di Cristina Ibba
Il Fatto quotidiano del 30 ottobre 2019 titolava così: “Incendi in California, per la prima volta è allarme rosso estremo: riguarda 26 milioni di persone. Quasi 2 milioni le persone rimaste senza luce e gas. In fumo decine di migliaia di ettari, decine di migliaia le persone evacuate a Los Angeles e zone limitrofe”.
L’Amazzonia brucia, la Siberia e l’Alaska bruciano, i ghiacciai della Groenlandia si sciolgono a ritmo vertiginoso, così pure la banchisa polare. Gli scienziati che si occupano di clima sono unanimi (ormai i negazionisti si trovano solo tra politici e giornalisti conniventi): la crisi climatica è già scoppiata.
Fino a pochi anni fa la deadline dell’irreversibilità era stata posta a fine secolo, con il vertice di Parigi (2015) al 2050, a Katowice (2018) al 2030, per i glaciologi tra 3-5 anni. Qual è la strada che l’Italia ha deciso di percorrere? Quali strategie ha messo in campo l’Ue?
Diciamo che sulla carta l’U.E. avanza verso obiettivi ambiziosi da raggiungere entro il 2020:
- ridurre i gas ad effetto serra del 20%;
- ridurre i consumi energetici del 20% aumentando l’efficienza energetica;
- soddisfare il 20% del fabbisogno energetico con le energie rinnovabili.
È un’Europa a macchia di leopardo, con esempi virtuosi e altri meno green. I paesi virtuosi si trovano tutti nel nord Europa. Spicca il primato della Svezia con il suo 54% di energia da fonti rinnovabili. Inoltre è già riuscita a ridurre del 24% le sue emissioni di gas serra e mira a diventare carbon free prima del 2050. Infatti ha la più alta carbon tax del mondo, introdotta gradualmente già dal 1991( dopo il vertice di Rio del 1990). Ogni cittadino svedese emette in media ¼ di CO2 rispetto ad uno degli USA. Nell’U.E. Ci sono altri casi virtuosi : la Finlandia, la Lettonia, la Danimarca, l’Austria con quote di rinnovabili tra il 30 e il 40%. L’Italia è circa al 17%.
I paesi sicuramente bocciati sono invece l’Olanda e la Francia con il 12,6% e il 13,3%. A dispetto dei popolari mulini a vento, il mix energetico olandese è quasi monopolizzato dai combustibili fossili: gas naturale in primis, di cui è uno dei maggiori produttori europei.
Il progetto del metanodotto in Sardegna dove si colloca e perché si recupera ora un progetto che sembrava ormai obsoleto, viste anche le spinte europee per il superamento delle energie fossili? Questo progetto del metano, del costo di 1,5 miliardi di euro, non è destinato ai sardi, visto che raggiungerebbe solo pochi comuni della zona occidentale, tralasciando totalmente tutta la parte centrale e orientale, ma semplicemente utilizzerebbe l’isola come centro internazionale di stoccaggio e distribuzione.
Perché ancora una volta la Sardegna? Forse perché noi sardi dal 1966 sopportiamo stoicamente che a Sarroch, seconda raffineria d’Europa e la più grande del Mediterraneo, si lavorino 15 milioni di tonnellate di petrolio l’anno, e che nella stessa area sorga il più grande ciclo di gassificazione del mondo, che impiega impiega rifiuti di raffinazione per generare energia. Produciamo un quantitativo di energia tre volte superiore al nostro fabbisogno e ci riempiamo di inquinanti atmosferici come il benzene, l’etilbenzene, la formaldeide, metalli pesanti quali cadmio, cromo, piombo e composti del nichel. Per non parlare dei 35.000 ettari di terreno di servitù militari (il 70% del totale italiano). In questo bel quadro di sfruttamento e inquinamento dei suoli la tanto decantata civiltà agro-pastorale della Sardegna è solo una favola visto che l’80% del cibo che consumiamo nell’isola è importato.
Perché quindi queste scelte politiche? Perché le élite finanziarie che dominano il pianeta (le corporations) sono indissolubilmente legate ai combustibili fossili : sottoterra ci sono ancora miliardi di tonnellate di carbone, barili e barili di petrolio, metricubi di gas, tutti quotati in borsa, come sono quotate in borsa le imprese che producono merci legate al petrolio: dalle auto, alle armi, dagli aerei, alla plastica, dalle autostrade, alle navi da crociera, senza dimenticare i trattori e le altre macchine per l’agroindustria. Inoltre, come spiega molto bene Naomi Klein in “Una rivoluzione ci salverà”, i signori del petrolio e del gas sanno bene che il transito ad un nuovo regime energetico non è un puro fatto tecnico: comporta il passaggio da un sistema centralizzato in cui il potere e la ricchezza sono concentrati nelle mani di pochi, ad un sistema decentrato in cui potere e risorse possono essere distribuite.
Politici, sindacalisti e buona parte del mondo accademico finora hanno mostrato di non essere in grado di guidare la transizione energetica, perché continuano ad invocare uno sviluppo sostenibile vincolandolo alla crescita economica, senza mettere in discussione gli stili di vita e tenendo al centro del processo le imprese e i mercati. Penso invece che la svolta sostanziale possa avvenire solo mettendo al centro il conflitto verso le politiche sviluppiste ed estrattiviste.
Per fortuna molto si muove e si è mosso in questi anni: gli studenti dei “Fridays for future” sull’esempio di Greta, movimenti come “Extension Rebellion” che è riuscito ad ottenere la prima dichiarazione di emergenza climatica da un parlamento, bloccando Londra per due settimane. Poi c’è il più grande movimento dei nostri tempi “Via Campesina” che riunisce 400 milioni di contadini, i popoli indigeni in lotta contro la devastazione dei loro habitat (in Amazzonia, in Canada…), movimenti già fortemente intersecati da altre correnti di pensiero e di azione impegnate nella prospettiva di un mondo diverso: il movimento transfemminista “Non Una di Meno”, i movimenti di solidarietà ai migranti, i movimenti NO TAV e NO TAP, i movimenti contro la guerra e le armi.
Ci sono poi dei piccoli e piccolissimi comuni in Italia, raccontati nel rapporto di Legambiente del 2019 (Comuni rinnovabili) dove si sono create delle vere e proprie comunità energetiche : 3054 autosufficienti per i fabbisogni elettrici, 50 per quelli termici, 41 rinnovabili al 100% per tutti i fabbisogni delle famiglie. Un modello sempre più distribuito che rappresenta una straordinaria opportunità di sviluppo locale in chiave di sostenibilità ed economia circolare, capace di aprire anche nuove opportunità occupazionali oltre che ridurre la spesa energetica complessiva.
Insomma per realizzare concretamente la conversione ecologica sono necessarie sia le azioni di resistenza e di lotta, sia le azioni concrete, affinché la condivisione diffusa delle risorse energetiche (ma non solo ) si faccia egemonia (e non solo culturale).
Questo articolo è stato pubblicato dal Manifesto Sardo il 15 novembre 2019