"Basta salari da fame!": a proposito del libro di Marta e Simone Fana

17 Gennaio 2020 /

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di Maurizio Brotini
Bassi salari e precarietà del lavoro sono stati – e sono – una costante di lunga durata nella storia repubblicana, come ci ricordano Marta e Simone Fana nel loro Basta salari da fame! per la collana “tempinuovi” delle edizioni Laterza. Dopo aver sottoposto a critica e proposta sia le forme contemporanee dello sfruttamento lavorativo sia il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario i due ricercatori militanti affrontano di petto la questione del potere nei luoghi della produzione materiale ed immateriale e nella società.
La lettura incrociata delle dinamiche salariali con le condizioni concrete di lavoro e di concreto svolgimento dello stesso è cosa utile e di notevole interesse, ed a integrazione, complemento e moltiplicazione del valore politico di Basta salari da fame! soccorre il documentato lavoro di Eloisa Betti, Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana per Carocci editore.
I due elementi sono evidentemente correlati: un basso potere delle organizzazioni sindacali e politiche del Lavoro si associa al massimo di precarietà ed al minimo di salario rispetto alla ricchezza prodotta (o ad una limitata riduzione complessiva della quota spettante al Lavoro ma con l’ampliarsi delle differenziazioni all’interno del mondo del lavoro dipendente), un alto potere delle organizzazioni sindacali e politiche del Lavoro – ma soprattutto dell’organizzazione di classe dentro i luoghi delle produzione e riproduzione sociale – si traduce nel punto più alto di quote di salario al lavoro dipendente sul plusvalore prodotto, nella riduzione del differenziale all’interno della stratificazione di classe e di capacità di intervento sull’organizzazione del lavoro limitando drasticamente il potere d’impresa.
Rileggere la storia sociale e politica italiana con questa doppia bussola permette di cogliere ad un livello strutturale il divenire della lotta politica tra le forze del progresso – che facevano della centralità del lavoro il loro asse valoriale e politico d’intervento – e le forze della conservazione, centrate sul primato dell’impresa e cementate da una – al massimo – forma di solidarismo interclassista di matrice cattolica. Una lotta dove lo Stato assume immediatamente un rilievo decisivo e dove fin dalla strage di Portella delle Ginestre servizi americani, criminalità mafiosa, apparato amministrativo fascista incistato nello Stato Repubblicano e parte significativa della Democrazia Cristiana condizioneranno pesantemente la dialettica sociale e politica attraverso attività stragiste ed eversive, fino ad arrivare più volte al tentativo di colpo di stato, vero obbiettivo politico della strage di Piazza Fontana del 1969, come ci ricorda l’ultimo documentato ed inquietante libro di Enrico Deaglio La bomba per l’editore Feltrinelli.
Ma ripercorriamo cronologicamente la questione salariale nel nostro Paese secondo i passaggi e le scansioni proposte dai fratelli Fana, fermandoci alla metà degli anni Ottanta ed operando quindi una lettura fortemente tendenziosa del saggio dal quale prendiamo le mosse per le considerazioni che andremo svolgendo. Lo facciamo perché crediamo che si debba e sia utile riprendere l’esortazione degli stessi Autori a soffermarci su “un ciclo di storia, con cui servirà ancora fare i conti, non semplicemente per ricordare e sapere, ma per capire”.
La moderazione salariale del dopoguerra, resa possibile da un modello di sviluppo basato sulle esportazioni, viene incrinata per la prima volta solo dal ciclo di mobilitazioni dei primi anni Sessanta. La quota di reddito destinata al lavoro dipendente passa dal 42% del 1959 al 46% nel 1963. I salari monetari dell’industria manifatturiera cresceranno del 7% nel 1961, del 15,3% nel 1962 e del 16,8% nel 1963, mentre i margini di profitto delle imprese si ridurranno del 20% nel triennio.
Il 1963 vedrà crescere il salario reale dell’8,17%. Risulta confermata da questi dati la valutazione sugli effetti positivi del ciclo di mobilitazioni degli anni Sessanta, dopo la stagione scelbiana e la sconfitta della Cgil nell’elezione delle Commissioni Interne della Fiat degli anni Cinquanta, ciclo di mobilitazione che ebbe come sbocco politico il governo Fanfani del 1962, appoggiato da Dc PSDI e PRI con l’astensione del PSI: il governo dell’istituzione della scuola media unica ed obbligatoria e della nazionalizzazione delle industrie dell’energia elettrica.
Paradossalmente appaiono meno incisivi e quantomeno non segnano un ulteriore decisivo avanzamento gli anni del centrosinistra organico del 1963, con Aldo Moro Presidente del Consiglio e il PSI in maggioranza.
Nelle dinamiche sociali peseranno i condizionamenti di natura politica esterna, ricordati da Pietro Nenni con la celebre espressione del “tintinnar di sciabole”, con riferimento al tentativo eversivo del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Giovanni de Lorenzo, che aveva lo scopo di occupare i centri del potere dello Stato e di imprigionare gli oppositori politici considerati sovversivi secondo le indicazioni del SIFAR, il servizio di intelligence delle forze armate italiane.
Gli anni che vanno dal 1964 al 1967, grazie anche all’intervento dello Stato che favorisce politiche deflazionistiche che colpiscono l’occupazione, vedono il recupero del profitto nella redistribuzione rispetto ai salari di 2 punti.
Il biennio ’68-’69 segna un punto di svolta: la battaglia salariale si arricchisce di contenuti che oltrepassano il contesto di lavoro e vengono ridisegnati i rapporti stessi del lavoro con l’intera società. Sul fronte salariale si assiste a un incremento del salario reale e di quello relativo. Dal 1970 al 1974 il salario reale aumenta del 21,8%, con un ritmo superiore a quello registrato nel ciclo 1960-1962.
La caduta della quota di profitti ridisegna profondamente di assetti e gli equilibri di potere, che non si misureranno nella semplice dialettica lotta sociale e lotta politica, ma vedranno prepotentemente entrare in campo oltre alla controffensiva padronale (nei posti di lavoro e nell’intera società) variabili purtroppo significative come la strategia della tensione, secondo uno schema ricorrente del nostro Paese.
Il 1970 è anche l’anno dell’istituzione e del voto per le Regioni a Statuto ordinario, che inseriscono nel sistema politico italiano ampie articolazioni del territorio governate da maggioranze PSI-PCI, che si sommano ed amplificano la stagione delle “giunte rosse” che dal 1976 arriveranno fino al 1985.
Gli anni che vanno dal 1973 al 1984 vengono definiti da Marta e Simone Fana gli anni della sconfitta: anche se il biennio ‘75’76 segna punti di estremo avanzamento operaio come il punto unico di contingenza, il decennio si chiude con la marcia dei Quarantamila della Fiat passando dalla proposta politica del compromesso storico e dalla pratica dell’unità nazionale. In realtà, a nostro avviso, questa definizione e scansione unitaria non risulta pienamente convincente: sono gli anni della battaglia, scanditi da una serie di passaggi non univoci e dove lo scenario poteva determinarsi diversamente da quanto poi sarà. Il 1973 è l’anno del colpo di Stato dell’11 novembre in Cile, dove il Governo democraticamente eletto di Salvador Allende viene stroncato da un colpo di stato militare ordito dagli USA.
Sono gli anni del punto più alto della messa in discussione degli equilibri sociali, politici e geopolitici, e forse meritano una scansione ed una riflessione maggiormente approfondita, dove le scelte dei singoli attori sindacali e politici si intersecano con le onde lunghe del conflitto sociale e del mondo diviso in blocchi.
Il punto unico di contingenze fu istituito tramite accordo tra Cgil Cisl e Uil nel 1975.
Come non ricordare poi la straordinaria avanzata elettorale del PCI alle elezioni del 1976, 34,37% alla Camera con un più 7,22 rispetto alle elezioni precedenti e un 33,83 al Senato (più 6,22)? Avanzata ancor più significativa considerando l’estensione del voto ai diciottenni per la prima volta. E come dimenticare la Legge 833 del 1978 che segna la nascita del Servizio Sanitario Nazionale superando il sistema delle Mutue o la Legge 392 – sempre del 1978 – che istituiva l’equo canone in materia di affitti?
Chi scrive considera un errore politico la scelta del PCI di dare come sbocco avanzato di Governo alle mobilitazioni l’incontro con le masse cattoliche identificate sostanzialmente con il partito della Democrazia Cristiana – la proposta politica del compromesso storico (che sarà utile ricordare non vide mai la luce, sostituita dal governo di solidarietà nazionale del 1976, un monocolore Dc presieduto da Andreotti con l’astensione del PCI PSI PSDI e PRI), e che sarebbe probabilmente stato preferibile uno sbocco netto di alternativa di governo al sistema della Dc che guardasse al PSI ed alle altre forze della sinistra sociale e politica, tenendo ancora più assieme rivendicazioni operaie e diritti civili. Ma le considerazioni sulla questione cattolica e del partito cattolico in Italia, della messa in discussione degli equilibri democratici ogni qual volta si fosse proceduto in un avanzamento sostanziale nei rapporti di forza, meritano un di più di approfondimento rispetto al rischio di una lettura che seppur in maniera non esplicita rischia di inserirsi nella categoria etico-morale del tradimento – o del cedimento inerte – riprendendo sostanzialmente quanto ampiamente argomentato dall’area politico-culturale dell’Operaismo, in tutte le sue varianti. Ulteriore elemento di complessità l’esperienza della lotta armata, dalla stagione di Prima Linea a quella ben più determinante per gli scenari e gli esiti contemporanei e futuri delle Brigate Rosse. Come non considerare il peso nelle dinamiche sociali e politiche del rapimento di Moro, l’uccisione della scorta, e poi dello stesso leader della DC.
Comunque, al netto della discussione sulle scelte politiche in merito a quale sbocco dare alle mobilitazioni degli anni Sessanta-Settanta, memori anche del colpo di Stato del Cile, i due autori colgono il punto di revisione ideologica nella lettura dei processi sociali che comincia a manifestarsi in questi anni e che diverrà subalternità all’incipiente neoliberismo che manderà in soffitta non solo le teorie e pratiche marxiste ma l’intero edificio keynesiano: il salario variabile dipendente.
Le pagine del quotidiano La Repubblica divengono lo strumento di orientamento di parte significativa dei quadri del PCI e della Cgil che martellano sul mantra della scuola neoclassica che la responsabilità della scarsa competitività dell’economia nazionale fosse da attribuire all’eccessivo costo del lavoro.
Restava tuttavia in piedi una grande conquista del ciclo di lotte che aveva attraversato il Paese, la scala mobile, e la conquista del Servizio Sanitario Nazionale: gli stessi salari crescono senza flessioni dal 1972 al 1981. E questo è un punto di interessante riflessione. Nonostante i processi di decentramento produttivo e di esternalizzazione di intere fasi di produzione verso piccole imprese, favorendo l’outsourcing ed il lavoro a domicilio , nonostante la crisi economica del 1975 i rapporti di forza favorevoli al lavoro conquistati nella lunga stagione degli anni Sessanta arrivano fin agli anni Ottanta.
E’ il 1981, con il divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, il punto di svolta nelle relazioni di sistema e sarà il biennio 1983-84 vedere la sconfitta con l’abolizione prima parziale e poi definitiva della Scala mobile (che l’opposizione del PCI e della maggioranza della Cgil non riuscì, nonostante le mobilitazioni ed il ricorso allo strumento referendario a contrastare).
Gli effetti sul salario si vedono: se tra il 1977 al 1983 le diseguaglianze dei redditi da lavoro diminuiscono, da quel momento esse riprendono ad aumentare.
Non seguiremo la documentata e convincente analisi che i due autori fanno della decisiva – in negativo – stagione degli anni Novanta nel colpire salario e organizzazione del lavoro. Ci preme qui svolgere un esercizio di storia controfattuale reso credibile dalla ricostruzione dei rapporti di forza che i due autori offrono: seppur colpita dalla marcia dei Quarantamila e dalla ristrutturazione e segmentazione del blocco operaio restava ancor viva ed operante la forza accumulata dal ciclo degli anni precedenti. Questo significa due cose: la cosiddetta Marcia dei quarantamila poteva essere gestita come una sconfitta, certamente pesante, ma non come una capitolazione; era possibile utilizzare la non ancora marginale forza accumulata per un riposizionamento di linea politica e sindacale che potesse immaginare uno scenario di resistenza prima, di controffensiva poi. I giochi sul piano strutturale erano ancora aperti, diciamo.
Ed è quello che intuì il Segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer. La scelta di rompere definitivamente dalla proposta del compromesso storico rilanciando l’alternativa di sinistra, di aderire anche fisicamente alla battaglia dei lavoratori e delle lavoratrici della FIAT fino all’adesione all’ipotesi di occupazione delle fabbriche ben consapevole della possibile sconfitta, lo schierare il PCI nello scontro frontale a difesa della Scala mobile trascinando una riluttante Cgil (anche nella stessa componente comunista) nascevano da una lucida valutazione. Vi erano le forze nel mondo del lavoro e nel Paese per operare un riposizionamento netto di linea, rilanciando l’indagine sui mutamenti strutturali dell’economia e del mondo della produzione che erano il vero motivo del logoramento, aprendosi ai pensieri lunghi che rimettevano a tema la stessa questione del socialismo da realizzare per via democratica nei paesi a capitalismo maturo. La storia è andata, purtroppo, in maniera assai diversa, ma diversamente sarebbe potuta andare.
Ancora grazie dunque a Marta e Simone Fana per averci esortato e fatto ricordare che niente è mai deciso per sempre e definitivamente, riaprendo il presente allo spazio della politica: le alternative ci sono. E buona lettura del loro libro.
Questo articolo è stato pubblicato da ForteBraccio il 13 gennaio 2020

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