Una infinita tragedia americana

13 Novembre 2019 /

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di Silvia Napoli
Sono destinati ad aprire discorsi, a porre domande, a sollecitare dubbi e a farci guardare tutti un po’ dentro al fondo del nostro immaginario occidentale, due lavori teatrali visti in sequenza e di grande richiamo pubblico dato il loro non esaurirsi in questa settimana di programmazione. Sto parlando evidentemente in primis del debutto tutto bolognese di questo Valle dell’Eden di Antonio Latella, già attore e acclamata rivelazione registica,consacrato poi alla direzione della biennale Teatro di Venezia.
Trasposizione teatrale, preceduta da mesi di lettura pubblica sequel dal romanzo mondo di Steinbeck, che si divide in due tranche a genealogia familiare, ricalcando il meccanismo dello sceneggiato a puntate, per tenere avvinti e fidelizzati gli spettatori o semplicemente ristorarli e prepararli,sulle orme di una saga di cui, per la verità Latella smorza il più possibile gli aspetti pittoreschi evocativi e paesaggistici, saga di cui vedremo gli esiti la prossima settimana dunque, prima dell’avvio di una tournée teatrale a caratura nazionale. La produzione è del resto impegnativa, coinvolgendo ERT, Teatro Stabile dell’Umbria e Teatro Metastasio di Prato.
Per quanto riguarda il secondo spettacolo, stiamo invece parlando di Overload, lavoro vincitore del premio UBU 2018, inserito nella proteiforme programmazione targata Agorà che si estende a collaborazioni, sinergie e spazi interregionali per omaggiare, nel caso in questione, la giovane compagnia toscana Sotterraneo che nel corso di fine 2019 e prima parte del 2020, riproporrà studi, lavori compiuti, spettacoli e laboratori per l’infanzia e replicando in gennaio a Ravenna questo vibrante Overload passato al Teatro Betti di Casalecchio. Un teatro sotto la guida di Cira Santoro molto attento a selezionare il meglio dal punto di vista delle nuove generazioni sia come produttrici che fruitrici di contenuti, con un occhio di riguardo ormai consolidata attitudine, rispetto alle nuove forme familiari e ai loro bisogni rappresentativi.
Come sempre, il mio tentativo non sarà quello di equiparare spettacoli molto molto diversi tra loro, ma di riflettere in questo caso, su come questo passaggio di secolo, di più, di millennio, non sia evidentemente cosi metabolizzato come parrebbe dalla vertiginosa accelerazione che i flussi di informazioni e di dati ci vogliono far credere. Ci sono forse categorie etiche, sentimentali, emotive, che andrebbero ancora pensate e discusse.
In questo senso, Valle dell’Eden, si inserisce perfettamente nella titolazione che la Direzione di Ert ha voluto per questa nostra stagione:ovvero, bye, bye,900?, dove aleggia già un’aura gentile di conti in sospeso che certo ci riguarda tutti, affezionati o meno dei palcoscenici.
Del resto, Steinbeck stesso, immagina una sorta di epopea intima e universale, quando sceglie di narrare in forma cronachistica una storia che affonda le sue radici nel 1860(e noi, non abbiamo forse la stessa data come storicamente topica?),dalla guerra civile americana, in pratica, fino alla fine della prima guerra mondiale e all’inizio degli anni 20. Questo è forse il momento in cui, più si legano e globalizzano le sorti del mondo in un processo di avvicinamenti e allontanamenti precipitoso, senza precedenti, tutt’altro che concluso e scontato negli esiti.
E in qualche modo il gelido impianto rappresentativo proposto da Latella a esemplificare anche la scelta di intelligente condensazione drammaturgica, non può non richiamare i tanti fallimenti del secolo breve, il senso di magazzino abbandonato che ogni fine epoca si porta dietro ineluttabilmente, il vuoto da transizione, ma anche una sorta di buco nero concentrazionario carico di sensi di colpa, sensi di colpa per la violenza passata da cui si genera il presente, il nostro eterno presente, in questo senso, ma anche con formidabile scatto preveggente, consentito dall’assist biblico offerto dallo stesso autore, senso di colpa a venire.
Così, le storie familiari che fanno da perno al racconto, opportunamente asciugate, pur nell’agio ereditario, non ci parlano di una felice pionieristica e fondativa corsa ai metalli californiani, quanto dell’inevitabile destino migratorio degli umani. E nonostante qualche cappello da cowboy, nei vestiti vagamente atemporali, nelle tirate dialettiche tra i personaggi o quasi filosofiche nel caso del servitore cinese, o febbrili come nel caso di Samuel Hamilton, il debordante rabdomante del resto irlandese, pronti peraltro a confrontarsi tra loro sul tema della diversità, più che dalle parti del sogno americano, siamo dalle parti di Pirandello o di un romanzo russo. Insomma c’è tanto di cultura europea in questa storia, e pochissima splendente California, evocata sempre come miraggio anche quando i personaggi già ci sono.
In questo la messinscena è filologica, perché per la verità il romanzo che Steinbeck considerava summa della sua arte e del suo pensiero, in inglese suona come :ad Est dell’Eden, cioè, nella Genesi, il luogo a Nordest dell’Eden, dove è condannato a confinarsi Caino, discendente di una primigenia ribellione all’ordine delle cose.
Come in certi lavori teatrali delle ultime avanguardie novecentesche, sto pensando a Kantor, a Bausch, sono importanti indizi drammaturgici le sedie e le scarpe, le prime usate per scandire sorta di set, di pause, di brevissime tregue o cambio di ruolo e atmosfera tra i personaggi, ma finiscono per accentuare, sempre in opposizione all’idea dei grandi spazi e paesaggi che domina la letteratura americana, invece l’inevitabile ronde tra loro e la difficoltà di cambiare il proprio destino, quando sono le relazioni a imprigionarci, più che la libertà o meno di movimento. Le scarpe vengono messe e tolte di continuo, usate come strumento percussivo alla Kruscev, per intenderci, esibite feticisticamente come le stesse estremità inferiori, grazie a sorta di piani sequenza voyeuristici creati ad hoc, dalla saracinesca da container che si alza e abbassa ripetutamente in maniera opportuna a tagliare la scena e isolare i personaggi in assolo:ancora, il cielo, comunque lo si intenda, è ben lontano, si sta piantati in terra e i personaggi, appunto, per quanto in lingua inglese, mettersi nei panni di un altro, suona come camminare con le scarpe di questi, sono ben lungi dal riuscirci.
Di Adam Trask, il quasi protagonista del racconto, l’uomo buono, o meglio “giusto” della storia, una sorta di idiota dostoevskjano, equidistante da tutto e dunque incapace di cogliere veramente i sentimenti altrui, genialmente il regista sceglie di mostrarci ostinatamente la schiena imperscrutabile ma in tensione, sia nei confronti –scontri con il fratello Charles, che nelle copule meccaniche e quasi rituali somministrate dalla donna Vamp Cathy, una magnetica Elisabetta Valgoi che gli si oppone ontologicamente in tutto e che ci ricorda la bionda, sfrontata indifferenza di una Schygulla. Il tema del due, del doppio, è costante ben oltre il dramma tra fratelli e si risolve in un costante scacco, perché, come si diceva, non vi è mai complementarietà o compenetrazione ed il dualismo risulta solo una snervante alternanza di opzioni. Hamilton, del resto più che un esuberante ragazzone ottimista, è un maturo rotondo fool shakespeariano e rende tragica e mitica come la ricerca di un Graal quella di una vena d’acqua.
Il servo cinese si muove moltissimo in opposizione alla maggior staticità degli altri, ma sempre per piccole circolarità e con movimenti rattrappiti da giocattolo a molla a sottolineare un certo faticoso ruolo di raccordo e voce di buon senso da portare avanti come in ogni tipologia di romanzo anglofono fornito di mamie o governante, da Cime tempestose a capanna dello zio Tom. Le molte trasposizioni filmiche del romanzo di Steinbeck, sono come graficamente accennate da lontano in una postura all’americana di uno dei fratelli nella prima parte prima dell’intervallo e nulla più, ma filmica come un doppiaggio risulta la recitazione per via degli attori che sono palesemente microfonati in scena a sottolineare le loro affermazioni.
Sì, perché da sola questa prima parte, in realtà preparatoria alla vera tragedia delle conseguenze, dura due ore e mezza, che richiedono massima attenzione e dunque una pausa anche per gli spettatori: concentrazionario è anche il loro spazio e in questo è il senso di essere nella stessa barca, perché lo spettatore viene privato della sua comfort zone per eccellenza, il famoso vellutato buio in sala. Si sta infatti a luci accese in sala dal primo all’ultimo minuto ed è effettivamente un poco come stare in cattività e in quelle situazioni alla Stammheim, dove appunto non si poteva dormire e si era presumibilmente sorvegliati in cella costantemente. Scartare una caramella diventa molto difficile in questa situazione, ma molto facile applaudire convintamente agli attori, tutti superbi per la concentrazione enorme loro richiesta e l’adesione ad un progetto che si intuisce totalizzante nella sua ambizione.
Mentre scrivo, è in programmazione l’unica anticipatoria, ce ne sarà solo un’altra tra qualche giorno, replica integrale dello spettacolo fiume o maratona: Latella non è nuovo, del resto, a cimenti del genere e la seconda parte in cui entreranno in scena i gemelli partoriti da quella che verrà consacrata come dark lady da tradizione, avrà una durata ancora maggiore. Passato il voluto effetto lente di ingrandimento che sembra focalizzarci tutti sui dettagli, si riesce, prendendo le dovute distanze a vedere tutto il paesaggio di uma commedia del secolo breve e anche un compendio di autori che hanno attraversato il regista stesso. sarà molto interessante verificare se il nostro artefice, sceglierà di cambiare registro espressivo nello sciogliersi della vicenda.
Anche Overload, sovraccarico, si innesta su un pretesto di matrice letteraria, guarda caso statunitense e guarda caso, più che riferirsi ad un testo preciso, sceglie un autore, che forse, potrebbe essere un altro, se non fosse che questo è per l’appunto, nel biopic di se stesso che gli viene messo intorno, il più transeunte di tutti perché scomparso tragicamente sulla soglia del passaggio ad altro secolo e millennio, finendo cosi per raccontarci un po’ tutti. Stiamo infatti parlando di quel David Foster Wallace, ragazzone geniale in sneakers e bandana, ai limiti dell’autismo, implacabile, ossessivo osservatore di una realtà cosi bulimica da divorarsi limiti, contorni e distinguo. Tutto ciò che potrebbe rassicurarci come le coordinate spazio temporali o le buone sane divisioni tra regni naturali vengono abbattute, ibridate a costituire stranissime creature da sogno lisergico nella vertigine cumulatoria tipica della filosofia esistenziale nerd. Overload è figlio e nipote di un filone espressivo performativo che ora chiamiamo avant pop, ma che ha una lunga storia alle spalle ormai e che acquista in freschezza e plausibilità da parte dei ragazzi di Sotterraneo, davvero in “bolla” nella loro trasferta bolognese, perché evita abilmente lo sbrodolamento generazionale decadente accettando il rischio di raccontarci una storia.
La storia viene sapientemente frammentata da irruzioni e interruzioni interattive che materializzano meteoriti di immaginario ultrapop e personaggi improbabili, ma che non sono altri che i nostri equivalenti di creature come le sirene, le chimere o altre entità mitologiche e sono funzionali all’affiorare di isole di divertimento all’interno di una vera tragedia americana, proprio li, nella valle dell’eden californiana.
Valle dove Wallace si era rifugiato in funzione antidepressiva, ma la storia è quella, senza happy end di una tranquilla giornata da suicida, perché in fondo, nessuna pur ricchissima immaginazione può portarci attualmente oltre il caos programmatico del sistema, come ben ha sperimentato, schiantandosi, chi ha osato sfidare il realismo capitalista, al pari del nostro.
Ma anche la nostra leggera, superficiale giornata senza attenzione, devota solo allo spreco di sé, può diventare quella di potenziali suicidi a nostra insaputa, come si incarica di dimostrarci la spiazzante appendice di macabro umorismo che la compagnia recita a proprio nome, inscenando step by step uno stupido evitabilissimo quanto ineluttabile incidente stradale dove infine nella morte, avviene la ricomposizione fra regni e stati di natura. Morte che, peraltro, non serve neanche in questo caso, a differenziarci da un pesce rosso boccheggiante, forse più parlante e veritiero di noi esattamente come i misteriosi animali delle fiabe edificanti sono. Calorosa tifoseria tra il pubblico di tutte le età e certezza del fatto che questo lavoro però, se proposto ai giovanissimi risulterà appunto edificante e parlante più di tanti pur pregiatissimi classici fruiti goliardicamente d’abitudine. Non resta anche in questo caso che restare sintonizzati alle prossime tappe di questo progetto che ormai tanto sotterraneo non è fortunatamente più.
Si precisa che lo spettacolo Overload vede la collaborazione di stagione Liberty-Associazione Agorà con ATER per la programmazione di Teatro Laura Betti di Casalecchio.

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