Catalogna: l'eccezione che serve all'Europa

6 Novembre 2019 /

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di Silvia De Bianchi
La sentenza dello scandalo
Nelle scorse settimane molti hanno visto l’immagine di una città da cui si levavano colonne di fumo, un elicottero della polizia sorvolare le luci della città da un capo all’altro, barricate di fuoco. Se non ci avessero detto che era Barcellona, avremmo pensato che non si trattasse di Europa, ma di un luogo lontano nello spazio. Vedere in un teatro dell’opera uomini e donne alzarsi in piedi e chiedere la libertà di politici incarcerati alla fine della Turandot ci porta invece indietro nel tempo, all’epoca delle proteste contro le monarchie, come quella Asburgica, e invece siamo sempre a Barcellona, nel 2019. Al 25 ottobre 2019 risultavano 586 feriti di cui 7 in gravi condizioni e 201 arrestati di cui 33 si trovano in detenzione preventiva. [1] Il bilancio si è aggravato nelle ultime giornate.
La massiccia protesta in Catalogna è scoppiata dopo la pubblicazione lo scorso 14 ottobre della sentenza a carico di politici e attivisti catalani. In Catalogna, e non solo gli indipendentisti, ormai li chiamano “prigionieri politici”, nel resto della Spagna “politici arrestati”. I loro nomi sono Jordi Sánchez, Jordi Cuixart, Oriol Junqueras, Joaquim Forn, Dolors Bassa, Raül Romeva, Jordi Turull, Josep Rull i Carme Forcadell, tutti in prigione preventiva da due anni. Per loro pene dai 9 ai 13 anni per sedizione e per alcuni anche per malversazione per aver organizzato il referendum del 1 ottobre 2017. Alcuni di loro, Rull, Turull, Sánchez e Forn sono in sciopero della fame da circa due settimane. Il Tribunal Suprem presieduto da Manuel Marchena ha disposto così 100 anni di prigione per alcuni dei protagonisti dell’organizzazione del referendum.
I membri dell’ex governo in carica nel 2017 Antoni Comin, Lluis Puig, Meritxell Serret e Clara Ponsatí e l’allora Presidente della Generalitat Carles Puigdemont sono ancora in esilio. Altre due donne che hanno scelto la via dell’esilio, Anna Gabriel, membro della CUP ed ex deputata del parlamento catalano e Marta Rovira, che ha lasciato il Paese quando era Segretaria generale del partito Esquerra Republicana de Catalunya. Tutti i politici in esilio si incontrano regolarmente e cercano di internazionalizzare la loro causa. Puigdemont è attualmente ricercato con un euroordine che è stato inviato a un giudice belga, che dovrà dare successive disposizioni a partire dal 29 ottobre 2019. Dovrà sempre rispondere del reato di sedizione e malversazione, ma non di ribellione. Quel capo di imputazione, la sedizione (a dirla tutta l’accusa rappresentante lo Stato spagnolo voleva infliggere ribellione con pene fino a 30 anni) non mette d’accordo la Spagna.
L’opinione pubblica spagnola è divisa tra chi sostiene che sia un’aberrazione, un’enormità per chi si è sempre professato non violento e non ha mai usato la forza e il sangue per difendere le proprie idee, mentre per molti è troppo poco. Soprattutto l’opinione pubblica di destra che storicamente è orientata sul Partito Popolare e più recentemente su VOX e Ciutadans, ritiene che sia una sentenza troppo morbida e che tutti gli indipendentisti, tutti quelli che hanno partecipato al referendum debbano finire in prigione “perché hanno disobbedito alle leggi” e “perché l’unità di Spagna non si può rompere”.
L’effetto della sentenza è totalmente negativo, avendo sdoganato posizioni estremiste e sollevato l’indignazione popolare dentro e fuori della Catalogna. La mancanza poi di una risposta affermativa ai negoziati da parte di Pedro Sanchez sta portando alla radicalizzazione del movimento catalano. Un problema politico è stato affrontato puramente da un punto di vista giuridico, in modo peraltro discutibile perché sembra ledere diritti umani fondamentali (ci sarà sicuramente una richiesta di revisione a Strasburgo) e comunque dovrebbe preoccupare qualsiasi sedicente democratico. In Italia, ad esempio, l’Associazione Antigone che fa parte dell’International Trial Watch [2] ha definito le pene come “spropositate”. [3]
Per comprendere quello che sta accadendo in queste convulse giornate bisogna tornare indietro nel tempo.
L’antefatto
Sono passati più di due anni dal 20 settembre 2017. Quel giorno la Guardia Civil ha fatto irruzione negli uffici del dipartimento di economia della Generalitat e quando ha provato ad uscirne ha trovato migliaia di manifestanti che spontaneamente avevano deciso di accogliere la proposta dell’ANC (Assemblea Nazionale Catalana) di radunarsi sotto quegli uffici nel pieno centro di Barcellona. [4] La protesta, sempre nel segno della non violenza (nessuno fu fermato né arrestato in flagranza proprio perché stava solo manifestando), ha però chiaramente messo la parola fine ad una prospettiva di risoluzione a breve termine e ha aperto la via della repressione da parte dello Stato.
Di fatto il movimento indipendentista, nonostante quello che si possa pensare in sé dell’indipendenza catalana, rappresenta una resistenza allo Stato spagnolo e una resistenza, come vedremo, in un certo senso necessaria. Jordi Sánchez e Jordi Cuixart si sono resi colpevoli di aver fatto un comizio la sera del 20 settembre e di aver domato una folla che altrimenti non si sarebbe mossa e non avrebbe permesso l’uscita della Guardia Civil dal palazzo. Ecco, i due repubblicani sono finiti in carcere per questo, anche se loro sostengono di esserci finiti per professare le loro idee, qualcosa che potrebbe accadere di nuovo, magari in un altro contesto e per una manifestazione su altri temi, o per uno sciopero. E allora il brivido che scende dietro la schiena anche dei politici di Podemos è incarnanto dalla seguente inquietante domanda: “E se questa sentenza aprisse definitivamente un vulnus nella possibilità dell’esercizio della libertà di espressione e di manifestazione?”.
E così, il miracolo compiuto dalla giudizializzazione di un fenomeno politico, è stato quello di compattare le forze democratiche del Paese: da una parte i partiti indipendentisti baschi e catalani con Podemos, e dall’altra PP, Vox, Ciutadans. Il loro bersaglio comune in questo momento di campagna elettorale è Pedro Sanchez: i primi lo attaccano per non voler concedere l’amnistia e per non volersi sedere a negoziare con l’attuale Presidente in carica della Generalitat, Quim Torra, in merito alla possibilità di dare ai catalani il diritto di decidere sulla loro autodeterminazione; le forze conservatrici e neofranchiste invece accusano Sanchez di incapacità, e per domare la rivolta invocano l’innesco dello Stato di eccezione, la cosiddetta Legge di Sicurezza Nazionale, prevista dalla Costituzione spagnola. [5]
La situazione si complica
Un dato è certo, nessuno dei governi che si sono succeduti, né quello di Sanchez né quello precedente di Rajoy, è riuscito a gestire il problema politico. Un problema che nel frattempo sta diventando un bubbone perché si è scelto di decapitare le teste dell'”esercito” indipendentista, senza le quali è impossibile trattare una tregua o una pace. Siamo in una fase di anarchia? No, non esattamente. La grande forza del movimento indipendentista catalano sono i CDR, i Comitati per la Difesa della Repubblica, formati da comuni cittadini. Finora c’era stata una buona coordinazione tra gli indipendentisti nelle istituzioni e i membri dei CDR, ma la strategia messa in atto da Madrid di assoluta chiusura con la Generalitat ha fatto sì che i CDR si stiano poco a poco distanziando dai politici delle istituzioni. Va detto però che al momento non esistono azioni violente rivendicate dai CDR.
Nel settembre 2019 sette membri dei CDR sono stati arrestati preventivamente e accusati di terrorismo, [6] così come la stessa accusa probabilmente sarà mossa a Tsunami Democràtic, [7] piattaforma che ha coordinato con una app migliaia di persone per recarsi a El Prat lo scorso 14 ottobre e che è sotto inchiesta dell’Audiencia Nacional . Il sito della piattaforma è stato oscurato, cosa che però non ha impedito la ricreazione della stessa sotto un altro dominio. [8] Pratiche che siamo abituati a vedere non certo in Europa. L’obiettivo dello Stato è quello di spazzare via i CDR, la forma autorganizzata del movimento, fatta da uomini e donne comuni, e qualsiasi tipo di organizzazione di massa della protesta.
Proprio il 27 ottobre il ministro degli interni Grande-Marlaska ha fatto l’infelice accostamento della violenza usata nei Paesi Baschi con quella sperimentata nelle ultime settimane in Catalogna, affermando che l’impatto di quest’ultima fosse addirittura maggiore. Accostamento che ha fatto indignare non solo familiari delle vittime del terrorismo basco e indipendentisti catalani, ma anche la sindaca di Barcellona, Ada Colau,e il Partit de Socialistes de Catalunya (PSC). [9] Con l’inasprimento delle pene per un movimento non violento, centinaia di arresti e la totale chiusura a una soluzione di dialogo, lo Stato sta di fatto incoraggiando azioni violente, perché tanto le pene sarebbero le stesse. A quel punto sì, potrebbe essere anarchia, oltre che la prova definitiva dell’incapacità politica del governo di Pedro Sanchez.
Già nel 2017 il governo di Mariano Rajoy, seguendo un approccio legalista e che nei fatti però andava ben oltre il rispetto delle leggi costituzionali, mostrava elementi di deriva autoritaria. Abbiamo da una parte gli indipendentisti che che perseguono l’obiettivo di organizzare diversametne la cosa pubblica, nel merito con un ordinamento repubblicano e nel metodo con la non violenza, dall’altro uno Stato che tenta di reprimere questo movimento con pene giuridiche sproporzionate e di conservare il potere attivando una repressione poliziesca che in taluni casi sembra travalicare i limiti dello Stato di diritto..
I diritti umani sembrano essere in pericolo. Amnesty International ha già denunciato più volte la violazione dei diritti della persona di fronte all’incarceramento preventivo di Jordi Sànchez e Jordi Cuixart. [10] Secondo i dati presentati da Som defensores, tra il 14 e il 20 ottobre 2019 ci sarebbero stati almeno 122 casi sospetti di violenza da parte della polizia nel corso delle proteste contro la sentenza; al momento si stanno valutando i casi uno per uno e, tra essi, soprattutto quelli che erano mirati a castigare, minacciare e umiliare i manifestanti senza lo scopo di disperderli. [11]
Il conflitto tra lo Stato e il governo della Generalitat è dunque politico.
Il patto rotto
Con l’esumazione di Franco dalla Valle de los Caídos lo scorso 24 ottobre, [12] la Spagna ha appena cominciato a fare i conti con la sua storia e con quel modello costituzionale del 1978 che doveva essere integrato dall’Estatut catalano del 2006 votato dai cittadini e approvato dal Senato anche con i voti del PSOE. L’Estatut del 2006 è stato fatto a pezzi dal Partito Popolare e dal Tribunal Constitucional nel 2010. Il patto tra lo Stato e la Generalitat, l’equilibrio tra potere centrale e autonomia su cui poggia la Costituzione del 1978 si è rotto in quel momento. [13] Questo però è un quadro parziale.
Occorre chiedersi il perché di una scelta così radicale che non ha lasciato spazio alla mediazione politica, ma solamente alla polarizzazione delle posizioni e ad una rottura difficilmente risanabile. La ragione della centralizzazione dei poteri da parte dello Stato spagnolo deve ascriversi non solamente agli equilibri interni dello Stato, ma anche alle scelte economiche e finanziarie generate dalla crisi bancaria durata fino al 2014. Di fatto, per restare nell’Europa dell’austerity, la Spagna si è fatta carico del debito privato delle banche, ha tagliato salari e servizi dei lavoratori e ha centralizzato il più possibile la gestione delle risorse statali. In questo quadro, dunque, la Generalitat ha dovuto di fatto rinunciare alle competenze dell’autogoverno che erano state sancite dalla Costituzione e dall’Estatut del 2006.
Addio alle politiche energetiche alternative, addio ai fondi per le politiche sociali e di integrazione, addio all’abbandono del nucleare e addio anche al rispetto dei patti tra lo Stato e il governo della Generalitat, al riconoscimento della peculiarità storica, culturale e linguistica della regione. Molte rivendicazioni del movimento indipendentista sono contro le politiche di austerità europee, per il femminismo e per la costruzione di un’alternativa al capitalismo neoliberista. Nulla a che vedere con l’etnia. Oggi non c’è un nazionalismo etnico catalano come motore che alimenta questo conflitto. La lingua catalana, così come quella basca, è difesa dalla stessa Costituzione del 1978 e dall’Estatut in vigore.
I giovani che scendono in piazza e costruiscono barricate hanno tra i 16 e i 24 anni nella maggior parte dei casi. Dicono di lottare per la libertà, contro l’oppressione e per un futuro migliore dove i diritti vengano rispettati. Al di là di quello che hanno fatto nei disordini delle scorse settimane – e di cui risponderanno individualmente in sede penale – questa è la generazione del 1 ottobre, sono i ragazzi e le ragazze caricati dalla polizia, che quel giorno hanno visto la violenza delle forze dell’ordinecontro donne e anziani, contro le loro madri e le loro nonne. Finché non si accetterà il dato che l’uso della forza repressiva dello Stato è stata sproporzionata agli occhi di milioni di testimoni, sia il 1 ottobre 2017 sia successivamente, non si comprenderà cosa sta succedendo, non si farà giustizia e non ci sarà alcun passo in avanti nella risoluzione del conflitto.
Il ruolo dell’Europa
L’omertà da parte delle più alte cariche delle istituzioni a Bruxelles sulla repressione e l’incarceramento di membri del governo e dei presidenti di Omnium e ANC deve leggersi anche in questa chiave. Occorre riflettere sul fatto che finora non si sia potuto neanche porre il tema catalano all’ordine del giorno dell’Europarlamento. È un tabù. [14] In Europa il tema catalano fa paura, disturba, crea un problema. E, come spiego più sotto, non perché davvero possa generare automaticamente un effetto domino in altri paesi o perché la Russia possa mettere le mani su fette di capitale europeo (potrebbe farlo senza dover destabilizzare politicamente la Spagna), ma perché l’apertura di un processo costituente, la discussione di modelli alternativi di economia e tecnologia crea un nuovo immaginario nei cittadini di paesi dove un cambiamento della classe dirigente è richiesto dall’opinione pubblica.
La libertà d’espressione e di opinione non è minacciata solo in Catalogna e nel resto della Spagna, ma anche in tutta Europa. Il movimento indipendentista catalano sta resistendo nonostante questo attacco, anzi sta crescendo. Acquisisce sempre più sostegno anche da chi non si professa indipendentista, ma difende il dialogo, da chi difende il diritto all’autodeterminazione e i diritti fondamentali, non solo nei Paesi Baschi con cui da sempre c’è una solidarietà profonda, ma anche a Valencia e a Madrid. La Spagna sta percorrendo un lungo cammino di cambiamento ed è destabilizzata politicamente. È un processo lungo che non finirà tra qualche mese, è un processo che inevitabilmente cambierà anche l’Europa.
Gli errori degli indipendentisti
Il movimento indipendentista, preso com’è dalla lotta per la sopravvivenza non ha saputo spiegare in modo approfondito le sue ragioni fuori dalla Catalogna. Carles Puigdemont e i dirigenti del movimento si aspettavano una mediazione da parte dello Stato, forti della mobilitazione di più di 2 milioni e mezzo di persone. Questa mediazione non è mai arrivata, è arrivata solo repressione. Un’ingenuità? Forse.
Forse la necessaria conseguenza del fatto che il movimento catalano è non violento nella sua essenza e, non usando armi, può solo contare sulla separazione dei poteri e la negoziazione politica. E di questo il governo spagnolo è perfettamente consapevole e utilizza ogni mezzo per reprimere l’opposizione. Arrivando, anche con l’assenso dei vertici Europei, a continuare a classificare la situazione come qualcosa di interno alla Spagna, quando i più di due milioni di voti nelle elezioni europee del 2019 che sono andati a Carles Puigdemont e a Oriol Junqueras non trovano rappresentanza nel parlamento europeo per questa precisa situazione, che a questo punto di interno alla Spagna ha ben poco.
Un ampio fronte democratico
Per il momento sicuramente sarebbe auspicabile il rafforzamento di un fronte democratico ampio, che veda i partiti indipendentisti alleati con la formazione dei Comuns, contando così su 78 seggi nel parlamento catalano e che possa per lo meno richiedere con più forza al governo centrale il rispetto dei diritti democratici e la possibilità di aprire negoziati. Occorre chiarire che, se anche la formazione dei Comuns, guidata da Ada Colau in Catalogna, non può certo essere definita indipendentista, è però nettamente contraria all’applicazione del 155, l’articolo della Costituzione spagnola che consente in determinate circostanze allo Stato centrale di controllare una comunità autonoma, e a favore di un’amnistia dei prigionieri politici. Questo fronte democratico ampio, accompagnato da manifestazioni di massa, è l’unica speranza che resta per riaprire una via al dialogo. Ma questa è una possibilità che si potrà verificare solamente dopo le elezioni nazionali del 10 novembre 2019.
Per ora la magra consolazione del movimento indipendentista è quella di aver sfatato il mito secondo cui la dirigenza del governo della Generalitat si sia macchiata di ribellione. Non essendoci nessun tipo di esercito dietro alle proteste, non potendo fermare in nessun modo più di due milioni di persone se non arrestandole tutte, siamo di fronte “semplicemente” a una lotta di indipendenza. Per la prima volta (almeno per ora e speriamo per sempre) priva di spargimenti di sangue mortali. Di fatto lo Stato sta applicando e testando meccanismi di difesa, andando però poi oltre e adottando misure repressive e illegali e usando una giustizia altamente politicizzata. Se il movimento in difesa dei diritti democratici in Catalogna dovesse riuscire a superare questo ostacolo e a garantire la prosecuzione delle proteste, a Madrid resterebbe solo l’opzione militare e/o l’applicazione di leggi speciali. È auspicabile che si trovi una soluzione politica al conflitto prima di quel momento con l’intervento della comunità internazionale.
Il tipo di processo politico in atto è basato su vuoti normativi (ad esempio, la Costituzione del 1978 non vieterebbe esplicitamente di investire come presidente a distanza Puigdemont) e stati di eccezione (per la prima volta dal 1978 è stato applicato l’articolo 155 della Costituzione, però evidentemente ben oltre le competenze da esso regolate, come ad esempio l’imposizione dell’uso del castigliano nei documenti dell’amministrazione pubblica, il divieto di usare in tv e stampa parole come “prigionieri politici” o definire Puigdemont come “presidente”, o il divieto del “giallo” (groc) nelle strutture pubbliche, simbolo che chiede la rimessa in libertà dei politici arrestati). Non c’è una situazione paragonabile a questa in Europa, anche in quegli Stati dove ci sono spinte autonomiste o addirittura secessioniste.
Non c’è neanche un movimento così in Europa, di massa, trasversale che coinvolge tutto lo spettro politico, ad esclusione della destra conservatrice e neofranchista. Un movimento capace di bloccare la frontiera con la Francia e congestionare l’aeroporto di Barcellona, di bloccare le cinque arterie più importanti della Catalogna, di raccogliere uomini e donne di tutte le età che camminano per chilometri in marcia verso Barcellona, di bloccare treni ad alta velocità e fare una mobilitazione ogni giorno per settimane e in diverse città simultaneamente.
Lo spauracchio dell’effetto domino
A mio avviso, non sarebbe possibile replicare il caso catalano in altri paesi europei e dunque allontanerei per sempre il dubbio dell'”effetto domino” che tanto preoccupa anche chi si professa difensore dei diritti umani. Al contrario, sembra più preoccupante che ci siano prigionieri politici nel 2019 in Europa. Casomai se altri casi di “rivolta” ci saranno, assumeranno altre forme e saranno fenomeni populisti prodotti dalla crisi economico-politica, come il caso dei gilets jaunes in Francia, ma non prodotti per imitazione del caso catalano, in quanto quest’ultimo è una lotta per l’indipendenza e per la difesa di diritti giuridici e democratici che passano per una riforma della Costituzione e un referendum concordato (proposta che Madrid ha finora rifiutato). Una lotta in un paese che fino a 40 anni fa era una dittatura. Non è una lotta etnica, né basata sulla semplice richiesta di uno statuto finanziario differente. È la classica lotta di autodeterminazione di un popolo che racchiude in sé tutto l’arco politico dei sinceri democratici e soprattutto poggia su solide organizzazioni civili e comitati locali (Comitati di Difesa della Repubblica, CDR, presenti anche all’estero), non semplicemente su una élite politica. È un movimento con forti radici popolari e storicamente ben definito che nulla ha a che fare con il nazionalismo xenofobo.
Che la natura del conflitto catalano sia politica si evince dal fatto che, se lo Stato offrisse la soluzione di un referendum, una riforma della Costituzione e la rimozione delle strutture franchiste ancora presenti, il conflitto catalano non si darebbe in queste proporzioni. Anzi, probabilmente non si sarebbe mai arrivati a questo punto. Non bisogna dimenticare infatti che, a prescindere dall’orientamento politico e dal fatto che siano indipendentisti o meno, la stragrande maggioranza di chi vive in Catalogna ha simpatie repubblicane. Per ricucire questa lacerazione del tessuto sociale in Spagna e per costruire un ponte tra Barcellona e Madrid un grande cambiamento è necessario e l’Europa deve dibattere su temi così fondamentali e che hanno rappresentato un avanzamento non solo nelle assemblee costituenti dopo il secondo conflitto mondiale ma primariamente nella formazione dell’Europa stessa, dei suoi principi democratici. Rinunciare al dibattito significa purtroppo che la democrazia parlamentare sta morendo. Anche a Bruxelles. [15]
Con un comunicato emesso il 21 ottobre 2019 la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha espresso la sua preoccupazione per gli attacchi subiti da numerosi giornalisti e per l’uso sproporzionato della forza usata dalle forze di polizia in Catalogna nelle ultime settimane. [16] Tuttavia, esprimere preoccupazione non basta di fronte a questa situazione, occorre l’apertura di un dibattito in sede di Parlamento Europeo. Nel pieno rispetto dei valori democratici.
L’unicità dal punto di vista storico del caso catalano consiste nell’essere il primo processo sistematicamente pacifico di indipendenza da uno Stato sovrano nella storia europea. L’opportunità che si può cogliere è quella di colmare una lacuna giuridica che porterebbe alla regolamentazione dei processi di riconoscimento dell’autodeterminazione attraverso complicati meccanismi legali che però garantirebbero l’assenza di violenza. Tradurre questo in regole riconosciute a livello internazionale tra paesi membri eviterebbe imbarazzi diplomatici e la paura che molti cittadini sono inutilmente costretti a vivere, la violenza e la sofferenza che la repressione infligge ingiustamente.
Eviterebbe inoltre la lacerazione di un tessuto sociale, introducendo criteri riconosciuti a livello internazionale per la negoziazione. Una negoziazione che non porterebbe magari alla nascita di un nuovo Stato, ma ad una confederazione di repubbliche nella penisola Iberica, tutte dentro l’Unione Europea, oppure che lascerebbe intatta l’unità dello Stato monarchico, ma sempre dopo essere passati per un processo di votazione piuttosto che di repressione. Che cosa ne pensi la Casa Reale spagnola di questo, è un capitolo che si aprirà solamente se il movimento catalano resisterà a quest’ondata repressiva. Quello che sta accadendo in Catalogna dunque non rappresenta una semplice un problema politico, o il regolamento di conti interno a uno Stato con il franchismo, ma l’eccezione che forse serve anche all’Europa per marcare un progresso storico epocale dal punto di vista del diritto e della politica.
Note

Questo articolo è stato pubblicato da Micromega online il 28 ottobre 2019

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