La diseguaglianza non è un fatto naturale

17 Settembre 2019 /

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di Salvatore Cannavò
Dopo Il capitale nel XXI secolo, pubblicato nel 2013 e con 2,5 milioni di copie all’attivo, Thomas Piketty esce in Francia con un nuovo libro, anche questo monumentale, 1.200 pagine, che costituisce una prosecuzione ideale del primo: Capitale e ideologia.
E la tesi è chiara, già nel titolo, e nello sviluppo del lavoro di cui il quotidiano Le Monde ha offerto alcuni brani inediti: “La diseguaglianza non è economica o tecnologica, ma in primo luogo ideologica e politica”. Gli elementi che determinano le grandi ineguaglianze storiche, siano esse il capitale o il debito, il mercato e la concorrenza, il profitto e il salario, non esistono in quanto tali, ma rappresentano una costruzione sociale e politica, sintetizzano rapporti di forza politici, sociali e culturali. Intellettuali e ideologici.
Il nemico principale di questo approccio è quindi la litania che rilancia instancabilmente il fondamento “naturale” delle diseguaglianze, “come fanno un po’ ovunque le varie élites per mascherare il contenuto sociale della situazione economica e sterilizzare le istanze di cambiamento”. L’esperienza storica, invece, dimostra che le ineguaglianze “variano a seconda del tempo e dello spazio” e le “esperienze rivoluzionarie” che hanno permesso di ridurne la quantità e la qualità in realtà, per quanto fallimentari nel lungo periodo, nel momento della loro esplosione “hanno avuto un grande successo”. Del resto, basta osservare l’esplosione dello stato sociale a ogni ondata di rivolte popolari come dimostra il caso italiano degli anni 60-70 in cui si sono realizzate le maggiori conquiste sociali del Dopoguerra (la scuola per tutti, lo Statuto dei lavoratori, la riforma delle pensioni, dell’equo canone, la sanità gratuita, la psichiatria sociale, i diritti delle donne).
Piketty, però, non vuole riproporre un metodo ampiamente utilizzato dagli studiosi e intellettuali marxisti, per lo meno non nel suo senso (deteriore) di determinismo, per cui “lo sviluppo delle forze produttive è esso stesso ragione e misura della ‘sovrastruttura’ ideologica della società”. L’approccio insiste sulla “autonomia della sfera delle idee, quello ideologico-politico e quindi, a un dato stadio di sviluppo dell’economia e delle forze produttive, esiste una molteplicità di regimi ideologici e politici e quindi di ineguaglianze”.
Sono in realtà “sempre esistite, ed esisteranno sempre, delle alternative”. Ai vari livelli di sviluppo, “esistono molteplici modi di strutturare un sistema economico, sociale e politico, di definire le relazioni di proprietà, di organizzare un regime fiscale o educativo, trattare un problema del debito pubblico o privato, di regolare le relazioni tra le diverse comunità umane”. In particolare, “esistono diversi modi di organizzare i rapporti di proprietà nel XXI secolo e alcuni possono costituire un superamento del capitalismo ben più reale che la strada che punta alla sua distruzione senza preoccuparsi di quel che seguirà”.
Nel vivo della questione, comunque, Piketty sottolinea che “il progresso umano esiste, ma è fragile e può a ogni momento infrangersi sulle derive inegualitarie e identitarie del mondo”. Il progresso, ribadisce, esiste certamente: “Basta osservare l’evoluzione della salute e dell’educazione nel mondo negli ultimi secoli per rendersene conto: la speranza di vita è passata dalla media mondiale di 26 anni nel 1820 a 72 anni nel 2020. A inizio del XIX secolo la mortalità infantile colpiva attorno al 20% dei neonati nel pianeta, contro meno dell’1% al giorno d’oggi”. E si potrebbe continuare.
Allo stesso tempo, però, i reali progressi realizzati in termini di salute, educazione, potere d’acquisto, “mascherano immense ineguaglianze e fragilità”. “Nel 2018, il tasso di mortalità infantile sotto l’anno, era inferiore allo 0,1% nei Paesi europei, nordamericani e asiatici più ricchi, ma raggiungeva il 10% nei Paesi africani più poveri”. E ancora: “Il reddito medio mondiale raggiungeva i 1.000 euro mensili per abitante, ma era appena di 100-200 euro nei Paesi più poveri, e superava i 2-4.000 euro nei Paesi più ricchi”.
Soprattutto, questo progresso incontestabile, non deve far dimenticare che “questa evoluzione è accompagnata da fasi orribili di regressione inegualitaria”. Il secolo dei “lumi”, ad esempio, ha poggiato su “sistemi estremamente violenti di dominazione proprietaria, schiavista e coloniale”. E ancora oggi, superato l’incubo dell’apocalisse nucleare, “il mondo entra in un nuovo torpore, quello del riscaldamento climatico e di una tendenza generale al ripiegamento identitario e xenofobo, in un contesto di ripresa delle diseguaglianze”.
Ma, osserva Piketty, pensare che tutto questo sia inevitabile o necessario è assurdo: “Altre traiettorie e regimi più egualitari sarebbero stati possibili, e sono tuttora possibili”. “Il progresso umano esiste, ma è una lotta e deve innanzitutto appoggiarsi su una analisi ragionata delle evoluzioni storiche passate, con quel che di positivo o negativo queste comportano”.
Al fondo, l’argomento centrale dell’ideologia proprietaria – sostiene l’economista francese – forgiato dalla Rivoluzione francese in avanti è sempre lo stesso: “Se si comincia a rimettere in discussione i diritti di proprietà acquisiti, in nome di una concezione di giustizia sociale, non si rischia di non sapere più dove fermare questo processo pericoloso? Non si rischia di procedere verso l’instabilità politica e il caos permanente, che alla fine si ritorcerà contro i più deboli? La risposta proprietaria intransigente è che non bisogna correre questo rischio e che il vaso di Pandora della redistribuzione delle proprietà non deve mai essere aperto”. “Sulla base dell’esperienza storica – scrive Piketty – mi sembra che sia possibile superare questa risposta naturale e comprensibile, ma allo stesso tempo un po’ nichilista e poco ottimista sulla natura umana. In questo libro voglio convincere il lettore che ci si può poggiare sulle lezioni della storia per definire una norma di giustizia e uguaglianza più esigente in materia di regolazione e ripartizione della proprietà”. Del resto, è su questa “base pragmatica, empirica e storica che si sono sviluppate le società socio-democratiche del XX secolo”.
Il grande problema dell’ideologia proprietaria è che i “diritti di proprietà basati sul passato pongono spesso seri problemi di legittimità”. Lo si è visto con la Rivoluzione francese o con la fine dello schiavismo, quando da un giorno all’altro la legalità è stata rimessa totalmente in discussione. Ma il problema è che “indipendentemente dalla questione delle origini violente o illegittime delle appropriazioni inziali, ineguaglianze patrimoniali considerevoli, durevoli e largamente arbitrarie tendono a ricostituirsi in permanenza”. In uno sforzo di contemplare le ragioni che fondano l’ideologia proprietaria, Piketty propone di analizzarla per quello che è: “Un discorso sofisticato e potenzialmente convincente su alcuni punti […]. Ma allo stesso tempo è una ideologia inegualitaria che, nella sua forma più estrema e dura, punta semplicemente a giustificare una forma particolare di dominazione sociale, spesso in modo eccessivo e caricaturale”. È un’ideologia molto pratica per coloro che “sono in alto” nella scala sociale: siano essi gli individui o le nazioni ricche. “Il problema è che i loro argomenti e gli elementi fattuali presentati non sono convincenti”.
Studiando l’evoluzione di queste società proprietarie dal XIX secolo in Francia e negli altri Paesi europei, Thomas Piketty si propone di spiegare perché.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano l’8 settembre 2019

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