di Maurizio Matteuzzi
L’America latina brucia. Non che l’ottobre sia rosso, questo no, ma che sia un ottobre ribelle è certo. Cosa ha spinto alla protesta gli studenti, gli indios, le donne, le classi popolari e le classi medie in Ecuador, Cile, Perúñ, Bolivia, Haiti, Honduras, fino a Panama e Costa Rica e, su un piano solo elettorale, Argentina, Colombia, Uruguay? Paesi diversi, governi diversi, disimpegni economici diversi, storie diverse.
Alcuni hanno già capito tutto. Il segretario dell’Osa, il “socialista” uruguayano Luis Almagro, ha scritto che “la presente corrente di destabilizzazione dei sistemi politici del continente ha la sua origine nella strategia delle dittature bolivariana e cubana”. Piñera in Cile, Lenín Moreno in Ecuador, Iván Duque in Colombia, Bolsonaro in Brasile concordano. In realtà a Caracas e l’Avana hanno ben altro a cui pensare.
Il “fantasma” che percorre l’America latina forse non ha la faccia del Che Guevara e neanche di Hugo Chávez. I moventi sono diversi, ma i catalizzatori sono comuni anche se la “chispa”, la scintilla, è apparentemente modesta. Quel fantasma che vaga per l’America latina appiccando incendi non canta l’Internazionale ma grida forte e chiaro: “No más”, basta.
I tempi delle vacche grasse per i paesi produttori di materie prime sono finiti con la crisi, saltano fuori i Bolsonaro, i Moreno, le mefitiche sette evangeliche, ricompare un altro fantasma che in America latina si credeva estinto, l’FMI. Una volta con un ottobre così i militari avrebbero già risolto la situazione e “riportato l’ordine costituito”. I tempi sono cambiati.
L’America latina non è il continente più povero ma sì il più diseguale. Un paio di dati fra i tanti: il 10% più ricco arraffa IL 70% della ricchezza; l’ Indice Gini, che misura il livello di diseguaglianza, rivela che solo due dei 10 paesi più diseguali al mondo non sono in America latina (Sudafrica e Ruanda). Aggiungeteci che quest’anno la regione avrà una crescita economica dello 0.2%. Praticamente nulla.
Ecco spiegate le convulsioni di Piñera in Cile, di Moreno in Ecuador, di Macri in Argentina, di Bolsonario in Brasile, di Jovenel Moïses in Haiti, di Martín Vizcarra in Perú, del Frente Amplio in Uruguay, di Duque in Colombia, dello stesso López Obrador in Messico e purtroppo anche di Evo Morales in Bolivia, senza dimenticare Maduro in Venezuela e Díaz Canel a Cuba.
Come ha detto Joseph Stiglitz, Nobel per l’economia, “per 40 anni, le elites nei paesi ricchi e poveri promettevano che le politiche neoliberiste avrebbero portato a una crescita economica più rapida e così i benefici sarebbero sgocciolati in basso per cui ciascuno, inclusi i più poveri, sarebbe stato meglio. Adesso che l’evidenza è davanti agli occhi, ci si può meravigliare se la fiducia nelle elites e nella democrazia sia sprofondata?”
Quando cadde il muro di Berlino, giusto 40 anni fa, ci spiegarono che il neo-liberismo aveva vinto e la storia era finita. L’ottobre ribelle dell’America latina – e non solo l’America latina – racconta che il neo-liberismo è malmesso anche se non è morto, ma almeno la storia ha ripreso a camminare.
Questo articolo è stato pubblicato dal sito svizzero Area Online