1989: la Svolta vista dai figli della Bolognina

20 Novembre 2019 /

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di Eduardo Danzet
Martedì 12 novembre, in Sala Borsa, si è tenuta la kermesse di “Cade il muro, cambia il mondo”, promosso da Fondazione Duemila, in occasione dei 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino. Ospite principale è Achille Occhetto, che presenta il suo libro “La lunga eclissi”, insieme a Piero Fassino, Romano Prodi, Nicola Zingaretti (in un breve video dagli Usa), Claudia Mancina e Mario Ricciardi.
A moderare il dibattito vi è Luigi Tosiani, segretario bolognese del PD, per cui non c’è da stupirsi di una sala riempita dallo stato maggiore e dalla militanza dem. L’appuntamento è “particolarmente sentito” – usando un eufemismo – nella città in cui l’ultimo segretario generale del Partito Comunista Italiano avviò la “Svolta della Bolognina”: tre giorni dopo l’evento che segnò la fine del socialismo reale, nella sezione dell’omonimo quartiere proletario, Occhetto avrebbe annunciato il cambio, di nome e di simbolo, del Partito più importante di sempre nella Sinistra europea e della democrazia italiana.
La sensazione che si ha dagli interventi – sarà per l’età media del pubblico – è quella di un ripensare faticoso a un periodo storico di affanni, dall’incedere pesante ed elefantiaco, come i relatori hanno descritto il PCI. Nelle sue dichiarazioni conclusive, Occhetto completa il racconto di Claudia Mancina e Piero Fassino, secondo i quali il Partito Comunista era un organismo pachidermico e chiuso, governato da un gruppo dirigente di pochi illuminati, di cui tuttavia rivendicano paradossalmente l’appartenenza.
Inoltre, per loro il PCI era soprattutto identificabile col mondo finito col Muro di Berlino, per cui considerano un bene la Svolta, l’adesione all’Internazionale Socialista e la fondazione del Partito Socialista Europeo, che vedono ancora come sola e legittima dimostrazione di un certo patriottismo europeo.
Con la fine della divisione della Germania, sarebbe radicalmente cambiato il modo di fare politica e lo scenario internazionale, i partiti politici allora presenti non sarebbero esistiti più, dunque bisognava cambiare e spogliarsi di quei simboli e di quel nome scomodi, per non sparire ma aprirsi al nuovo.
Il nuovo era rappresentato dall’accettazione della stagione di riforme maggioritarie delle regole istituzionali, nonché dall’adesione alla socialdemocrazia, lodata come la forma più avanzata del progressismo di matrice laburista/operaia.
Che questa ricostruzione sia pretestuosa, è certificata dal forte legame del Partito Comunista col mondo del lavoro e da come i cittadini partecipassero attivamente alla sua azione politica. Inoltre la crisi democratica e istituzionale di Tangentopoli confermò come quella forza politica fosse immune al capillare sistema di corruzione, che avrebbe cancellato per sempre, tra mille scandali, DC, PSI e il vero muro che impediva ai comunisti di governare: il Pentapartito.
Tutto ciò non conta per Occhetto, che lascia intendere che avrebbe rifatto tutto, con l’unico rimpianto di non aver accelerato abbastanza la trasformazione dell’Ulivo da cartello elettorale a partito unico, del quale Fassino e gli altri relatori riconoscono l’eredità nel PD.
La conclusione dell’ex-segretario del PCI, citando dei passi del suo ultimo libro, esamina gli errori del riformismo globale, che non ha imparato la lezione della vittoria delle destre: la mancata critica al neoliberismo, facendosi travolgere dalla Terza Via di Blair, l’abbandono delle istanze del mondo del lavoro e il rifiuto della contaminazione, per cui aveva attuato la Bolognina.
L’intervento in Sala Borsa, insomma, completa le sue recenti dichiarazioni sui media, sulla mancata comprensione di cosa la Svolta fosse, i cui presupposti e il cui processi sono ancora sospesi, divenendo oggigiorno improcrastinabili per la rigenerazione della Sinistra.
Chi vi scrive è nato a ridosso della fine dei regimi dell’Est e ha partecipato all’incontro per capire come si è arrivati, dal partito dei racconti pieni di nostalgia ed entusiasmo dei propri genitori, comunisti mai pentiti, fino al PD, alla cui nascita hanno smesso di votare per il centrosinistra.
Inoltre, essendo un lavoratore interinale, sottopagato, sfruttato, che stenta ad accettare di vivere ancora a casa coi suoi o, in alternativa, in un appartamento condiviso coi suoi coetanei, tengo bene a mente i motivi per cui i miei colleghi votano Salvini: il rifiuto di far parte di una situazione che non abbiamo scelto; l’angoscia di averci imposto di lavorare fino agli ultimi giorni della nostra vita, senza prospettiva di una pensione e in un mercato del lavoro in cui, per lavorare, dobbiamo accettare passivamente ogni tipo di umiliazione, senza che ci sia qualcuno che ci difenda; la rabbia verso un sistema che non solo non ascolta le nostre inquietudini ma, con irritante arroganza, ci chiama “viziati” e “bamboccioni”, perché chiediamo stabilità nella nostra posizione lavorativa e, più in generale, nella vita.
Siamo costretti a curarci quando non riusciamo nemmeno a stare in piedi, perché non possiamo sostenere il costo dei ticket e dei farmaci, sui quali la copertura della “mutua” non esiste più. Siamo la generazione che pensa: “il mio collega è il nemico da distruggere perché, se lavora meglio di me, mi farà fuori, soprattutto se è pakistano, cingalese o “negro”, perché accetta ogni condizione. E oltre al negro, la colpa di tutto questo è colpa dei comunisti – o forse presunti tali – che finora votavamo perché i nostri genitori ce lo chiedevano.
Ora non li votano più neanche loro, perché la cooperativa in cui lavoravano da 30 anni li ha sbattuti fuori e ora devono campare di lavoretti, fino alla pensione a 66 anni e perché ci hanno portato i negri, a mo’ di ciliegina sulla torta. Ci dicono che abbiamo vissuto finora oltre le nostre reali possibilità, che ora dobbiamo fare sacrifici ma non loro, i comunisti, che hanno il loro posto fisso in Parlamento, con scorta, auto blu e pensione in pochi anni di servizio”.
Dal punto di vista politico, è facile comprendere come la Bestia di Salvini si nutra di questo malessere, provocato dalle principali riforme del centrosinistra nato dalla Svolta della Bolognina: riforma Dini; riforma Damiano (sindacalista della CGIL, creata da Giuseppe Di Vittorio!); riforma Fornero; Pacchetto Treu; Jobs Act; Tari; Tasi; Sblocca Italia; riforma Zecchino-Berlinguer (perdonatemi la battuta: non “quello buono”); riforma Foroni, eccetera.
Costato incredulo che i presenti tentino di evadere questi temi cruciali. E nessuna parola sulle uniche esperienze fertili in giro per l’Europa, unici argini al nazismo del III millennio: Bloco de Esquerda, Linke, Syriza, Unid@s Podemos, con queste ultime due molto più vicine all’idea di svolta che aveva in mente Enrico Berlinguer.
Occhetto tenta velatamente di discuterne, invitando infine il PD a parteggiare coi lavoratori, non col capitale finanziario ma ciò non toglie il senso di provincialismo, con cui si parla dello stato di salute attuale delle forze progressiste.
Risulta condivisibile la sua individuazione nell’incompiutezza della Svolta quale causa dei problemi della nostra democrazia, poiché il PDS-DS-PD si è lasciato trascinare dalla sbornia liberista di Blair: potere alle imprese; stato assente; più licenziamenti; protezione sociale ridotta all’osso o nulla; business su salute, scuola, non autosufficienza e welfare; sindacati di yesmen; partiti che sono diventati gruppi di potere, interessati a disinformare e non a informare e organizzare la cittadinanza.
Tuttavia, manca dell’onestà di ammettere che ciò non poteva che essere la naturale conseguenza, quando la caduta del Muro diventa l’occasione di seppellire Berlinguer sotto le sue macerie, l’unico politico che ne era estraneo e che aveva previsto il collasso dell’Occidente. Come nei più classici complessi di Edipo, i suoi figli l’hanno ucciso, credendo di affermare la propria identità ma perdendola comunque, perché uccidendolo hanno spazzato via le proprie radici.
Come per uno scherzo del destino, il politico sardo aveva redarguito i dirigenti del PCI, prima di morire, sull’avventatezza della loro proposta di cambio di nome e simbolo: “secondo qualcuno il nostro partito dovrebbe finire di essere diverso, dovrebbe cioè omologarsi agli altri partiti. Veti e sospetti cadrebbero, riceveremmo consensi e plausi strepitosi, se solo divenissimo uguali agli altri, se decidessimo di recidere le nostre radici, pensando di rifiorire meglio. Ma ciò sarebbe, come ha scritto Mitterrand, il gesto suicida di un idiota”.
In effetti, la parabola dell’ultima generazione di politici provenienti dal Partito Comunista, ruota tutta intorno a quelle parole forti del loro leader: è stata caratterizzata dalla normalizzazione, dall’entrata nel Governo, anche in maniera spregiudicata, anche tenendo in vita un Berlusconi ridimensionato solo dalle imponenti manifestazioni di piazza, allo scoppio del Ruby-gate.
Come affermava Berlinguer, alla normalizzazione sono seguiti “consensi e plausi strepitosi” ma, in fin dei conti, si sono solo dimostrati uguali agli altri, come molti elettori, delusi della Sinistra, testimoniano col voto a Salvini per ripicca o con l’astensionismo. A conclusione del cerchio, Occhetto e la “generazione dei quarantenni” che lo sostenne, composta da Mussi, D’Alema, Bersani, Veltroni e lo stesso Fassino, 30 anni fa recise le proprie radici, “pensando di rifiorire meglio”.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti, dovuti allo smarrimento della propria identità, poiché, citando Seneca, “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. Sia chiaro che a Occhetto va riconosciuta l’autenticità di un tentativo che aveva ragioni storiche, con la fine della Guerra Fredda; tuttavia l’operazione fu condotta in maniera approssimativa, incompleta e arrogante, riducendo la Sinistra italiana al corpo senza nervi della distopia pasoliniana.
Ricostruendo i passaggi della Bolognina dall’ottimo articolo di “Qualcosa di Sinistra” e dall’intervista del Manifesto ad Aldo Tortorella, se ne individuano i tratti salienti: le truppe cammellate, le promesse di lavoro, la divisione in conservatori e innovatori.
Una menzione particolare va allo spirito di Budapest, come ci ricordano i ragazzi di QdS: cioè la perversa forma mentis degli ex-comunisti ungheresi (primi al cambio di nome e simbolo), secondo la quale “la dirigenza nazionale ha sempre ragione”, anche quando ha palesemente torto o risulta incoerente.
Si trattava di un mix letale con la concezione del partito-chiesa, che caratterizzava il militante comunista. Era questo un grande difetto del PCI, che ha inficiato non poco l’esito disastroso della Svolta della Bolognina, creando un gruppo dirigente spocchioso e che crede di campare in eterno di rendita, con dei militanti talmente sudditi e acritici, da sembrare in preda a una eterna Sindrome di Stoccolma.
Il pensiero torna all’orgoglio di Occhetto per l’adesione al sistema maggioritario, anticipato da Claudia Mancina che, invece di parlare della contaminazione del femminismo nel PDS, accusa di feticismo chi sollevò all’epoca più di un dubbio. Proprio Tortorella, sulle colonne del Manifesto, dichiara come centrale nella Svolta fu la parola d’ordine “«sbloccare il sistema politico». Non ci si accorgeva che il sistema era marcio e si assumeva sul partito comunista la colpa di aver bloccato il sistema”.
In effetti, l’intervento di Romano Prodi lascia intendere come la presenza del PCI sulla scena politica italiana fosse un muro, simile a quello che divideva Berlino, per cui la fine della Repubblica Democratica Tedesca è stata accolta con sollievo: c’era fretta di andare al governo e di fare le riforme di cui il Paese necessitava (a giudicare dalle conseguenze, forse non erano così prioritarie).
Gli fa eco Zingaretti che, nel suo videomessaggio dagli Usa, dichiara che se può presenziare al Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca, deve ringraziare quegli eventi drammatici ma necessari, identificati nella fine del Comunismo e nella Bolognina,
Spesso, in chi ha vissuto quei momenti, il giudizio su cosa siano effettivamente stati, se siano ancora attuali e a cosa abbiano portato, tornano ciclicamente come una ferita che probabilmente non si rimarginerà mai; tuttavia, con lo sguardo di chi è nato o cresciuto dopo la caduta del Muro ed è attivo nella Sinistra, risulta difficile non concordare con Tortorella.
Certamente comprendiamo il tentativo di Occhetto di uscire da una situazione di mortale isolamento, nazionale e internazionale, nonché di disinnescare la Strategia della tensione, (si pensi alla scoperta della Gladio nel 1984), che avevano origine nella stigmatizzazione della natura del PCI: un partito che metteva in discussione un modello di società che, con la crisi del 2007, è fallito.
Eppure noi giovani di Sinistra sentiamo forte “il richiamo della foresta” del PCI, di quell’esperienza unica al mondo, che torna prepotentemente nel pensiero comune, nel dibattito, nell’attualità politica e negli articoli della nostra carta costituzionale.
A Berlinguer e a Ingrao – altra figura scomoda, esiliata già in vita nel dimenticatoio dai riformisti italiani – dobbiamo la nostra concezione politica, della contaminazione con diverse culture politiche, accomunate dall’esigenza di un mondo governato secondo la libertà e la giustizia sociale.
Noi avvertiamo forte la loro influenza nel nostro agire politico quotidiano ma ci troviamo nell’impotenza e, nella conseguente frustrazione, di non essere all’altezza di scrivere nuove pagine della storia forse più bella del nostro paese.
Spesso fatichiamo a ritenerci minimamente capaci di ricostruire un ponte con quella tradizione, nel deserto culturale, politico e umano del nostro presente, nel quale non abbiamo scelto di vivere, continuiamo a replicare le stesse dinamiche perverse che lo hanno portato.
È plausibile ritenere che ciò sia dovuto alla difficoltà, al tempo e agli sforzi necessari per costruire quel qualcosa di nuovo, di cui il primo gruppo dirigente del PDS non è stato capace. Occhetto non ha evitato – o non ha voluto evitare – che il crollo del Muro travolgesse soprattutto la concezione della politica intesa come capacità di stringere alleanze, che era il vero segreto del successo del PCI.
Tutte ciò è imputabile in ultima analisi a come fu impostata la Svolta: un tentativo avventuristico, nato male e sviluppatosi peggio col PD, di una classe dirigente che, per il governo a tutti i costi, ha lasciato macerie ben più grandi di quelle di Berlino.
Oltre all’aver dato sponda “inconsapevolmente” al sovranismo leghista, le dinamiche della fine del PCI caratterizzano tuttora la vita delle formazioni della Sinistra, soprattutto nelle fasi congressuali: toni esacerbati, polarizzazione del dibattito e scissioni.
Una sorte, per certi aspetti, toccata a Rifondazione Comunista al Congresso di Chianciano Terme, nel 2008, che ha seguito anche l’evoluzione del movimento “Rifondazione per la Sinistra”, di Nichi Vendola, uscito da Rifondazione per creare Sel e poi Sinistra Italiana.
In effetti, forse davvero siamo ancora lontani dalla comprensione totale della fine del socialismo reale, per l’incapacità di un punto di vista alternativo all’esaltazione acritica, da un lato, come dall’abiura dall’altro, quando non diviene vera e propria demonizzazione.
Forse è questa “la macchia” vera e propria del gruppo dirigente del PD e di Occhetto: non tanto l’essere (stati) comunisti, quanto l’aver pretestuosamente eguagliato il Comunismo con i totalitarismi dell’Est, quando esso è stato, è e sarà qualcosa di più ampio di quelle tragiche esperienze. Rappresenta una grande colpa aver gettato nello stesso mischione il comunismo italiano e il suo leader più rappresentantivo, visti come una minaccia dai sovietici.
Ma ciò che più fa sorridere di quei capitani coraggiosi, in un quartiere di Bologna che oggi soffre l’acuirsi delle povertà vecchie e nuove, è una strana ironia della sorte, che fa paio con le parole di Berlinguer.
Volevano prendere come pretesto il crollo del Muro per abbatterne uno, quello dell’identità fondata sull’Articolo 3 della nostra amata Costituzione ma, alla fine, hanno solo costruito nuovi muri: una dirigenza e una base tronfie, arroganti e isolate dalla società, per non parlare di un sistema politico che isola e umilia qualunque istanza di cambiamento, che viene raccolta dai fascismi vecchi e nuovi.
Insomma, tenendo conto degli sbagli degli ex-PCI, il convegno si sarebbe dovuto intitolare “2019. E’ cambiato il mondo, cambiano i muri”. Al di là del diverso giudizio che si può avere sulla svolta della Bolognina e sui suoi protagonisti, noi giovani sentiamo la loro stessa consapevolezza di non bastare da soli a rimettere insieme i pezzi della Sinistra italiana, impresa probabilmente alla portata delle generazioni future.
Oggi non neghiamo la necessità della Svolta ma che non fosse condotta come 30 anni fa, nella partecipazione allo sfascio del sistema-paese e all’inciucio coi poteri forti, che ne erano i diretti responsabili. Riteniamo, bensì, giusto che essa verrà completata – e avrà un senso – solo nel reciproco rispetto della pluralità dei soggetti che hanno radici negli sviluppi recenti del movimento operaio: di natura sindacale, femminista, ecologista, antirazzista, antifascista, antimafiosa e legalitaria, tutti uniti nel superamento del capitalismo e nel compromesso di stringere alleanze strategiche per la trasformazione sociale, che caratterizzavano il pensiero di Gramsci, Togliatti e Berlinguer.

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