffusione in diretta del massacro di Christchurch, l’attacco in Nuova Zelanda a due moschee che ha portato alla morte di 49 persone.
L’inefficienza di queste soluzioni risiede nella modalità di risposta a questo fenomeno: politici, esperti, specialisti del settore si sono sempre interessati al lato dell’offerta di fake news: di chi le produce, le diffonde e con quali scopi. Tuttavia se risulta impossibile regolamentare questo fenomeno data la sua complessità è necessario rivolgersi al lato della domanda. Perché oggi è sempre più diffuso il bisogno da parte degli utenti non solo di consumare fake news ma di crederci ciecamente?
È interessante notare allora che più che un’eccezione o un caso fortuito, la ragione della nostra propensione a credere in queste notizie risiede nel modo del nostro cervello di interpretare le informazioni. Di fronte a problemi cognitivi complessi il nostro cervello adotta shortcuts, scorciatoie euristiche, che ci permettono di fare inferenze sulla probabilità che uno stimolo appartenga a una determinata categoria. Di fronte a una notizia complessa adottiamo allora meccanismi di semplificazione: dopo una lettura superficiale interpretiamo il contenuto del messaggio sulla base dei nostri schemi precedenti senza verificare ogni volta nel dettaglio la veridicità della fonte.
Nel mondo digitale in cui siamo bombardati di notizie e in cui il rischio di “sovraccarico” è reale preferiamo affidarci a messaggi che fanno appello alle nostre emozioni piuttosto che quelle che veicolano un contenuto complesso. È così che invece di analizzare razionalmente il contenuto di un messaggio leggiamo solo notizie che confermano ciò in cui crediamo.
Ecco perché molti politici populisti non provano a trasmettere informazioni razionali, ma favole caricate emotivamente, al fine di lasciare un’impressione duratura ai destinatari. Allora come mai queste elezioni sono andate diversamente da quello che ci aspettavamo?
Non è ancora chiaro come una fake news possa influenzare il risultato elettorale, è tuttavia evidente che la comunicazione politica veicolata attraverso messaggi emozionali è efficace. L’unico modo per evitare che influenzi la nostra vita è allora reimparare a dare un peso a ciò che leggiamo, nella consapevolezza che un’educazione allo spirito critico è l’unica soluzione possibile.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 29 gennaio 2020

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