di Guido Viale
Greta Thunberg ha mosso le montagne. Un anno fa era una ragazzina isolata e solitaria che si sedeva tutti i venerdì davanti al Parlamento svedese con il suo cartello e il suo impermeabile giallo. Oggi è stata la protagonista del vertice dei cosiddetti Grandi della Terra, che lei ha fustigato come Gesù i mercanti del tempio. D’altronde quei “Grandi” non sono molto più che mercanti: vivono di do ut des e non vedono altro.
In mezzo c’è stata una serie ininterrotta di incontri con figure più o meno ai vertici di qualche organizzazione o istituzione europea che l’hanno per lo più (non tutti) omaggiata, senza trarne alcuna conseguenza, ma anche una gragnuola di insulti e villanie al suo indirizzo da parte di diversi media, fiduciosi nella accertata ignoranza del loro pubblico su quale sia lo stato effettivo del pianeta (e, di conseguenza, anche il loro). Ma quello che ha accompagnato e determinato la parabola ascendente di Greta è stata la comparsa, prima, e lo sviluppo dirompente poi di un movimento mondiale di giovani, per lo più studenti, che ha coinvolto (finora) quattro milioni di ragazze e ragazzi (almeno cinque, con la prossima scadenza del 27.9) e non dà alcun segno di ripiegare. Crescerà ancora, e molto, nei prossimi mesi, fino a che – speriamo – la staffetta non sarà passata in mano a una mobilitazione più generale, anche di adulti, e soprattutto di lavoratori, cittadine e cittadini, associazioni e comitati finalmente consapevoli dei pericoli che sta correndo il genere umano.
Per ora, comunque “il pallino” è in mano al movimento Fridays for Future e ai suoi comprimari. Non tutti se ne sono accorti, ma i temi che questo movimento solleva e continuerà a sollevare in tutto il mondo con crescente insistenza sono destinati a dominare il dibattito e un numero crescente di scelte politiche di qui in poi. Perché la crisi climatica e ambientale contro cui si batte è reale, incalzante e ineludibile. Chi continuerà a chiamarsene fuori finirà emarginato. Questo non riguarda solo i negazionisti dichiarati come Trump e Bolsonaro, ma anche quelli “nascosti”, che a parole riconoscono i cambiamenti climatici in corso (magari non la loro gravità), ma poi continuano a comportarsi come niente fosse: al governo, nelle istituzioni, nella vita di tutti i giorni.
Perché loro la risposta alle conseguenze (non alle cause) della crisi climatica ce l’hanno. Primo: respingere con la forza e con le leggi i migranti costretti ad abbandonare le loro terre dal degrado ambientale. Secondo, continuare a bruciare gas, petrolio e carbone fregandosene degli impegni presi, facendo i free riders mentre altri paesi dovranno affrontare costi e disagi di una più o meno convinta conversione produttiva. Terzo, usare la stretta verso i migranti per apprestare strumenti di repressione (come i decreti Salvini) con cui far fronte alle prevedibili rivolte che anche da noi il degrado dei territori e la crisi economica prodotta dalla stagnazione secolare non mancherà di provocare. Tre “soluzioni” che non risolvono nulla e fanno precipitare la crisi. Ma sul fronte opposto non tutto è così chiaro. E là dove di queste cose si è cominciato a discutere stanno venendo a confronto due prospettive divergenti.
La prima è quella che ripete Greta: dobbiamo far crescere la pressione su governi e istituzioni perché comincino ad agire. Loro sanno che cosa fare, ma non lo fanno. Che cosa occorre fare glielo dicono gli scienziati, ma non li ascoltano. Il fatto è invece che i governanti non sanno assolutamente che cosa fare; non ci hanno mai pensato. Ma non lo sanno nemmeno gli scienziati, che sanno benissimo (non tutti, ma i climatologi certamente sì) quello che sta per succedere se non si interviene e che hanno (alcuni di loro) anche messo a punto molte conoscenze e mezzi tecnici per farvi fronte. Ma non sanno e non possono sapere come. Perché ciò comporta la mobilitazione e l’attivazione delle popolazioni interessate, che è il cuore della politica (quella che i “politici” non fanno). Molti, soprattutto nel mondo industriale “più avvertito”, abbracciano questa posizione: fate in modo che i governi introducano incentivi e penalità per promuovere la conversione; al resto penserà l’industria, cioè noi, mossi dalla convenienza. E’ la green economy, la soluzione adottata con il protocollo di Kyoto (1997) che affidava a meccanismi di mercato la transizione verso un mondo ripulito dai combustibili fossili. E’ stata un fallimento.
Che cosa bisogna fare allora? Bisogna lavorare per mettere la scelta delle soluzioni da adottare nelle mani di chi è già o sarà interessato alla propria sopravvivenza insieme a quella di tutta la specie umana, a pagare il meno possibile i costi della transizione, mettendoli a carico di chi può permetterselo e soprattutto di chi è responsabile del disastro in cui ci ha precipitato: industria e finanza.
Le regole per farlo per ora sono elementari, quelle di Extinction Rebellion: “Dire la verità”: nessun politico può permettersi di spiegare ai suoi concittadini ed elettori le dimensioni effettive del disastro che incombe su tutti e poi continuare a fare come se niente fosse. Infatti, per fare un esempio, il Comune di Milano ha dichiarato l’emergenza climatica, ma si è ben guardato dallo spiegare alla cittadinanza che cosa significa. “Convocare le assemblee” (e soprattutto farle convocare dalle istituzioni): non solo per “dire la verità”, ma per esaminare insieme a tecnici e scienziati disponibili quali sono le soluzioni che si possono adottare localmente e quali quelle per cui occorre lottare a livello generale. “Agire subito”: non aspettare politica, istituzioni e imprese: ciò che si può fare subito lo si comincia a fare o a pretendere: a scuola, nel quartiere, nelle aziende, nei servizi pubblici, negli acquisti. Ed è moltissimo.
Questo articolo è stato pubblicato da Pressenza.com il 24 settembre 2019