di Giulio Albanese
Mercenari e compagnie di ventura infestano oggi, più che mai, le periferie del nostro povero mondo, quei bassifondi della Storia contemporanea dove sopravvive in condizioni penose tanta umanità dolente. Essi costituiscono, alla prova dei fatti, una sorta di corporazione dell’illecito sulla quale sarebbe auspicabile riflettere, rappresentando nel suo insieme, un fattore altamente destabilizzante per non pochi Paesi, molti dei quali africani.
Chi scrive ricorda come fosse ieri la lunga conversazione che ebbe a Nairobi, alla fine degli anni ’90, con uno di loro, un certo Joe. L’incontro avvenne in un bar, dalle parti di Westlands, uno dei quartieri della capitale keniana. Magro allampanato, barbetta a pizzo, sguardo simpatico, questo signore aveva un passaporto sudafricano, ma in effetti era nato in Inghilterra dove aveva seguito tutti gli studi fino ad intraprendere la carriera militare. Successivamente si era congedato dall’esercito di Sua Maestà per raggiungere la moglie sudafricana a Johannesburg. Capelli ossigenati, pantaloni corti color panna, camicia nera sbottonata dalla quale affiorava una collana confezionata con strani amuleti e scarpe da tennis in pessimo stato, Joe sulle braccia aveva due grandi tatuaggi raffiguranti sull’avambraccio destro un elefante e sul sinistro un enorme coccodrillo, seminascosto dalla manica ripiegata.
Questo personaggio, a dir poco eccentrico, mi era stato segnalato da un collega della stampa australiana che lo aveva intervistato in Angola quando combatteva come mercenario della famigerata Executive Outcomes (Eo). Joe disse subito che aveva deciso di chiudere la partita una volta per sempre con i cosiddetti dogs of war (“cani da guerra”), appellativo attribuito ai moderni soldati di ventura che da anni imperversano nel continente africano. «Àrmati e viaggerai» era il loro motto. Nelle loro fila c’era di tutto: portoghesi, belgi, russi, inglesi, irlandesi, serbi, croati come anche africani dello Zimbabwe, Mozambico, Namibia. I maggiori centri di reclutamento erano a quei tempi in Inghilterra e Sudafrica.
«È gente disposta a tutto per i soldi poiché alle spalle di ogni mercenario c’è sempre una delusione: professionale, familiare, affettiva», raccontò Joe, mostrando la foto di sua moglie morta tragicamente nel corso di una rapina a mano armata alla periferia di Johannesburg. Nel 1986, essendo rimasto vedovo senza figli, decise di mollare il suo impiego di responsabile della sicurezza in un complesso alberghiero di prestigio, per fare il soldato di ventura; un mestiere che gli fruttò un bel gruzzolo, ma troppo rischioso per durare nel tempo.
Oggi Joe vive in una capitale africana dove dirige un’impresa di import–export, ma quando era nell’Eo, combatteva in Angola. Nel corso della conversazione a Nairobi raccontò che gli uomini dell’Eo, ai suoi tempi, erano circa 2.500, molti dei quali veterani di guerre civili che hanno marcato la storia postcoloniale africana: Mozambico, Liberia, Namibia… Un vero e proprio esercito di professionisti, al soldo di chi offre di più.
I mercenari, certamente, hanno sempre guadagnato bene. Stando ad un’inchiesta della rivista «New African», nel 1994, diciotto elicotteristi sudafricani operarono in Angola, firmando un contratto di 18.000 dollari mensili. «Può sembrare una cifra da capogiro – commentò Joe – ma, dopotutto, il rischio è davvero grande: durante gli anni trascorsi con l’Eo ho intascato molto, ma ho anche perso molti amici». Alcuni dei suoi compagni, spiegò con tono affranto, sono stati fatti prigionieri, altri hanno perso la vita.
In questo ultimo decennio vi è stata comunque una sporulazione di compagnie dedite al reclutamento di mercenari. Attualmente, ad esempio, nella Repubblica Centrafricana è operativa la Wagner Group, un’organizzazione di mercenari dell’ex impero sovietico. I suoi mercenari affiancano i contractor statunitensi, sudafricani e francesi e godono della benevola protezione dei caschi blu dell’Onu impegnati, con non poche difficoltà, a contenere i massacri e le pulizie etniche in atto nello stremato Paese africano. Peraltro, secondo fonti autorevoli della società civile, la Wagner Group – già attiva in Siria, Libia e Sudan – avrebbe siglato diverse intese per avere ragguardevoli emolumenti sulle materie prime centrafricane, come i diamanti e l’oro estratti dal sottosuolo.
Ciò nonostante, nessuna compagnia di mercenari ha mai raggiunto in Africa la notorietà di Eo. Il segreto del successo? La straordinaria capacità operativa dimostrata nel realizzare i contratti; una competenza, frutto, in gran parte, dell’esperienza maturata sul campo dagli ex appartenenti alle Forze Speciali dell’esercito del Sudafrica «razzista», tra cui il nefasto Battaglione 32, probabilmente la più famigerata unità militare che abbia mai combattuto in Africa. Anche se è stata ufficialmente sciolta il 31 dicembre del 1998, ancora oggi Executive Outcomes rappresenta il modello su cui si basano tutte le società militari private (Pmc), come quelle che hanno operato in Iraq e Afghanistan.
Secondo Mark Brown, un volontario statunitense di una importante ong, che conobbi in Sierra Leone nel 1998, questi moderni lanzichenecchi sono uomini senza scrupoli: «Per loro uccidere è un business e lo fanno perché esiste una costante crescita nel rapporto domanda-offerta». D’altronde il fenomeno non è affatto nuovo se guardiamo alla storia e la stessa etimologia della parola soldato lo lascia intuire. Molti dei dittatori africani vedono nei mercenari dei preziosissimi collaboratori. In effetti, la presunta etica di Eo – «azienda leader nei servizi di sicurezza per proteggere vite e comunità di persone» si leggeva sulla Web page aziendale (oggi non più online) – non ha mai convinto neanche i più ingenui.
In Sudafrica le Chiese cristiane hanno da sempre condannato l’operato dei mercenari, definendoli come «cani da guardia della segregazione razziale» o «mastini da guerra». A dire il vero, negli anni ’60 e ’70 i mercenari riuscirono a creare attorno alla loro professione un alone di mito o leggenda. Come il francese Bob Denard, patito per i colpi di Stato nelle isole tropicali dell’Oceano Indiano – con una particolare propensione per l’arcipelago delle Comore – o come Mad Max Hoare, celebre per aver soffocato la rivolta dei Simba nell’ex-Congo belga negli anni Sessanta.
Ma accanto a quelli che comunque sono pur sempre poco più che gruppi di sbandati pronti a tutto, sta emergendo un’altra figura di combattente a pagamento: il professionista della guerra, messo sotto contratto o alle dipendenze di private security, compagnie che, alla stregua di qualsiasi multinazionale, hanno proprie strategie di mercato, pubblicizzano il loro prodotto con show reel televisivi e stipulano regolari contratti secondo la legislazione internazionale.
Personalmente, non dimenticherò mai l’esperienza vissuta in Sierra Leone quando, nel marzo del 1999, volai su un loro elicottero Mi8 carico di armi e munizioni. Avevo chiesto un passaggio per raggiungere l’aeroporto di Lungi dalla foresta dove avevo incontrato degli eroici missionari saveriani. A dire il vero ero convinto che si trattasse di militari dell’Ecomog, la forza d’interposizione dei Paesi della Comunità Economica dell’Africa Occidentale, sotto comando nigeriano. E invece, chiacchierando a bordo con i due piloti e il mitragliere, scoprii le loro vere nazionalità: due angolani e un eritreo. Il loro capo mi disse in perfetto inglese che appartenevano tutti e tre ad una non meglio precisata compagnia di sicurezza e che si guadagnava bene.
Inizialmente pensavano che fossi solo un giornalista, ma quando rivelai la mia vera identità missionaria, con grande sorpresa, divennero affabili e addirittura cortesi. «Padre, credo che oggi io abbia fatto l’unica opera buona di tutta la mia carriera militare; mi riferisco al fatto d’aver preso a bordo un prete», disse l’angolano spiegandomi che uccidere per lui non era mai stato un problema.
Ascoltando le sue parole capii davvero quanto rischioso possa essere appaltare a società di mercenari le missioni di pace e di interposizione fra opposte fazioni come qualcuno vorrebbe in sede internazionale. Un’eventualità che, se dal punto di vista strettamente pragmatico ha indiscutibili vantaggi in termini di efficacia operativa, dall’altra ha ovvie e incontrovertibili controindicazioni di ordine morale.
Parlare della realtà dei mercenari, senza ipocrisie e falsi pudori, è opportuno se si vuole davvero scuotere le coscienze, combattendo la «globalizzazione dell’indifferenza», denunciata da Papa Francesco nel suo illuminato magistero.
Questo articolo è stato pubblicato dall’Osservatore Romano il 20 agosto 2019