Quando si fece crescere il Sud innescando crescita in tutta l'Italia

15 Ottobre 2019 /

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di Isaia Sales
Il 13 settembre del 1972 compariva sul Corriere della Sera un commento a una previsione dell’allora ministero del Bilancio: entro il 2020 il divario economico tra Nord e il Sud sarebbe stato eliminato e l’Italia si sarebbe finalmente presentata al mondo come una nazione uniformemente sviluppata; avrebbe compiuto, cioè, la sua reale unificazione a 160 anni da quella statuale e istituzionale.
Quella previsione si è mostrata del tutto sbagliata. Siamo ormai a due mesi da quella fatidica data, a 47 anni da quell’articolo, e non solo la distanza non si è annullata, non solo non si è ridotta, ma addirittura (e in diversi campi) si è accentuata. L’Italia resta tra tutte le nazioni più industrializzate quella a maggiore differenziazione territoriale della sua base produttiva, ed è questo divario ostinato a confermarsi come un elemento di lunga durata e di maggiore continuità della nostra storia nazionale. E di maggiore pericolo per la sua stabilità e prosperità.
Con la differenza rispetto al 1972 che oggi le sue classi dirigenti (quelle politiche, quelle imprenditoriali e il suo ceto intellettuale) si sono da tempo arrese a vivere in una nazione a metà, come se avessero introiettato il carattere irreversibile della sua divisione. E addirittura a sanzionarla attraverso la realizzazione dell’Autonomia differenziata tra le sue Regioni, decisione che avrebbe reso gli italiani (uniti da Costituzione e Leggi) cittadini diseguali in base ai luoghi abitati. Autonomia che per ora sembra essere scongiurata nelle modalità con cui si intendeva realizzarla da parte del governo precedente.
Nel 1972 l’ottimismo che traspariva da quella previsione era abbastanza giustificabile. Tra il 1951 e il 1973 il Pil meridionale aveva registrato un incremento superiore a tutto quello verificatosi dal 1861 in poi. Nel 1951 il Pil pro-capite nel Sud era il 52,9 rispetto a quello del Centro-Nord, cioè la metà. Nel 1973 arrivò al 60,5 (quasi otto punti in più rispetto al 1951) un risultato mai più raggiunto negli anni successivi. Il Sud cresceva contro ogni pretesa di inconciliabilità tra la mentalità dei meridionali e lo sviluppo produttivo.
Perché si è rivelata sbagliata quella previsione del Ministero del bilancio? Forse perché i meridionali erano e restano fannulloni? O perché è impossibile portare lo sviluppo industriale in ambienti sociali degradati? O perché non ci sono state più risorse a disposizione? No, semplicemente perché si è smesso di investire in quell’area del Paese e di scommettere sulla sua industrializzazione. È stata, dunque, una scelta e non una necessità, una decisione non una costrizione, un orientamento politico ed economico non una fatalità. Nell’arretratezza di un territorio non c’è niente di ineluttabile e nessun dato negativo di partenza è impossibile da superare.
Sta di fatto che nel periodo di massicci investimenti pubblici e privati in tutti i territori che formano la nazione (compreso il Sud) l’Italia intera fece un incredibile balzo in avanti. E lo fece in quel trentennio magico che cambiò la sua storia, la sua posizione tra le nazioni dell’Occidente, la sua collocazione nell’economia mondiale. Di quel cambiamento epocale il Sud fu protagonista sia con i lavoratori che si spostarono al Nord sia con una radicale trasformazione dei suoi assetti produttivi e sociali, sia con la possibilità di maggiori consumi. Senza gli investimenti nazionali il Sud non sarebbe uscito dal suo Medio Evo; ma senza il contributo dei meridionali il nostro Paese non sarebbe assurto tra le grandi nazioni industriali. C’è stata una felice reciprocità di apporti nel periodo storico in cui l’Italia si è trasformata in potenza internazionale.
Poi sono venuti i guai per il Sud e per l’Italia. Si può tranquillamente affermare che il declino è cominciato lentamente appena fu scelta la strada di puntare sulla “locomotiva più veloce”, cioè di concentrare investimenti e strategie di sviluppo al Nord.
Insomma, tra le due scelte strategiche (investire nella parte più arretrata per far crescere l’intera nazione; oppure investire solo nella parte già sviluppata puntando sull’effetto di propagazione) la prima strada è stata di gran lunga la più solida e vincente.
È vero che ci sono stati periodi in cui il Centro-Nord è andato avanti anche quando il Sud non avanzava o arretrava. Ma non è mai capitato che il Sud crescesse mentre l’Italia arretrava, cioè non si è mai dato uno sviluppo meridionale con il resto del Paese in crisi. Insomma, la crescita del Nord non è mai automaticamente anche crescita del Sud, mentre quella meridionale si è sempre accompagnata a una crescita delle aree settentrionali. E quando si è scelto di affidare alle Regioni (negli anni settanta del Novecento) il compito di ridurre le distanze, esse si sono accentuate, perché nei territori arretrati l’autogoverno funziona solo con un ruolo attivo dello Stato centrale, altrimenti è una presa in giro. E quando (a partire dalla seconda metà degli anni ottanta) si è affidato ai fondi comunitari il compito di ridurre i divari, si è prodotto un altro fallimento. Non si può chiedere all’Europa ciò che non vuole più fare lo Stato nazionale. Il regionalismo ha delegittimato il meridionalismo, ed è stato illusorio affidarsi ai fondi comunitari per risolvere la più antica questione irrisolta della nostra storia nazionale.
Dunque, facciamo una rapida sintesi: in un’economia diseguale, la ricchezza di una nazione si forma attraverso il benessere di tutte le sue parti; solo in questo caso la ricchezza diventa generale, stabile e duratura. Se, invece, cresce una sola parte, la ricchezza non è né generale, né stabile, né duratura. Quando lo Stato italiano e la sua classe dirigente si sono posti seriamente il problema di allargare il perimetro geografico della crescita, dei risultati si sono raggiunti, il Sud si è mosso dalla sua staticità e ha dimostrato di poter ottenere performance di crescita anche superiori all’area più sviluppata. E l’Italia intera è stata proiettata tra le prime nazioni al mondo. Nel trentennio d’oro (1945/1975) l’Italia ha dato il meglio di sé perché si è presentata più forte e articolata di fronte alla competizione internazionale. Ma il Sud si conferma come un giacimento solo in parte esplorato della ricchezza nazionale. Se l’Italia non utilizza questa riserva produttiva resterà una “nazione a metà”, e le nazioni a metà prima o poi implodono, a partire dalla loro economia.
Bisogna capovolgere lo schema mentale della classe dirigente nazionale: per allargare la concezione dello sviluppo, si deve necessariamente allungare la visione territoriale dell’Italia. Altrimenti non c’è via d’uscita dal declino.
Questo articolo è stato pubblicato da ZoomSud.it il 1 ottobre 2019. La foto è di Andrea Bartoli, Farm Cultural Park, Favara. Murales dello street artist belga Roa

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