di Gabriele Crescente
Il fallimento della conferenza sul clima di Madrid (Cop25) ha un valore soprattutto simbolico. Ha infatti materializzato il timore che molti avevano espresso all’indomani dell’accordo di Parigi nel 2015: che al momento di passare dalle parole ai fatti, lo spirito di unità e cooperazione tra i paesi del mondo di fronte alla più grande sfida dei nostri tempi si sarebbe dissolto.
La conferenza era considerata soprattutto una tappa di avvicinamento al vertice di Glasgow del novembre 2020, che dovrà chiudere la fase preliminare del processo avviato a Parigi e inaugurare quella, ben più problematica, della sua applicazione concreta. Le questioni tecniche all’ordine del giorno non erano affatto marginali. Trasferire i crediti di emissione risalenti al protocollo di Kyoto al nuovo sistema che entrerà in vigore dal 2020 e consentire il doppio conteggio di quelli derivanti dall’assorbimento di anidride carbonica significherebbe rendere praticamente inutile questo strumento fondamentale.
Ma l’obiettivo principale era ribadire che lo spirito di Parigi era sopravvissuto al ritiro degli Stati Uniti, avviato formalmente a novembre. I colloqui invece hanno finito per confermare che la decisione di Trump, prima ancora di produrre effetti concreti, ha già avuto una conseguenza devastante: ha sdoganato l’idea che nelle trattative sul clima uno stato può e deve mettere apertamente il suo interesse individuale davanti a quello collettivo. La pressione morale su cui si basava il rispetto di questo accordo non vincolante ne è uscita fatalmente indebolita.
Blocchi di interessi comuni
A Madrid i partecipanti si sono divisi in blocchi tenuti insieme dagli interessi comuni. Molti paesi hanno giocato con il rischio di un fallimento totale per ottenere delle concessioni. Gli Stati Uniti hanno attivamente svolto il ruolo dei guastatori, bloccando la discussione sulla questione dei fondi di compensazione e incoraggiando i paesi meno virtuosi a resistere.
Ma l’aspetto più preoccupante è stato probabilmente l’atteggiamento della Cina. L’impegno del paese responsabile di quasi il 30 per cento delle emissioni mondiali di anidride carbonica era stato la vera buona notizia dell’accordo di Parigi. Ora quell’impegno sembra vacillare. A Madrid la delegazione cinese ha sostenuto le pericolose posizioni di Brasile e Australia sui crediti di anidride carbonica e si è rifiutata di annunciare nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni. Questo atteggiamento riflette la tendenza degli ultimi mesi: preoccupata dal rallentamento della crescita, Pechino vuole puntare sul rilancio industriale e sta costruendo un numero record di nuove centrali a carbone per sostenerlo.
L’Unione europea, che durante il vertice ha annunciato l’obiettivo di azzerare le emissioni nette entro il 2050, rischia dunque di ritrovarsi da sola. A Bruxelles si parla già di come affrontare un fallimento dell’approccio multilaterale alla crisi climatica. Una delle soluzioni ipotizzate dal green deal proposto dalla Commissione europea è la cosiddetta carbon border tax, che dovrebbe compensare il divario di competitività tra i prodotti delle aziende europee sottoposte alla tassazione delle emissioni e quelli provenienti da paesi con regole meno stringenti. Oltre a presentare diverse complicazioni legali, però, questa misura rischia di provocare l’ira dei partner commerciali, come ha avvertito la cancelliera Angela Merkel.
Per la Germania, anch’essa alle prese con il rallentamento della crescita, la priorità è scongiurare una guerra commerciale. Ma evitare una rottura con Pechino, che segnerebbe il fallimento definitivo del processo di Parigi, è una preoccupazione condivisa da molti attivisti.
Nei prossimi mesi ci saranno molti sforzi in questo senso, e l’occasione per misurarne il successo sarà il vertice Unione europea-Cina che si svolgerà a Lipsia a settembre. Se l’Europa riuscisse a ottenere da Pechino un impegno concreto sul taglio delle emissioni, potrebbe essere ancora in tempo per invertire l’inerzia in vista della conferenza di Glasgow.
Questo articolo è stato pubblicato da Internazionale il 17 dicembre 2019